Racconti extra-ordinari
Di Momi
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Racconti extra-ordinari - Momi
indice
RUMORE
PANICO
SECESSIONISMO
SENZA UNA RAGIONE
FORTUNATO
IL CINGHIALE
LO SPAVENTAPASSERI
ADRIATICO
L’ASSEDIO
PAS
MARTEDÌ
FLT
MARTINO
HI PLUS 34
...ad Alessandra, la prima a crederlo possibile.
RUMORE
Era moderno, il risultato di una serie di prismi un tempo bianchi, collocati gli uni sopra e dentro gli altri, con gli infissi celesti e l’interno dei terrazzi giallo pastello incassati come orbite oculari.
A guardarlo bene pareva un carcere.
Sorgeva sul lungo mare della città, angolo porto. Era una di quelle palazzine costruite negli anni ottanta da un noto trafficante di cemento del luogo.
Lunghi corridoi interni correvano come grosse arterie sulle quali si affacciavano gli ingressi delle varie abitazioni. Erano cunicoli bui, illuminati dalle fioche luci che segnalavano i vari interni, e lo facevano sembrare la cripta di un cimitero. Era claustrofobico.
Al piano terra erano collocate le attività commerciali come bar, sala giochi, pizzerie. Mentre al primo piano c’erano uffici e appartamenti. Dal secondo in poi solo abitazioni.
Rocco abitava al primo piano esattamente sopra la sala giochi che confinava con l’Excalibur, sottotitolato presuntuosamente The House Of Blues
.
L’impresa aveva costruito al risparmio, fregandosene dell’isolamento acustico oltre che di molte altre cose. I suoni correvano liberi lungo i desolanti corridoi amplificandosi, attraversando muri, infilandosi invadenti in ogni fessura.
I condomini resistevano a malapena un pugno di anni, alcuni solo pochi mesi, poi traslocavano.
Rocco condivideva una cosa che aveva sentito dire provocatoriamente da un politico, per risolvere il problema delle brutture architettoniche: Certi edifici dovrebbero portare il nome di chi li progetta
.
Faceva caldo, le finestre dovevano stare aperte. Non si poteva fare diversamente se si voleva dormire.
BOOOOMMMMM.
Il primo boato arrivava alle sette. Sembrava un colpo di cannone, ma non lo era, o il boato che segnala l’inizio e la fine dei fuochi d’artificio della festa del porto, ma era mattino. Era solo il risultato di uno scoglio che colpiva il cassone metallico di un camion vuoto.
Da anni il traghetto che portava materiali inerti dalla Croazia faceva la spola con il porto. Il via vai di pesanti tir lungo Calata Caio Duilio e la conseguente polvere e vibrazioni avevano completamente deformato e danneggiato il manto stradale e le abitazioni attigue. Proteste, picchetti, e polemiche nei quotidiani locali sui disagi subiti dagli abitanti della zona, servirono poco e niente. The business must go on.
La benna dell’escavatore raccoglieva gli scogli dal traghetto e li depositava nei camion: facevano il rumore di un colpo di cannone. Il tonfo riecheggiava in tutto il porto, facendoti vibrare lo sterno.
Il camion presto si riempiva e se ne andava ai cantieri. Ma la tregua durava il tempo di fare scorrere il camion successivo, incolonnato con gli altri, tutti pronti a riempirsi le pance.
Tutti gli abitanti del porto si erano oramai rassegnati. Persino i gabbiani non si scomponevano più di un tanto.
BOOOOMMMMM.
Rocco cominciava ad essere stanco di quel luogo.
BOOOOMMMMM.
Stava valutando seriamente l’ipotesi di traslocare prima di…
Ma se uno fosse stato duro d’orecchi, sarebbe arrivata alle otto in punto la seconda sveglia. Era la capitaneria di porto che tutte le mattine, sabato, domenica, Natale, Pasqua e tutte le feste comandate, secondo le ottuse procedure miliari, testava i motori e i tre tipi di sirene che sembravano i suoni di quei fucili spaziali venduti ai bambini alla fiera di San Nicola.
Alle 9 apriva l’estetista Silvana il cui portoncino era speculare a quello di Rocco. Spesso alcune clienti arrivavano prima della titolare e vi sostavano davanti, parlando di trattamenti, cosmetica e di quanto fosse furba ed aveva capito tutto
la Gregoracci. Chi cazzo era 'sta Gregoracci!?
Se fossero state sedute sul bordo del suo letto, non si sarebbe accorto della differenza tanto arrivava limpida la conversazione.
