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Tra di noi Central Park
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Tra di noi Central Park

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About this ebook

James Reed, giovane scrittore newyorkese in ascesa, sta ultimando il suo ultimo libro, quello che secondo la sua agente gli assicurerà il meritato successo. Separato e con un figlio, Liam, quattordicenne affettuoso, riflessivo e brillante, dietro le apparenze di padre attento e artista ambizioso, James cela un inconfessabile segreto: la passione per Nicole, l’affascinante fidanzata di Travis, suo amico fraterno.
È proprio la notizia improvvisa dell’imminente matrimonio tra i due a sconvolgere il delicato equilibrio che James era riuscito a organizzare nella sua vita: sente infatti di non poter più fare a meno di rivelare ciò che prova e a tal fine inizia a elaborare un piano diabolico che porti alla rottura tra i due.
Ma una serie di complicazioni e coincidenze di lì a poco lo investiranno come il vento gelido che soffia a Central Park in inverno. In un susseguirsi di colpi di scena dipanati tra incontri travolgenti, passioni irresistibili e opportunità inaspettate, James sarà costretto a ridefinire più volte non solo i suoi orizzonti personali, ma anche il significato dell’amicizia e dell’amore.
Romanzo piacevole e intrigante, che amalgama con eleganza, erotismo e ironia. L’autore scandaglia con irriverenza i ruoli e le aspettative di una generazione, tracciando un quadro in cui la città che non dorme mai è assoluta protagonista.
LanguageItaliano
Release dateJul 1, 2017
ISBN9788832920376
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    Tra di noi Central Park - Giuseppe Iacolino

    2005

    1

    Travis e Nicole dividevano tutto, ogni cosa, dalla più ovvia alla più impensabile. Badiamo bene, ho detto dividevano, non condividevano. Per essere fiscali e puntigliosi, come mi dice sempre mio figlio, ci terrei a precisare la differenza tra questi due aspetti. Nel secondo, condividere , due persone hanno in comune qualcosa, o nel significato meno generico, qualcosa in particolare e magari superficiale e poco rilevante ai fini utili e relazionali, come il profilo sui social network, per fare un esempio. Nel primo invece, dividere , ogni aspetto è completamente distinto. Loro però lo avevano portato un po’ all’eccesso. Tutto della loro relazione, ogni singola cosa era divisa, catalogata e sistemata in qualche modo negli angoli della loro vita, come della loro casa. Stavano assieme da cinque anni, nel senso che da cinque anni convivevano in un bellissimo appartamento nell’Upper East Side e ciò che avevano in comune erano proprio la casa, il letto nel quale dormivano e le bollette di gas e luce. Nient’altro. In realtà quelle della luce erano divise in modo davvero strano, perché in due stanze della casa, quelle che adibivano a studio e spazio privato, avevano due piccoli generatori che dividevano i consumi, così che ogni tre mesi potessero conteggiare minuziosamente il dispendio di energia. Per i bagni era lo stesso, perché ognuno aveva il proprio. Era ovvio che non potessero fare lo stesso per la sala da pranzo e la cucina, ma nessuno mi toglieva dalla testa che ci avessero pensato.

    A parte le cose ovvie, come il frigo, i fornelli o il tavolo da pranzo, cose davvero difficili da dividere, ma solo per mancanza di spazio, l’elenco era davvero lungo. Due armadi, due librerie, niente libri mischiati diceva sempre Travis, due macchine, due telefoni e addirittura due campanelli con suoni ben distinti. Inizialmente, quando Travis me lo aveva detto, non ci avevo creduto nemmeno io, poi ero andato a cena da loro con mio figlio e mi avevano spiegato che chiunque volesse andare a trovare l’uno o l’altra, poteva benissimo indirizzare le sue dita verso il pulsante giusto, disturbando così soltanto il diretto interessato. Il postino era quello su cui concentravano il loro odio, Nicole soprattutto, perché lui suonava ripetutamente e indistintamente su entrambi i campanelli e lei partiva come un fulmine ogni qualvolta accadeva, pronta a dilaniarlo. Lo fa apposta, gridava e non si dava pace. Ci si potrebbe chiedere per quale motivo, visto il loro particolare stile di vita, stessero ancora assieme, ma Travis e Nicole non davano il minimo segno di cedimento. Quello era il loro modo di affrontare la relazione, un modo strano ma funzionale. Patti chiari e rispetto spaziale erano gli ingredienti per la formula di una felice stabilità. Comunque a chiederselo fu mio figlio. Il giorno in cui vide i due campanelli fuori dalla porta entrò con un’aria dubbiosa e incuriosita e quando al termine della cena tornammo a casa, la sua faccia era divertita, ma altrettanto sconcertata.

