5 euro
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5 euro - Antonio Il Grande
felici.
Luca
Era una serena mattina di domenica quando Luca, il più piccolo della famiglia Florenzi, prese la sofferta e definitiva decisione di spendere i 5 euro che era riuscito a conservare per circa quattordici mesi e otto giorni con la cura di chi conserva un vero tesoro. Nemmeno i suoi due fratelli, a cui aveva sempre confidato tutto, ne erano al corrente.
Per questo provava un leggero senso di colpa: in fondo, a pensarci bene, Marco gli aveva raccontato della volta in cui fumò la prima sigaretta, e Saverio di quando baciò Giorgia per almeno dieci minuti nel vicolo segreto della scuola. Ma il suo non era un segreto che si potesse consumare in una confidenza tra fratelli: era il modo in cui aveva ottenuto quella banconota a renderla degna di essere conservata all’oscuro di tutti. Sì, anche di Saverio e Marco.
Di prima mattina, raggiunse la sua cameretta e chiuse prudentemente a chiave. Lanciò uno sguardo di soddisfazione al ripiano dedicato ai suoi fumetti, per poi avvicinarsi al cassetto della scrivania. Con altrettanta cura lo aprì: era lì, che pareva brillasse alla sua vista tanto era preziosa. La osservò a lungo, senza toccarla, con gli occhi lucidi per l’emozione. Tirò un sospiro profondo e la raccolse, come si fa con un uccellino ferito che non riesce a volare, riponendola senza piegarla nello zainetto che portava sempre con sé e che quel giorno avrebbe avuto l’onore di ospitarla. Per il corridoio mamma Claudia mandava in frantumi ogni speranza di pace con il suo aspirapolvere infernale, e quando lo vide, pronto per uscire, non poté fare a meno di frenare tutta quella fretta. Riconobbe un entusiasmo insolito nell’espressione e nei movimenti: è l’inspiegabile dono empatico delle mamme.
«Dove vai tu a quest’ora?» chiese con tono autoritario.
«A casa di Mattia: dobbiamo aggiustare la sua bici, sennò poi non possiamo giocare.» rispose Luca con un tono credibile, o che almeno tale credeva.
«No, è troppo presto, tu non vai da nessuna parte.»
«Ma mamma, dai! Ieri sera ho fatto tutti i compiti, e poi Mattia s’offendi si non vadu.»
La mamma, che fino ad allora non aveva distolto lo sguardo dal pavimento, d’un tratto ruotò meccanicamente il capo verso suo figlio.
«E che è questo modo di parlare? Chi te lo ha insegnato?»
«Nessunu.»
«Non lo parlare, è bruttissimo. Chi te lo ha insegnato? Mattia?»
«No. Comunque esco.»
«Non vai da nessuna parte.»
A quel punto Luca si arrese, o almeno così dette a vedere, ritirandosi verso la sua stanza con un broncio marcato. Una tecnica infallibile.
«Va bene, vai. Ma a che ora pensi di tornare?»
«Alle undici torno, tranquilla.»
Nella discesa che portava alla strada inferiore Luca poté godersi il canto degli uccelli fieri di poter fare il solletico a un cielo limpido come il ruscello che costeggiava casa sua. Li osservava sempre con invidia, convinto che quel canto altro non fosse che un messaggio di scherno per tutti quelli laggiù, incapaci di vincere il peso del mondo.
Aveva undici anni e pochi pensieri per la testa, tra cui il più forte, quello che un giorno – come raccontava sempre – l’avrebbe visto a spasso per lo spazio. Ricordò con un sorriso quella volta in cui suo padre gli disse che dopo il cielo è sempre notte
. Gli rivelò anche rivelato che c’era il mestiere di chi volava dopo il cielo
e a quel punto avvenne la folgorazione: in un attimo riconobbe il suo grande sogno, la strada che avrebbe dato un senso alla sua vita. Sarebbe diventato un astronauta e, una volta lassù, avrebbe cantato così forte che gli uccelli non avrebbero più aperto becco.
Camminando continuava a tormentarlo l’idea che i suoi 5 euro potessero cadere dallo zaino, anche se chiuso ermeticamente. Spesso si fermava, apriva la cerniera, controllava velocemente e la richiudeva.
Avvertì un altro senso di colpa, per avere mentito a sua madre: da quando aveva scoperto l’incredibile facilità con cui poter uscire da situazioni scomode tramite le bugie, non riusciva più a farne a meno, acquisendo sempre più talento, sempre meno sicurezza. Ma quella volta la circostanza era diversa, era il giorno di una decisione importante, e questo bastò ad alleggerire il peso della sua coscienza.
Sotto casa di Mattia riconobbe la macchina del padre, un uomo che conosceva bene e che ammirava con sincero affetto, forse per il modo sempre cordiale con cui lo accoglieva a casa sua. Era presto ed evitò di chiamarlo a voce, perciò provò a suonare il citofono, al quale rispose prontamente la madre. Non si erano organizzati per quell’uscita mattutina, ma l’amico del cuore si presentò sotto casa dopo pochi minuti.
Le guance lentigginose, gli occhi neri come il catrame, i capelli ricci e rossi trasmettevano una tenerezza dolce che non tardava a cozzare con la sua vera natura.
«We’, Luca! Che fai qua a quest’ora? Ancora è prestu!»
«Lo so, lo so, ma sei l’unico chi può aiutarmi.»
«Dimmi.»
Tirò fuori dallo zainetto i 5 euro.
«Io ho ‘sti soldi. Che posso comprare?»