Sul suo stesso piano c’era Derna, una anziana signora sempre truccatissima nonostante l’età avanzata, sempre pronta a sedurre qualche coetaneo con ancora qualche cartuccia da sparare. Era sorda come un banco e proprio per questo urlava a squarciagola per dire qualsiasi cosa, tassativamente in dialetto. Viveva in simbiosi con due yorkshire sempre tesi, isterici e antipatici, forse proprio a causa del suo urlare.
Ogni volta che Rocco incrociava quelle mezze seghe di cani, facevano finta di niente, poi quando i suoi calcagni erano a pochi centimetri dalle loro bocche, improvvisamente fingevano un attacco feroce abbaiando e ringhiando idrofobi. Come facessero a vedere con tutto quel pelo davanti agli occhi, Rocco non riusciva a spiegarselo.
Avrebbe voluto schiacciarli con una pedata quei mezzi ratti, ma Derna tirava brusca il doppio guinzaglio urlando: <
Le domeniche mattina, specie quelle estive, Derna faceva pulizie, tenendo il portoncino d’ingresso spalancato per dare aria al suo appartamentino, che si surriscaldava troppo al sole del mattino che batteva sul suo appartamento implacabile.
Sorda com’era teneva il volume dello stereo altissimo, riecheggiando sulla tromba delle scale. Dammi solo un minuto/un attimo ancora...
urlavano i Pooh per non essere sopraffatti dalla voce di Derna.
Porco giuda! Possibile che nessuno dica nulla? Possibile che dia fastidio solo a me? Pensava ancora sdraiato nel letto.
BOOOOMMMMM! Mentre i camion se ne andavano avanti e indietro.
Il martedì c’erano le donne delle pulizie condominiali. Mentre pulivano i lunghi corridoi parlavano dei loro problemi familiari. Li conosceva, e oramai erano diventati un po’ anche i suoi problemi: la nuora non aveva il minimo rispetto… e poi …non era capace di condire un’insalata!
BOOOOMMMMM! Dentro di sé qualcosa stava cambiando.
Con la chiusura dei cantieri finalmente la pace?
Niente affatto. Il peggio doveva ancora arrivare.
Nel primo pomeriggio sotto il suo appartamento apriva la sala giochi. Era il turno dei trailer dei video games che in una giostra ossessiva attiravano i giovani che passavano davanti ai monitor luminosi. Stavano lì, inebetiti, sputtanando le loro misere paghette. Quelle macchine mangia soldi, urlavano i loro invitanti slogan, in una cozzaglia di suoni cacofonici e deliranti, tra stridii di pneumatici, sirene, urla di donne, spari e musiche sovrapposte. Il tutto sommato alle grida selvagge dei ragazzi traboccanti testosteroni. Le palle del bigliardo che puntualmente schizzavano fuori dal tappeto verde, pareva sfidassero la forza di gravità, rimbalzando proprio sotto il suo pavimento.
Qualche settimana prima, qualcuno strafatto di chissà quale nuova sostanza, si mise ad urlare a squarcia gola al microfono: Votate Persichetti! ripetendolo di continuo, ironicamente. Rocco si svegliò nel cuore della notte, quello stronzo l’aveva dato in pasto ad una rabbia frustrante, feroce. Gli alterò il respiro che lo mollò solamente il mattino, quando esausto si addormentò, inutilmente, perché era già ora di andare a lavorare.
BOOOOMMMMM! Dentro di sé qualcosa stava cedendo.
Accanto alla sala giochi c’era l’Excalibur, the house of blues. Ma avevano un concetto del blues tutto loro, visto che starpertreminuti
stupravano canzoni di ogni genere con il karaoke. Rocco provava pietà per queste miserie umane, prive di talento, che elemosinavano pochi minuti di notorietà. Con i loro latrati, imponevano violentemente al pubblico le loro velleità artistiche, la loro mediocrità.
Verso le ore venti, il gruppetto che avrebbe suonato di lì a poco, faceva una prova strumenti, abbozzando qualche pezzo del repertorio. C’era un gruppo, capitanato dal proprietario del locale e la sua Fender, che da anni, suonava sempre la stessa scaletta (moonflower, sultan of swing, another brick in the wall, cocaine, who stop the rain, hotel california…). Rocco era arrivato ad odiare pietre miliari della storia del rock, che prima di trasferirsi in quel monolocale aveva amato molto.
Era come se fosse dentro l’Excalibur tanto arrivava forte e chiara la musica. Tutte le sere. Da dieci anni.
Il tutto ovviamente andava a sommarsi ai rumori della sala giochi e al vociare assordante della gente che mangiava nei tavolini dell’atrio.
La musica sarebbe dovuta terminare alle ventiquattro, come da ordinamento comunale, ma non smettevano mai prima dell’una o le due. Gli avevano già ritirato la licenza un paio di volte proprio per questo.
