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De Bello Alieno
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Fantascienza - romanzo (276 pagine) - Cosa sarebbe stata Roma se Giulio Cesare avesse messo il suo genio al servizio della tecnologia anziché della guerra? ROMANZO VINCITORE DEL PREMIO ODISSEA 2014


44 avanti Cristo. Roma è la capitale del mondo civilizzato, la sua egemonia si estende dall’Oceano all’Asia, dalle Gallie all’Egitto. Non c’è esercito in grado di opporsi alla forza delle legioni romane e dei loro fucili… Bighe a motore sfrecciano per le strade, treni a vapore collegano le più remote province alla Città Eterna. L’artefice di queste conquiste ha un nome: Caio Giulio Cesare, il geniale scienziato e imprenditore che, costretto da Silla ad abbandonare la carriera politica e militare, ha dedicato tutto il suo ingegno alla scienza e alla sua applicazione tecnica…

Ma lontano, oltre la notte buia e senza confini dello spazio, una Razza anziana e morente scruta, con muta ostilità ed invidia, il pianeta Terra, scruta Roma e le sue conquiste… Dal loro mondo spoglio e arido, battuto da venti e tempeste e scosso dai terremoti, esseri alieni osservano, con immoto odio, chi ha ciò che non possono più avere… Vedono gli uomini crescere e moltiplicarsi, domare gli animali e coltivare la terra… E poi estrarre il carbone, solcare i mari con navi a motore e la terra con veicoli meccanici. E prendono una decisione: occorre fermare i terrestri prima che diventino troppo pericolosi.

Occorre distruggere Roma.


Davide Del Popolo Riolo è nato ad Asti nel 1968. Laureato in Giurisprudenza all’Università di Torino nel 1992, è avvocato e svolge la professione a Cuneo, dove vive. Da quattro anni è anche segretario dell’Ordine Avvocati di Cuneo.

Ama viaggiare in Europa e in questi anni ne ha visitata una buona parte.

Fin da ragazzino ha amato la storia e la letteratura, anche e soprattutto fantascienza e fantasy, ma non solo.

Come scrittore ha esordito nel 2014 con De Bello Alieno, vincitore del Premio Odissea e in seguito il Premio Vegetti, che ha stupito proponendo un originale storia steampunk in epoca romana. Successivamente col suo secondo romanzo Non ci sono dei oltre il tempo ha vinto il premio Kipple. Con Delos Digital ha pubblicato anche Erasmo (Premio Cassiopea 2016) e La mediatrice.

LanguageItaliano
PublisherDelos Digital
Release dateJul 18, 2017
ISBN9788825403077
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    De Bello Alieno - Davide Del Popolo Riolo

    9788865308837

    Prologo

    Oltre la notte buia e senza confini dello spazio, una Razza anziana e morente scruta, con muta ostilità e invidia, il nostro pianeta e i suoi abitanti. Essi hanno avuto in passato quello che noi abbiamo ora, un mondo florido e ricco di forme di vita, ma ciò non è più. Il tempo ha trasformato il loro pianeta in un deserto spoglio e arido, battuto da venti e tempeste e scosso dai terremoti.

    Essi sono stati in passato quello che siamo noi, una Razza giovane ed entusiasta, inesperta ma piena di vigore, di curiosità e di ardore. Adesso sono vecchi e aridi come il loro mondo natale, schiavi della contemplazione del loro passato.

    Essi osservano, con immoto odio, chi ha ciò che loro non hanno, e non possono più avere. Il loro occhio supera, grazie alla forza dell’invidia, gli abissi dello spazio che ci dividono, attraversa nuvole e aria, e esamina con avida attenzione ciò che fa l’umanità.

    Essi vedono l’uomo moltiplicarsi e crescere in sapienza, domare e allevare animali, coltivare la terra, costruire grandi edifici in pietra e navi di legno, e ridono con gioia maligna per la sua arretratezza, perché ciò è nulla in confronto alle conquiste del loro glorioso passato.