    Pa’, ma sono fuori di testa questi due, esordì appena entrato in auto.

    Sì Liam, sono un bel po’ strani.

    Strani? ripeté. "Ha squillato il telefono e il tuo amico ha detto a sua moglie È per te senza neanche rispondere. Cos’è, uno stregone? Che legge, nel futuro?"

    No spiritoso, non legge nel futuro e quella non è sua moglie, ma la sua compagna. Non sono sposati.

    E come faceva a sapere che la chiamata era per lei? chiese Liam incuriosito, mentre abbassava il volume della radio.

    Perché hanno telefoni separati. Ognuno ha il suo personale apparecchio, ognuno con un trillo diverso, spiegai.

    Ancora più strano. Meglio quando era uno stregone, mi strappò un sorriso e continuò, "non ci credo, sono assurdi. Ma hai visto, Le posate rosse sono le mie, le arancioni le sue ma perché? Due diversi appendi chiavi, due bagni e addirittura due citofoni con due campanelli."

    Certo che ho visto detective, gli dissi ironico, sorpreso da tanta attenzione ai particolari, pensavo ti piacesse dipingere e invece sei diventato un investigatore. Comunque anche a casa da mamma avevamo due bagni.

    Okay, però mamma non ti staccava un braccio a morsi se usavi il suo.

    Neanche loro si staccano braccia a morsi, risposi, almeno credo.

    Sulle sue risatine arrivammo all’appartamento di Susan, madre di Liam e mia ex moglie. Lei viveva nell’Upper West Side proprio come me, solo che la casa dove prima vivevamo tutti insieme era all’inizio della zona sud, verso Lincoln Square, io ero più a nord. Adesso lei conviveva con un dentista, stava bene e mandava avanti la sua piccola galleria d’arte, cercando infruttuosamente di collocare anche qualche sua opera. Io avevo smesso di fare il tassista all’età di ventinove anni e solo perché ero riuscito nel mio intento, far pubblicare il mio primo libro. Era una collana di storie per ragazzi e l’editore mi aveva consigliato di cominciare con quelle. Il mio intento era scrivere altro tipo di libri, ma se era quello il modo migliore per affermarsi e poi mirare all’indipendenza, ero più che deciso a seguirlo. L’acconto fu cospicuo e le prime vendite, nel giro di un anno e grazie a una promozione nelle scuole, erano state ottime. Ora, all’età di trentaquattro anni, le cose stavano cominciando a funzionare. Ero sulla strada giusta.

    La mia casa era l’essenzialità fatta abitazione. Avevo una stanza in più per Liam, che adesso aveva tredici anni e pretendeva quell’indipendenza che gli era dovuta e che anche io, prima di lui, avevo preteso dai miei, conquistando la stanza di mio fratello e sfrattandolo nella soffitta, che mio padre riparò e rese abitabile solo per soddisfare le mie richieste, evitare i continui scontri tra di noi e non farsi tediare dalle ripetute lamentele. Raccolsi i disegni che Liam aveva disseminato per casa, li sistemai sulla sua scrivania e andai a dormire. Il fine settimana era trascorso e l’indomani si riprendeva il solito iter lavorativo, che lavorativo non era. Terminare un racconto, spedirlo e magari cominciarne un altro. Mio figlio e le sue avventure scolastiche mi davano un fiume di spunti interessanti e usarlo come protagonista di storie inventate, riempiva lui di orgoglio e me di soddisfazione.

    Mi sdraiai e mi costrinsi a dormire, ma è proprio quando si vuole qualcosa che non arriva mai. Questo potrebbe valere per qualsiasi cosa, l’affermazione, una donna, il sonno. Era un caso che tutte e tre tardassero ad arrivare. Travis diceva che era solo questione di tempo perché alla fine tutto arriva, in un modo o nell’altro. Io gli rispondevo che il suo essere ovvio era sconcertante e mi beccavo sempre qualche gomma in testa, a volte anche qualche matita. La notte mi vendicavo puntando in anticipo la sua sveglia. Avevamo convissuto per parecchio tempo durante il college nella stessa stanza, entrambi a indirizzo letterario. Io avevo interrotto gli studi proprio alla fine, dopo aver scoperto che Susan fosse incinta e lui aveva continuato e adesso era professore di letteratura americana al Queens College, per tre giorni la settimana.