Il tipo di locale pretenziosamente alternativo, attirava balordi da tutta la città. Dopo il concerto erano tutti fatti di cocaina, pasticche e alcool, e uscendo per fumarsi una sigaretta finiva che c’era più gente fuori che dentro. Ogni volta che la porta del locale si apriva e si chiudeva, era come se qualcuno togliesse e riattivasse a tutto volume l’alimentazione ad un impianto stereo.
Alle quattro del mattino il locale chiudeva, cacciando l’orda di unni che si riversava fuori barcollando. Le risse erano quotidiane. I pretesti per venire alle mani erano insignificanti e inspiegabili. Le colpe delle proprie miserie, stavano sempre dall’altra parte.
Il ballatoio su cui si affacciava il portoncino d’ingresso di Rocco era quasi al buio. Da sotto era quasi impossibile vedere qualcosa. Una sera svegliato da una tavolata di una dozzina di freschissime teste di cazzo partorite da appena sedici anni, urlanti in coro <
Tutte le sere, alla spicciolata, gli ubriachi avventori salivano sulle rispettive automobili. L’operazione richiedeva tempo e quando il silenzio regnava, le prime luci dell’alba rischiaravano l’est.
BOOOOMMMMM!! Il crollo era alle porte, lo sentiva.
Nell’appartamento adiacente, si era insediato un gruppo di studentesse del vicinissimo distaccamento universitario. Nel loro appartamento il cellulare non aveva campo e per potere telefonare uscivano sul ballatoio urlando le loro cose più intime ai quattro venti.
Santo dio! Quanto urlano gli italiani! pensava.
Litigavano con i propri fidanzati camminando nervosamente avanti e indietro sul ballatoio, pattugliandolo fino all’ingresso di Rocco. <
Il sabato sera avevano spesso ospiti, anche loro non avevano niente di meglio che fare del karaoke, come la disperante società giapponese che lo aveva inventato. Erano ragazze del sud, le struggenti canzoni strappa core, i cori in perfetto dialetto napoletano, le canzoni di Nino D’Angelo e Gigi D’Alessio, non lasciavano dubbi.
BOOOOMMMMM!!
Lo squallido palazzo sorgeva in un prestigioso quartiere del lungo mare, in totale disarmonia con le altre case. Dall’altra parte della strada c’era un grosso stabile, ex collegio, ora sede della Nuova Scuola Cattolica.
Durante l’ora d’uscita degli studenti il delirio collettivo del parcheggio selvaggio era oramai un rito quotidiano.
Era una scuola privata, ed era frequentata dalle arroganti famiglie bene della città, scimmiottata da quelle un po’ sceme, che facevano grossi sacrifici pur di esserci.
Ma se era vero che è meglio un buon esempio che mille parole
queste famiglie erano già in un mare di guai.
All’uscita dei ragazzi, tutti volevano parcheggiare sotto la scuola, nessuno aveva voglia di farsi pochi metri a piedi, parcheggiando civilmente.
Potenti auto e volgari suv che inquinavano come petroliere, sostavano chiuse a chiave apparentemente abbandonate, di traverso su marciapiedi, davanti agli ingressi di parcheggi, garage, abitazioni, impedendo l’entrata e l’uscita di qualsiasi mezzo. I clacson delle persone bloccate suonavano all’impazzata.
Quando Rocco provava a ricordargli che non erano soli su questo pianeta e che non avevano nessun diritto di bloccargli l’uscita per pigrizia, lo mandavano pure a quel paese. Se pioveva poi, la viabilità collassava con code che sfioravano il chilometro.
Rocco discuteva civilmente con questi campioni di italiani, invitandoli a comportarsi civilmente. La volgarità del parcheggio era direttamente proporzionale alla cilindrata della loro auto. Rocco odiava la loro ipocrisia.
BOOOOMMMMM!! Non si sentiva più tanto bene.
Ogni anno il palazzo veniva colonizzato da un’etnia diversa di prostitute. Ci fu l’anno delle africane, le sudamericane, le russe, ultime le cinesi.
Buffa la vita, in quel microcosmo condominiale, le più educate e silenziose erano proprio le prostitute. Facevano il proprio lavoro senza disturbare. Salutavano educatamente ogni volta che le si incrociava negli ascensori. Nei loro appartamenti c’era un gran via vai, dai giovanissimi non ancora patentati, su su fino ad anziani e distinti signori. Il condominio aveva due trombe di scale ed ogni piano era collegato con tutte e due, si entrava nel numero civico ottantacinque e si usciva dall’ottantasette.
Poi c’era la signora… Marisa, autoelettasi guardiano, portiere e giudice. Era ossessionata dal portone principale aperto. Riprendeva tutti gli inquilini che non lo chiudevano. Viveva barricata al terzo piano con manie di persecuzione da malviventi. Presidiava la sua postazione dietro a una delle finestre del suo appartamento, ligia al compito che si era auto imposta.