    Eppure un giorno si accorgono, con tetro stupore, che l’uomo comincia a estrarre il carbone e il ferro dalla terra, che il fumo delle ciminiere annerisce il suo cielo azzurro, e vedono le navi che solcano il mare non più spinte soltanto dalla forza dei remi.

    Essi capiscono che l’uomo si è incamminato molto in fretta, troppo in fretta, sulla strada che porta alla potenza che loro hanno avuto, e perduto, e questa comprensione accresce a dismisura l’ira nei loro cuori.

    L’odio e l’invidia si incistano sempre più nei loro freddi animi, abbandonati da ogni più caldo sentimento, e non conoscono freni. Decidono di punire le vane ambizioni degli uomini che osano spingersi sulle strade che loro già hanno tempo addietro battuto. Con cupa malizia, decidono di fare ogni sforzo per distruggere il luogo da cui tutto ciò ha avuto inizio.

    Sanno di non poter distruggere l’intera umanità, perché il loro potere è ormai inadeguato per un obiettivo così feroce. Sanno però anche che la nuova via intrapresa degli uomini è fragile, e che il suo avvenire è vulnerabile.

    L’odio dà loro l’energia e la volontà che credevano di aver perduto millenni prima. In una frenesia di esaltazione, tornano in attività come non erano dai tempi più remoti, per tarpare le ali dell’ambizione di quella giovane Razza che invidiano e, dentro di sé, temono.

    Così, misera parodia della potenza che sono stati, preparano i loro messaggeri di morte per l’uomo, e perfezionano con cura il dono che la loro Razza capace ormai soltanto di invidia maligna riserva ai propri ignari successori.

    Essi studiano con attenzione le condizioni migliori, perché ormai la loro energia è poca, e devono utilizzarla al meglio. E quando il momento è più propizio, scagliano le loro folgori maligne in rotta verso la Terra.

    Quei doni di morte lasciano il Pianeta Rosso e attraversano lo spazio e l’eterno nulla, ma non ne vengono corrotti. Gli esseri che li hanno inviati conoscono bene le insidie della navigazione nel vuoto interplanetario, perché nel loro remoto passato le hanno dominate.

    L’antica Razza sa ancora fare calcoli corretti, e i suoi messaggeri di odio raggiungono infine il nostro pianeta e attraversano i cieli di un pianeta ingenuo, che ignora il pericolo che costituiscono, abitato com’è da una giovane Razza fiduciosa nel futuro.

    I doni maligni che hanno inviato attraversano i cieli terrestri come globi di fuoco, illuminandoli, e la loro velocità residua è tale che rimbombano più di tuoni. Gli uomini alzano lo sguardo al cielo e stupiscono, rivolgendo un pensiero reverente ai mille diversi dèi che adorano, e che credono popolare quei cieli. Si chiedono con superstizioso timore che cosa siano il tuono senza folgore, ed il globo di fuoco che percorre il cielo.

    Sono la morte per l’uomo, è la risposta, e ora sono qui.

    1

    Quando Silla arrivò al potere non poté né con lusinghe né con il terrore staccare da Cesare Cornelia, la figlia di quel Cinna che era stato dittatore. Cesare era ostile a Silla perché apparteneva alla famiglia di Mario: infatti Mario il vecchio aveva sposato Giulia, sorella del padre di Cesare, e da essa aveva avuto Mario il giovane, che era cugino di Cesare. Da principio Silla, impegnato a fare massacri, non si era curato di Cesare. Più tardi Silla meditava di mandarlo a morte, e gli si opposero alcuni asserendo che non metteva conto mandare a morte un ragazzo di quell’età; egli ribatté che non avevano senno se non vedevano in quel giovane molti Marii. Tuttavia decise infine di graziarlo, esiliandolo però da Roma e interdicendogli acqua e fuoco.

    Plutarco, Vita di Cesare

    Baia, sette giorni alle Calende di Marzo.

