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Flora la pazza
Azioni libro
Inizia a leggere- Editore:
- Amarganta Editore
- Pubblicato:
- Aug 20, 2017
- ISBN:
- 9788899344900
- Formato:
- Libro
Descrizione
Informazioni sul libro
Flora la pazza
Descrizione
- Editore:
- Amarganta Editore
- Pubblicato:
- Aug 20, 2017
- ISBN:
- 9788899344900
- Formato:
- Libro
Informazioni sull'autore
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Anteprima del libro
Flora la pazza - Roberta Andres
Flora la pazza
Titolo: Flora la pazza
Autrice: Roberta Andres
Questo romanzo è un’opera di fantasia: nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono il prodotto dell’immaginazione dell’autore o sono usati in modo fittizio. Qualsiasi riferimento a fatti, luoghi o persone è puramente casuale.
Tutti i diritti di traduzione, riproduzione e adattamento, totali o parziali, con qualsiasi mezzo, anche copie fotostatiche e microfilm, sono riservati.
© 2017 Amarganta
www.amarganta.eu info@amarganta.eu
ISBN 978-88-99344-90-0
PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA
Copyright 2017 Amarganta
Stampato per conto dell’Associazione Culturale Amarganta nel mese di luglio 2017
Roberta Andres
Flora la pazza
.
Amarganta
Parte prima
1
All’inizio, quando andava da lui, era felice e piena di sé: non era mai stata bella e aveva ormai gli anni della maturità, eppure sfiorava il marciapiede come una divinità, piena di amore e di luce. Una femmina diventata morbida, matronale.
Avrebbe potuto chiudere gli occhi e attraversare la strada, col suo diadema di capelli bianchi, lo strascico di foglie che seccavano nella fine di quell’estate arida, certa che le macchine si sarebbero fermate; tra le dita di una mano, come scettro, il biglietto dell’autobus che l’aveva trasportata, tra la gente ignara, fino all’angolo di una strada qualsiasi di una qualsiasi metropoli del Sud Italia.
Sentirsi amata, pure nel modo astruso di lui, ramificava le sue radici nel terreno, chiudeva il cerchio liscio della sua vita come un globo lucente che le schiariva la via, bagnava terreni inariditi e le restituiva i ricordi.
Si sentiva la Ninfa di un Amore invisibile al mondo e avvertire quella sensazione la gettava in una felicità solitaria come un deserto, una felicità che meritava il riso e il pianto.
Intorno a lei via Forìa, l’arteria principale del Vomero, era animata come sempre da automobili, persone che camminavano distratte nei loro pensieri, motorini che dribblavano il traffico. Era scesa poche centinaia di metri prima dall’autobus e aveva costeggiato l’Orto Botanico, cogliendo nell’aria l’odore delle infiorescenze e della vegetazione che proveniva da oltre il muro di cinta; passando per via Michele Tenore aveva percorso un breve tratto fino alla traversa dove si trovava il ristorante di Nino. La situazione lì era più tranquilla: il poco traffico, i palazzi a due piani e le file di alberi facevano sembrare la zona più indietro nel tempo e infatti era rimasta quasi com’era quando sua madre in quella strada era stata bambina, durante la seconda guerra mondiale.
Flora entrò nel locale poco dopo le dodici e la prima cosa che vide, come ogni giorno, fu il calendario appeso dietro il bancone del bar, che riportava a grandi numeri la data, 27 agosto 2003. Fervevano i preparativi per il pranzo e nella sala ristorante i tavoli erano già stati apparecchiati mentre i due camerieri, insieme al maître, stazionavano impettiti vicino alla porta, in attesa.
Flora passò velocemente davanti a loro senza salutarli, sperando di non essere notata; idea assurda, visto che il locale era ampio e illuminato dalla luce delle vetrate. L’ingresso della cucina era al centro e Flora doveva muoversi per forza a pochi centimetri da loro, tra il frusciare della sua gonna a fiori stile anni Settanta e il rumore degli zoccoli di legno che aveva ai piedi, fasciati da calze di lana colorate.
I tre uomini non si stupirono, quella era una scena che si ripeteva quotidianamente, mentre Flora si vergognava e si illudeva che evitando di salutare sarebbe passata inosservata, come i bambini convinti che coprirsi gli occhi li renda invisibili.
Altrettanto velocemente Flora spinse i battenti della porta di legno che separava la sala ristorante dalla cucina e vide Nino, intento ad assaggiare il sugo che ribolliva in un pentolone, insieme a dei polipi.
Gli si affiancò e gli si strinse, mentre lui le baciava la tempia distrattamente, ancora col cucchiaio in mano. Tommaso, l’aiuto cuoco, si slacciò il grembiule e uscì, con la scusa di andare a portare al proprietario la lista della spesa. Tommaso sapeva che dopo quel saluto fugace, come ogni giorno, Flora si sarebbe acquattata in un angolo, in silenzio, per non disturbare Nino. E infatti Flora rimase alcune ore seduta su uno sgabello, con i piedi penzolanti, le mani in grembo, guardando Nino muoversi tra i fornelli e discutere coi camerieri che sollecitavano la consegna dei piatti. Flora se ne stette quieta e adorante, fino a quando Nino ebbe finito di cucinare e si concesse dieci minuti per portarsela dentro la cella-frigorifero, con la scusa di cercare la carne da cucinare per il giorno dopo. La penetrava in piedi, al freddo, dopo averla chinata in avanti contro la parete, averle alzato la gonna e abbassato gli slip a metà delle cosce.