Sebbene Mattia avesse solo undici anni, era un bambino assai precoce, e di calcoli del genere se ne intendeva eccome! Oltre che vicini di casa, i due erano anche compagni di classe e Luca sapeva bene quanto fosse bravo in matematica. Inoltre spesso capitava che venisse mandato dalla madre a comprare qualcosa.
Conosceva tutti i prezzi della macelleria di Cola, del supermercato di Rosetta, della pescheria di Salvatore (meglio conosciuto come Turi Scansafatiche
). Insomma: Mattia era la persona giusta, in materia di calcoli e riserbo.
«Dipende da quello che vuoi comprare. Fammi pensari n’attimu... Allora, po’ comprari du’ gelati e forsi ti viene puru ‘na bottiglietta d’acqua. Oppure poi comprari cinque panini, o… Ecco! Sai che devi comprare? Cinque salsicce da Cola!»
Luca scoppiò in una grassa risata.
«Ma che dici? Io voglio comprare qualche cosa che mi resta... qualcosa che mi fa felice, almeno un poco!»
Mattia rise. «Vuoi diventare felici cu’ cinque euru? Per essere felice devi avere milioni e milioni di soldi! Guarda qua, guarda com’è felice questo!» e gli mostrò il video di uno su uno yacht, con cinque donne e un dj sulla terrazza.
Delle urla subito dopo giunsero dal piano superiore: era la madre di Mattia. Spesso ultimamente li sentiva litigare. Imbarazzato, l’amico di Luca corse per le scale con un devo andare
, lasciandolo solo e confuso, con la banconota in mano.
S’incamminò alla volta del centro, per niente lontano, mentre la sua mente diventava una fucina di pensieri che riguardavano l’acquisto che avrebbe dovuto fare con la sua banconota.
Mentre percorreva il marciapiede che lo avrebbe portato dritto in piazza, pensava che sarebbe dovuto uscire più spesso a quell’ora, quando la calma del paese si trovava al punto giusto tra l’inquietante silenzio della notte e i rumori del pieno giorno. Pensò anche che tutti quei colori, quelle case, quelle piante, quegli odori, insomma tutta quella vita che c’era fuori, se osservata con attenzione, era capace di donargli benessere, proprio come suo padre diceva.
«Lasciala stare quella Play, la vita vera è là fuori!» gli suggeriva spesso, quando tornava dal lavoro e lo trovava incantato davanti alla tv con il controller in mano. Ma non lo ascoltava nemmeno, era convinto che suo padre non potesse capire perché ai suoi tempi non era la stessa cosa. Adesso invece riusciva a cogliere il suo messaggio.
Arrivato al centro della piazza principale, rifletté su quanto gli disse Mattia. Si sentì uno stupido per tutte le volte in cui aveva creduto di essere felice alle grandi tavolate in famiglia, giocando a calcio in spiaggia con gli amici o i cugini, mangiando il gelato più buono della Terra sulla strada per Vibo, leggendo i fumetti che gli regalava il nonno.
Ma se non era felicità, quella strana sensazione di benessere, cos’era? Se non era quella, quanto doveva essere forte e bella la felicità vera? O forse no, forse Mattia si sbagliava. Ebbe come l’impressione che Mattia di calcoli se ne intendesse eccome, ma di felicità… Cos’era questa storia che ci vogliono i milioni? E suo padre non era felice quando diceva di esserlo grazie alla sua famiglia? Sì che lo era, lui non mentiva mai. Forse era troppo piccolo per capire certe cose, ma vedendo l’edicola si rese conto che, nel suo piccolo, un fumetto nuovo sarebbe bastato a renderlo felice. Non lo avrebbe detto a nessuno, lo avrebbero ammonito con una risata, una di quelle che gli facevano tanto male. Si convinse che sarebbe stato un atto rivoluzionario conquistarla con 5 euro, e lo avrebbe consigliato con una sorta di sfida al prossimo.
Si sedette su una panchina, distese per bene la banconota su un vecchio fumetto che teneva sempre nello zaino e vi scrisse sopra qualcosa, ordinatamente. Quei soldi, tanto erano nuovi, erano lisci come le pagine del suo diario e brillavano al sole come un diamante lavorato. Si guardò intorno, il piccolo Luca, come fosse geloso di quella preziosa banconota, e si accorse con sollievo che, tra adulti che commentavano la partita della sera precedente e bambini che sfrecciavano con le loro biciclette, nessuno si curava della sua presenza.
Così corse verso l’edicola e vi entrò lentamente, emozionato. Passò in rassegna titoli di giornali, riviste, libri, album, fin quando non arrivò allo scompartimento dei fumetti. Conosceva già Topolino e Geronimo Stilton, ma quando notò Dylan Dog, proprio al centro della sezione dedicata ai fumetti, e quando vide l’immagine di quel personaggio, il suo viso assunse l’espressione di chi inconsciamente cerca qualcosa e per caso se la ritrova davanti. Luca immaginò l’avventura che leggere quel fumetto, dall’aria così misteriosa, l’avrebbe portato a vivere. Lo afferrò e lesse: «Dylan Dog, la legge della giungla». Lo sfogliò un po’ e gli bastarono un paio di pagine per capire che doveva essere suo. Lo avvicinò alla cassa e, imbarazzato, si affrettò a prendere i 5 euro. Quell’uomo basso, dai capelli brizzolati e trascuratamente vestito, aspettava impaziente che il bambino si sbrigasse. Malgrado sembrasse un tipo schivo, raccolta la banconota che il