    Caro tata,

    sono appena arrivata nella nostra villa di Baia, e già ti scrivo. Tu, che hai così tanti impegni e cose da fare, certo penserai che tua figlia è davvero molto noiosa! Eppure non riesco a trattenermi dal farlo e, mentre gli schiavi stanno sistemando i bagagli, sono già qui che detto la mia prima lettera al mio caro babbo. Non sono una figlia affettuosa? Mi sembra di vederti mentre, affaccendato come sempre in altre dieci questioni, leggi questa mia, e un sorrisetto ironico ti si dipinge sulle labbra…

    Però ho un buon motivo per tediarti, perché forse vuoi sapere com’è stato il viaggio, dato che abbiamo approfittato delle nuove locomotive che hanno appena messo in funzione sulla linea della Via Appia Nova. E chi le ha costruite, queste nuove locomotive, se non il mio geniale papà?

    Che mostri enormi che sono, tata! Non ti nascondo che quando queste grosse carrozze scure arrivano in stazione, senza essere trainate da animali ma sbuffando ed emettendo fumo nero e puzzolente dalla ciminiera, non c’è persona, romana o straniera, che riesca a trattenere un brivido. Quale magia è mai questa, credo che tutti pensino. Sappiamo bene che è scienza, non magia, perché ce l’hai spiegato tante volte, ma i condizionamenti del passato sono a tratti ancora molto forti.

    Eppure li superiamo, perché ognuno di noi, seppure con un attimo di esitazione, sale in carrozza, attende il fischio di partenza e poi si diverte a veder sfrecciare davanti a sé il paesaggio a una velocità superiore a quello del galoppo del più sfrenato dei cavalli. È così comodo il treno!

    Se penso che alcune delle matrone più anziane che quest’oggi hanno viaggiato con me, la moglie di Cicerone e quella di Crasso, per esempio, ricordano ancora quando, per andare nelle loro ville in Campania, dovevano sopportare un interminabile e scomodo viaggio in lettiga, che durava anche giorni, chiedere ospitalità ad amici lungo il percorso, e magari quando arrivavano scoprire che gli schiavi non avevano avvertito del loro arrivo! Quanto era dura la vita fino a pochi decenni fa, e come è cambiata in meglio grazie al mio papà!

    Ora, invece, si manda un telegramma il giorno prima, al mattino si sale sul treno alla Stazione Giulia, e a sera si è già a Baia, a fare un bel bagno caldo (quello che gli schiavi stanno preparando proprio in questo momento, quindi devo sbrigarmi!). Lo so che non ho bisogno di spiegarti tutto ciò, dato che se esiste è soltanto per merito tuo, eppure mi piace farlo.

    Certo, dato che vuoi sempre sapere la verità, non posso nascondere che c’è comunque qualcuno che si lamenta. Sto parlando, naturalmente, della cara Terenzia, le cui lamentele abbiamo dovuto sorbire per tutto il viaggio: le locomotive sbuffano e fanno un rumore fastidioso, spaventando gli animali, così il latte e le uova non sono più saporite come un tempo; i cieli di Roma, che una volta erano così tersi e limpidi, oggi sono sporcati dal fumo delle ciminiere; le caldaie a carbone domestiche sporcano di fuliggine, che si infiltra dappertutto e non si riesce a pulire e così via. Si è lamentata persino del fatto che sulla strada per Baia, nella bella campagna campana, non si vedono più come un tempo i contadini nei campi intonare i loro canti mentre lavorano, ma soltanto le nuove trebbiatrici meccaniche! Tu però sai bene com’è fatta la moglie di Cicerone: è una cara donna, un vero pilastro del mos maiorum, ma il suo divertimento principale è lamentarsi, e se non c’è nulla che non va è in grado di inventarselo soltanto per spirito di contraddizione. Le altre matrone che viaggiavano nel mio scompartimento si sono limitate ad ascoltare le sue lamentele con un sorriso di compatimento, finché la moglie di Crasso non le ha detto:

    – Terenzia, cara, se trovi così scomodo il treno, perché non ti sei fatta portare in lettiga, come si faceva un tempo?