Il controllo sociale era totale.
Se gettavi la tua spazzatura differenziata nel cassonetto sbagliato, quando ti rincontrava, te lo rimarcava puntualmente. Era brutta come un uomo molto brutto. Bassa, tarchiata, capelli corti sale e pepe e faccia da ex pugile suonato oramai in pensione. Al posto del naso aveva un aborto di tubero, una escrescenza putribonda rossa e bitorzoluta. Negli ultimi anni camminava dentro una specie di girello per anziani carico come un mulo di borse per la spesa, ostentando difficoltà nel camminare. Vi deambulava con una mal celata agilità, che faceva pensare ad un artificio per suscitare commiserazione.
Come un vampiro, d’estate non usciva mai durante le ore di maggiore irradiazione solare, soffriva di una specie di psoriasi che le riempiva il viso di croste biancastre, lembi di pelle e macchie rosso sangiovese. Si desquamava al solo sentire l’odore del sole.
Quando proprio era costretta, usciva facendosi ombra sul viso con le mani, con giornali, ombrelli, foulard. Era un persona invadente, presuntuosa e falsamente educata, armata di una certa proprietà di linguaggio.
Una mattina all’alba che Rocco andava di fretta, gettò un piccolo sacchetto di rifiuti in un piccolo bidone porta-cartacce per passanti.
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<> disse la sentinella.
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Era sempre lì nella sua guardiola. Alle volte, quando rientrava tardi la sera, aveva la sensazione che lei fosse lì, dietro alle tende, al buio, a controllare. Ne era certo. La sentiva.
Tutto ciò avveniva da oramai troppo tempo, in un crescendo di rumori.
Non riusciva mai a dormire per più di un'ora consecutiva che un urlo, un colpo di clacson, un litigio lo svegliavano bruscamente. Gli ci volevano ore per riprendere sonno e non sempre ci riusciva.
Era veramente stanco di riposare così male. Tutte le notti.
BOOOOMMMMM!! Qualcosa nella sua mente si stava rompendo. Era destino.
Un acuto di chitarra alla Hendrix lo fece sobbalzare dal letto.
<<...let mi standing do you fire…>> cantava il falso Voodoo Child.
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Cercò, ribaltando una pila di documenti, la guida telefonica.
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Non sarebbe più riuscito a dormire, lo sapeva. Era troppo incazzato.
Compose il numero.
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Pochi secondi di pausa e la donna rispose <
Contemporaneamente un urlo che sfumò in una risata ubriaca provenne dall’esterno, proprio davanti al locale. Rocco sbatté violentemente la cornetta sul telefono schiacciandosi le dita, urlando per il dolore con i nervi tesi come pelli di tamburo.
Si vestì in fretta e furia. Indossò il lungo impermeabile di pelle nera e affacciandosi sul ballatoio chiese cosa diavolo stava accadendo e se potevano fare meno rumore vista la tarda ora.
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Era troppo.
Dentro di noi c’è di tutto: l’assassino, il santo, il buono, il cattivo, il vigliacco, l’eroe, il conservatore e il rivoluzionario. Poi è la vita ed i suoi imperscrutabili percorsi che toccano una di queste corde e fanno sì che entità apparentemente a noi estranee, ci possiedano.
Dentro la sua testa lo strappo muto, sordo e cieco fu quasi rumoroso, e una vita di buon senso, di pacifismo, scelto come filosofia di vita e non per naturale vocazione, si dissolsero nel nulla. Una tonnellata di violenza sottovalutata e repressa da secoli, travolse la sua mente ed il suo cuore e tutti quei valori, forse molto più grandi di lui.
<<…e no…adesso basta…>> farfugliava ad alta voce.
Sfilando dalla sua custodia il potente sovrapposto da tiro al piattello, lasciatogli in eredità dal padre, disse <<…a tutto c’è un limite>> mentre riempiva le tasche del giaccone di cartucce a palla per cinghiali.
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Inserì le due cartucce a pallettoni.
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Scese le scale con una calma improbabile. Tirò su il bavero per fare più impressione.
La palpebra sinistra si prese l’indipendenza dal cervello, iniziando a tremolare per i fatti suoi, facendo gli occhiolini al nulla.
Scapolò l’angolo dell’edificio.
Fece i quindici metri che lo separavano dal locale a lunghi passi decisi, mentre le code dell’impermeabile nero svolazzavano, non riuscendo più a nascondere il fucile.
Svoltò di nuovo.
Erano sorprendentemente vicini.
Ad alzo zero il primo colpo partì da solo. Il potente rinculo lo fece barcollare