    La sua metà lavorava per un’azienda informatica che gestiva i vari siti web per le aziende, le catene alberghiere o per chiunque avesse l’impellente e irrinunciabile esigenza di pubblicizzare se stesso nel vasto mondo della rete. Aveva provato a spiegarmelo un miliardo di volte in cosa consistesse quel suo dannato lavoro, ma ogni volta, dopo sessanta secondi di parole, io mi perdevo e annuivo senza sapere cosa dire, con la palese espressione di chi non aveva capito niente. Si erano conosciuti per caso, amici comuni mi avevano detto e da allora era scattata la scintilla, quell’irrefrenabile passione che li aveva legati. Ma erano due persone particolari, forse meglio definirli fuori di testa, citando le parole della peste che era mio figlio. Una vita di divisioni casalinghe che li univa ancora di più, rendendoli interessanti sotto ogni profilo. Forse avrebbero dovuto condurre studi sociologici su di loro e tracciare profili psicologici che ne spiegassero quelle maniacali forme comportamentali.

    Ma il vero problema non erano loro, né quella strana alchimia. Non era Travis, con la sua banale saccenteria e la sua celata gelosia, che per altro raccontava solo a me e nelle rare occasioni in cui lasciava scorrere, all’interno del suo esofago, più alcol di quanto riuscisse a sopportare. Non era nemmeno Nicole, facile alle crisi isteriche verso chi ostacolava il suo percorso, qualsiasi esso fosse e in qualsiasi luogo conducesse, e alle scariche di nervi che trovavano spazio nel dilagante fiume di parole, che lei riversava addosso a chiunque quando aveva bisogno di liberarsi dallo stress, che naturalmente e da vera ipocondriaca accumulava. Il problema ero io. Io che apparentemente in quella coppia non c’entravo nulla, ma che in fondo c’ero immischiato, a causa mia e senza che nessuno dei due ne sapesse niente, fin da quando avevo posato i miei stupidi e irrequieti occhi sulla donna del mio amico. A onor del vero non avevo fatto tutto io o almeno così mi ero giustificato con me stesso. Ero sempre convinto che i suoi fuggevoli sguardi lasciassero trapelare qualcosa. Mi guardava di soppiatto, mentre versava il vino a casa sua durante una cena o mentre ci capitava di trovarci a parlare a qualche festa, e io non sapevo mai come prendere le sue fugaci occhiate. Conosceva i trascorsi miei e di Travis e sapeva la forte amicizia che ci legava, eppure lo faceva, ne ero convinto.

    Le mie speranze, o forse sarebbe meglio chiamarle deliranti e improbabili aspirazioni, erano traballate un sabato in cui lei mi aveva invitato per un caffè e una passeggiata a Central Park, confessandomi di voler chiedere a Travis di sposarla. Lei a lui, non lui a lei. Fui un po’ scosso da quella confessione, anche perché era stata lei a dirmi di vederci lì. Mi ero fatto mille pensieri in testa, tanto che per renderle più facile la dichiarazione di quei sentimenti nascosti e inconfessabili, che credevo mi avrebbe rivelato, avevo rinunciato a uno dei miei due weekend al mese con Liam, lasciandolo con sua madre.

    Non è affatto strano che una donna chieda al proprio uomo di sposarla, disse in quel suo modo pungente, veloce e travolgente di parlare. Che c’è di male se a farlo sono io e non lui, ci trovi qualcosa di strano? Io non ci trovo proprio niente di strano, anzi. Reputo illusorio e trapassato il cliché che vede l’uomo inginocchiato e la donna con le mani sulla bocca e gli occhi grondanti lacrimoni, grossi come olive da Martini. Tutte sempre pronte al pianto e allo stupore, facilone e superate, memoria di qualcosa che non solo è vecchio, ma è anche bello e superato. Ebbene io salto le tappe, sì. Le salto anche in grande stile, tutto come si deve, per carità, perché a modo mio sono una tradizionalista, come direbbe quella santa di mia madre, ma niente cenetta a lume di candela o anello nel bicchiere di champagne, magari non se ne accorge e mentre beve si strozza e addio matrimonio, no. Lo farò qui a Central Park, devo solo scegliere il luogo adatto, magari su di una barca a Turtle Pond o meglio ancora, sul Lovely Bridge. Che ne pensi?

    Sarà perfetto, risposi cercando di apparire distaccato.

    "Tutto qui? Sarà perfetto è la tua risposta? chiese con sguardo incuriosito, quasi a voler leggere ogni mia smorfia e parola. Alla faccia dello scrittore."

    Mi aveva davvero spiazzato e poi investito con quel fiume di parole, bellissime e ipnotizzanti, sparate a ripetizione come un kalashnikov su una sagoma di cartone. E quei proiettili avevano fatto a brandelli le mie sicurezze, come le mie speranze. Mi ero già immaginato a stringerla tra le mie braccia, baciandola mentre la gente ci correva intorno e poi tra le lenzuola di casa mia, a levarle quei suoi vestitini multicolori e a scompigliarle quel suo caschetto nero, presi entrambi dalla foga dell’amore. Nella mia testa aveva voluto incontrarmi per cominciare qualcosa con me, non per definire qualcosa con lui.