    Tutte abbiamo cominciato a sogghignare, e la povera Terenzia si è zittita, come se un fulmine l’avesse colta! È stato così divertente, babbo!

    A proposito di fulmini e tuoni, che cosa si dice a Roma dei fortissimi botti che si sono sentiti questa mattina, proprio mentre stavo partendo? La giornata era serena, in cielo non c’era una nuvola, quindi sicuramente non erano davvero tuoni, anche se lo sembravano. E poi, subito dopo, in cielo si sono visti dei globi luminosi, che parevano cadere verso meridione, dritti dritti verso terra. Tuoni e fulmini globulari, ma niente temporale. Un ben strano fenomeno, non è vero? E come si sono spaventati gli animali! I cani abbaiavano, le pecore belavano, i buoi muggivano, tutti in preda al terrore. Che concerto che c’era!

    I botti, poi, sembravano quelli di colpi di cannone! Anzi, tra quelli che aspettavano il treno alla Stazione Giulia qualcuno subito è saltato su a immaginare:

    – Probabilmente sarà il Magister che sta collaudando un nuovo pezzo di artiglieria.

    È così, babbo, hai inventato un altro cannone, ancora più potente, per le nostre legioni? Oppure è un fenomeno naturale, su cui già stai investigando, con la tua curiosità insaziabile?

    Ti risparmio i commenti di alcune donne superstiziose, che ho sentito mentre aspettavamo che il nostro treno partisse, perché so bene quanto poco apprezzi queste cose. Hanno cominciato a bofonchiare dell’ira di Giove Ottimo Massimo, offeso per i troppi cambiamenti dei nostri tempi, e di altre sciocchezze di questo tipo. Mi immagino come le avresti messe a tacere! Ancora mi ricordo la volta che hai svergognato quel sacerdote siriaco che parlava delle eclissi di sole come di una punizione da parte del suo dio (El-gabal, si chiamavano entrambi, lui e il suo dio, vero?), e tu l’hai fissato con il tuo famoso sguardo di disapprovazione che fa tremare persino i senatori romani, poi hai preso un sasso da terra e l’hai messo tra lui e il sole.

    – Se questo sasso così piccolo può coprire il sole, immagina che cosa può fare la luna, che è molto più grande, e vicina. L’ira del tuo dio non c’entra nulla! – Ricordo come ci è rimasto male.

    Ecco, io ti ho scritto perché volevo raccontarti di come si viaggi comodi nei nuovi scompartimenti, con i loro sedili imbottiti al posto delle scomode seggiole di legno di una volta, di quanto sono veloci le nuove locomotive, di come hanno risolto i problemi dei freni che ogni tanto creavano problemi nel vecchio modello, e di come tutti sono contenti delle nuove ferrovie, e invece è venuta fuori una lettera confusa, proprio il contrario di come ti piacciono, e ora le schiave mi dicono che il bagno è caldo e che devo andare! Che rabbia! Vorrà dire che ti racconterò tutto per bene nella mia prossima lettera, domani.

    Tanto il mio tata sa che è sempre nei miei pensieri. Salutami tanto anche Publio Licinio, anche lui è sempre nei miei pensieri, naturalmente. Digli che scriverò presto anche a lui.

    E tanti saluti anche a Servilia e Caio Giuniano.

    La tua

    Giulia

    Roma, cinque giorni alle Calende di marzo.

    Caro Magister, salve!

    È opinione generale, che pure io condivido, che nulla vi sia al mondo d’importante, di nobile e di civile che non si discuta nel Senato di Roma, laddove si incontrano i padri coscritti, progenie della stirpe che conquistò l’Italia, sconfisse i Punici nella più grande guerra della storia, pacificò la Grecia malata di discordia civile, cacciò i vili Siriaci e Parti grazie alla potenza delle legioni, gli stessi che discendono da uomini i quali presso altri popoli per la loro nobiltà d’animo e grandezza d’ingegno sarebbero stati re, e che invece a Roma non si contentano ma si gloriano di essere uguali tra uguali, e di discutere tra pari per decidere i destini del mondo.