A volte, invece, restavano per tutto il tempo in cucina e allora si guardavano senza parlare. Erano i giorni in cui Flora aveva uno sguardo selvaggio e spaventato e Nino aveva paura di toccarla. La voglia di possederla, pressato da quella sua ossessione di godere del corpo di lei, se la faceva passare. La fissava per un po’ e poi si metteva ai fornelli, dandole le spalle e spostando i coltelli dove lei non potesse prenderli. Flora non aveva mai fatto del male a nessuno, ma quando aveva quell’aria particolare e si presentava scarmigliata e con i vestiti in disordine, Nino si preoccupava.
Perché poi, dopo più di un anno dall’incontro con quella donna così strana, insieme alla paura gli rimanesse anche quel desiderio ossessivo, Nino non riusciva a spiegarselo. Forse perché quando Flora arrivava tranquilla era un piacere fortissimo poter assecondare la voglia e allora scordava i giorni bui. Se Flora capitava quando il ristorante era aperto solo mezza giornata, Nino se la portava a casa e allora l’attirava vicino a sé e la spogliava con delicatezza. Flora rispondeva obbediente al suo corpo, cercando la pelle di lui, il suo odore, il suo sapore: si appoggiava col seno al suo petto, lo annusava, lo leccava, tratteneva i gemiti fino a quando, ancora obbediente, gli si apriva sotto, stesa sul letto o ovunque capitasse; a quattro zampe col bacino alzato e i muscoli tesi come una gatta in calore opponeva la sua immobilità spalancata ai colpi di lui.
2
Flora era sempre stata stramba.
La madre se n’era accorta quando era molto piccola, per via della sua pretesa di camminare scalza sulla strada che tornava dal mare. Pietrisco rovente, aghi di pino e a volte pezzi di vetro le avevano tagliato i piedi, ma niente!
Infilarle le scarpe era una fatica disonesta che aveva effetto per pochissimo tempo. Infine, la mamma di Flora si limitava a fare il solito gesto con la destra: Ma vai!
, come a indicare con stizza proprio la via su cui la bambina si sarebbe fatta male.
Tutte le mattine d’estate il ritorno dal mare era un tormento per i piedi nudi di Flora e il gesto del braccio materno, così come i risvegli invernali erano invece segnati dallo sbuffare della donna e dalle grida della figlia che si divincolava dalla spazzola per capelli.
«Sei una pazza!» sbottava la madre «per questo tuo padre se ne è andato.»
Irritata e rassegnata, riponeva l’arnese sulla mensola sotto lo specchio. Flora restava ansante a guardare la raggiera di setole che trattenevano sempre qualcuno dei suoi capelli. La spazzola le piaceva, avrebbe voluto che fosse sua, ma era della madre e perciò non la sopportava sulla testa neanche per pochi secondi, tanto odiava la donna che l’aveva messa al mondo.
Così Flora, la bambina forastica, usciva di casa per andare a scuola spettinata, col viso rosso per la lotta mattutina e nella mente quell’oggetto bellissimo col manico rosa che non le apparteneva.
Il padre effettivamente se n’era andato, ma possibile che fosse solo per i suoi capelli in disordine e per i vestiti che addosso a lei prendevano una piega sbagliata e si macchiavano presto? A volte ci pensava e le sembrava strano. Ricordava di aver sentito la madre gridare parole incomprensibili chiusa in camera con lui, anche in giornate in cui lei non era andata né al mare né a scuola. Per esempio in alcune domeniche senza piedi scalzi o capelli da pettinare, e di sicuro senza macchie sui vestiti che tutti erano ancora in pigiama.
La tragedia della madre si era consumata così, senza un uomo e con una figlia pazza, ed era andata in scena quotidianamente.
Un giorno però il copione aveva subito una variazione: la macchia stavolta non era sui vestiti ma sulle mutandine e Flora aveva chiamato la madre.
La donna era entrata nel bagno esasperata dall’ennesimo fastidio, poi aveva capito il problema e aveva cercato di calmarsi. Aveva spiegato alla bambina come comportarsi lasciandole addosso l’impressione di aver fatto qualcosa di sbagliato. Varcando la soglia della porta si era voltata con un Ah!
come se improvvisamente si fosse ricordata di un particolare, e le aveva dato uno schiaffo. Flora era rimasta di ghiaccio, mentre la madre aveva farfugliato delle scuse:
«Sai, è la tradizione!» per poi allontanarsi sospirando con gli occhi al cielo.
Flora stava bene con Nino, quello era un periodo felice anche se le capitava di provare la sensazione di non poter continuare a resistere ai fantasmi che la giudicavano e le gridavano contro.
Sei brutta!
, Sei sbagliata!
, Sei una cattiva figlia!
, Cattiva! Cattiva!
.
A volte le urla esplodevano nel silenzio di una giornata serena, in momenti impensati; per esempio mentre trafficava nella cucina assolata dal tramonto estivo, con l’ombra sul muro arancione alle sue spalle. Inaspettatamente una voce lacerava il silenzio e il suo stomaco; la spaventava ma non la stupiva. Poteva appartenere a uomini, a donne o a bambini, ma l’aveva già sentita e in fondo pensava di meritare il rimprovero.
Eppure non poteva evitare di guardarsi intorno incerta, per capire cosa esattamente stesse facendo di male. Magari aveva sbagliato la dose del sale nel sugo di pomodoro o la scelta della pentola, forse erano sbagliati i pensieri che andava facendo o la tranquillità che si stava godendo in solitudine. Non era a disposizione di nessuno, allora, viveva per sé e basta, forse era quella la sua colpa.
Quelli erano i momenti peggiori.
Quando le voci si facevano sentire dopo una lite con Nino, dopo uno sbaglio reale, dopo un danno che aveva causato, poteva sperare che cessassero non appena avesse
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