    Sì, mi ripresi, cercando di correggere il tiro e apparire meno scioccato e dispiaciuto di quanto non fossi, nel senso che il luogo è un incanto e lui sarà felicissimo di essere qui.

    Quindi sei sicuro, dici che è una buona idea?

    Lo è, è quello che dico, un’idea meravigliosa, ribadii, sorridendo nel modo più convincente possibile.

    Non mi stai prendendo in giro vero, è davvero quello che pensi? chiese ancora, sempre con quegli occhi indagatori.

    Ci mancherebbe, non ti mentirei mai, fu quello che dissi. Certo che ti prendo in giro, stronza traditrice dei miei inespressi e inconfessati sentimenti, fu quello che pensai.

    La strada del ritorno fu addirittura peggiore. Sentire il dettaglio dei suoi progetti, la minuziosità dei particolari che solo una persona che mette dei post-it col suo nome sui propri ripiani del frigorifero può avere, mi dava il voltastomaco. Ero un misto di noia, delusione e nervosismo, un cocktail di nauseante disgusto e senza farmene accorgere, distoglievo lo sguardo dalla sua bocca e assumevo un’aria accondiscendente, ogni volta che si girava per controllare la mia espressione alle sue trovate. Se non fossi stato così attratto da lei, l’avrei lasciata lì a raccontarsi da sola le sue belle e innovative idee matrimoniali. La sua fortuna fu che il bus M79, che passava per St Traverse Road attraversando il parco, stesse partendo e lei non volesse perderlo, perché il discorso stava vertendo dal lato della sensibilità materna e se dalla sua bocca fosse uscito anche un minimo riferimento alla possibilità di avere un figlio, le avrei quasi certamente vomitato addosso.

    Mi ricordai quando su quello stesso autobus, una mattina di tanto tempo prima, l’avevo seguita. Era una sorta di pedinamento che mi decisi a fare, per starle accanto, studiarla, vedere com’era. In disparte osservavo la sua espressione e il modo che aveva di soffermare lo sguardo sulle cose. Nicole era una pensatrice, non c’era niente da fare. Osservava i passeggeri e quasi tutti avevano una peculiarità e si facevano notare per qualcosa, a parte qualcuno che dormiva e qualcun altro seduto che leggeva un libro o un giornale. Nicole, che era sempre stata un’ottima osservatrice, non si lasciava scappare l’occasione per affascinarsi a ogni singola particolarità. Una ragazza bionda seduta di fronte a lei ticchettava nervosamente con le unghie lunghe sul bordo del bus, con la testa poggiata al vetro e lo sguardo perso lungo il paesaggio che scorreva lento. Nicole se la immaginava in attesa di qualcosa, non un ragazzo di certo, forse un test per l’hiv. Chissà perché questa sentenza, pensò, ma non riusciva a togliersi dalla mente che fosse per quello. Poi c’era una signora con un sacco della spesa gigantesco e non si spiegava perché tutta quella strada per una spesa che si poteva fare sotto casa, forse il risparmio di qualche centesimo. Un signore con cappello e cappotto era a discussione con un ragazzino che non voleva saperne di alzarsi per cedergli il posto. Uno faceva appello ai diritti che alla sua età gli erano dovuti, l’altro ai diritti che gli stavano già per essere tolti. Un giovane con felpa scura e pantaloni della tuta vicino l’uscita approfittava delle curve per spingere il suo inguine sul sedere di una ragazza di colore, in jeans attillati davanti a lui. Mentre dal fondo del bus si levavano i latrati di un piccolissimo cagnolino che una coppia teneva in un cartone, misti alla voce inascoltabile di una ragazzina con le cuffie che cantava in un improbabile francese, improvvisato alla meno peggio.

    Mancava poco alla meta e Nicole era proprio in fibrillazione, chissà per cosa. L’autista, che evidentemente non si era ancora ripreso, frenò bruscamente a una fermata, facendo oscillare i passeggeri in piedi. Solo la signora col sacco della spesa che si era alzata per scendere cadde a terra, subito aiutata dal signore col cappello e dal suo avversario. Il giovane che importunava la ragazza, probabilmente consenziente, ne approfittò anche per una fugace palpata e poi si spostò per fare entrare altra gente. A salire furono un gruppetto di persone. Tre ragazzi con gli zaini in spalla, forse di ritorno da scuola, una ragazza con evidenti problemi di peso, una marea di piercing sparsi ovunque sul viso paffuto e

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