    È opinione altrettanto comune, e io condivido anch’essa, quale onore sia partecipare a queste discussioni, e sentirsi emuli di Caio Fabrizio, che rifiutò la corruzione di Pirro, di Attilio Regolo, che per mantenere la parola data subì il supplizio a Cartagine, di Fabio Massimo, che resse con il suo braccio l’Urbe nel pericolo, di Scipione Africano, che sconfisse l’invincibile Annibale, e persino di Scipione Emiliano, il principe che ha governato Roma con la sua saggezza.

    E puoi ben immaginare, amico mio, quale sia l’orgoglio che io, figlio dell’onesto ma umile Arpino, uomo nuovo giunto a tali altezze soltanto in forza del mio ingegno, nutro allorquando partecipo alle riunioni del Senato, e vengo onorato dagli altri senatori non soltanto come consolare, com’è mio diritto, ma anche come Padre della Patria, titolo che tutti sanno mi venne conferito, per consenso generale, in quanto fui io a salvare Roma dalla follia di Catilina.

    Eppure, quale sconforto mi coglie quando partecipo a riunioni in cui un senatore peraltro di nobile lignaggio, che stimo per il suo attaccamento al mos maiorum e per la sua nobiltà d’animo, si alza e innanzi a tutto il Senato rivolge indegne accuse a un benefattore del genere umano quale tu sei, Magister, e si scaglia contro di te quasi che tu fossi un pericolo per Roma e la Repubblica e non già, come tutti sanno, l’uomo che con il suo ingegno l’ha innalzata laddove nemmeno pensava di poter giungere!

    Di ciò ti voglio parlare, mio buon e generoso amico, e mi perdonerai il breve preambolo con cui ho voluto iniziare questa mia missiva, poiché so bene quanto tu hai giustamente care le belle lettere e le Muse, cui dedichi le tue notti insonni, ma l’urgenza rende necessario che tu abbia al più presto il mio resoconto su quanto occorso proprio oggi in Senato, e quindi non posso dedicarmi ad abbellire i miei concetti con gli ornamenti che il tuo buon gusto meriterebbe.

    Ordunque sappi che oggi, appena aperta la riunione, il console che di turno la presiedeva, ovvero Caio Claudio Marcello, che come tu sai non è certo animato da grande simpatia e amore nei tuoi confronti, ci ha comunicato che il senatore Marco Porcio Catone intendeva rivolgersi all’assemblea, benché un tale discorso non fosse all’ordine del giorno e tale evento cogliesse molti di sorpresa, e destasse in alcuni sospetti su quanto sarebbe presto accaduto. E ciò non lo dico per disprezzo nei confronti dell’arte oratoria di Catone il quale, benché assai lontano dallo stile ch’io prediligo, possiede e padroneggia un’eloquenza virile e potente, intessuta della filosofia stoica che gli è propria, spoglia e disadorna eppure, ovvero proprio per questo, di grande effetto.

    Non fu dunque per il timore che la sua esibizione oratoria non sarebbe stata all’altezza della dignità del consesso, e del prestigio degli ascoltatori, che molti accolsero l’annuncio con sospetto, ma perché presentivano contro quale bersaglio Catone avrebbe lanciato i suoi disadorni strali, e quale successo avrebbe potuto avere un suo discorso di cotale fatta.

    E ne avevano ben donde, giacché il loro sospetto mai fu più giustificato.

    E invero, infatti, quando che ebbe la parola Catone lanciò, com’è uso fare, il suo sguardo corrucciato a tutti i presenti, e quindi iniziò il suo discorso rievocando i costumi antichi, sani e virili dei padri dei nostri padri. Erano quelli i tempi in cui v’era vera moralità, e il mos maiorum veniva rispettato: gli uomini si alzavano all’alba, e andavano a dormire al tramonto, dopo aver accudito il loro campo, magari di pochi iugeri, con il bue e l’aratro e i pochi schiavi; le mogli si dedicavano a tessere vesti rudi ma sincere; non v’era lusso né ostentazione o impudicizia, tanto che il suo esimio antenato Catone quando rivestì la carica di censore espulse dal Senato un nobile che si era permesso di baciare in pubblico la propria moglie, e un altro che possedeva stoviglie d’argento; i figli rispettavano e temevano i genitori, perché sapevano che la sferza, se non addirittura la morte, era la punizione per la loro indisciplina, e se così venivano trattati i figli, con tanta più severità erano trattati gli schiavi; tutti temevano e disprezzavano le novità e onoravano soltanto la tradizione giunta dagli antichi, e ogni cittadino romano era tanto un contadino quanto un legionario e in caso di bisogno poteva, per difendere la Patria, i Lari e i Penati, nonché la famiglia e i campi, impugnare pilo e gladio e far parte di una stretta coorte in cui la forza del gruppo era l’animo saldo di ognuno, così come un pugno è tanto più potente quanto più strette sono le dita della mano. Questa era Roma, questa era la Repubblica, questa la virtù che ha permesso ai nostri padri di divenire meritatamente i padroni del mondo, ha esclamato, alzando la voce.

    È poi passato a descrivere la situazione odierna, con colori ben più foschi. I romani non rispettano più i ritmi della natura, non soltanto perché le nuove lampade permettono di avere luce anche durante la notte, ma perché i nuovi opifici, così come le miniere, lavorano in ogni stagione: non seguono i ritmi delle semine e dei raccolti; e non hanno più bisogno né del bue, né dello schiavo per coltivare i campi, perché possiedono macchine rumorose e puzzolenti che compiono per loro i lavori più faticosi. Grazie alla frequenza dei commerci, facilitati dalle ferrovie e dai piroscafi a vapore, e al denaro che hanno, possono acquistare i cibi e le bevande più esotiche, che provengono dall’intero Orbe terracqueo, e trascurano così i sani cibi d’un tempo. Le loro mogli non tessono più, perché ora le vesti sono confezionate da telai meccanici, e sono tutte uguali, senza virtù o pregi.

    – Tranne le tue, Catone. Tu sei l’unico a Roma che costringe ancora la propria moglie a tessere come le nostre nonne! – L’ha interrotto qualcuno.

    – È vero, e ne sono fiero. – Ha ribattuto lui, mostrando con orgoglio la sua toga di tessuto grezzo. – Poiché ritengo immorale cambiare un costume che ha fatto grande Roma, soltanto per rendere più facile la vita delle mogli.

    Non ti nascondo che questa risposta, così pronta in un individuo di regola non di facile spirito, gli ha suscitato successo e apprezzamenti presso l’uditorio, cosicché ho persino sospettato che Catone, il quale pur essendo uomo di specchiata moralità non rifugge da utilizzare i vecchi trucchi degli antichi retori, si fosse messo d’accordo con il suo interlocutore.

    Ripresosi dall’interruzione, comunque, l’oratore ha ricominciato a elencare i vizi del nostro mondo odierno, e puoi ben immaginare anche tu, amico mio, che cosa abbia detto. Tanti romani, sottratti dalle macchine al sano lavoro dei campi, dedicano la loro vita ai vizi oppure, se non hanno il denaro per indulgervi, se lo procurano lavorando umilmente negli opifici, eseguendo compiti da schiavi e abbassando così la propria dignità, anziché affidarsi come fedeli clienti ai propri nobili patroni, com’era tradizione. E in più, così facendo producono i fumi e la puzza che appestano l’aria e il cielo di Roma, un tempo profumati e puliti. E i figli non vengono più educati dai genitori ai valori della tradizione repubblicana, ma frequentano scholae ove imparano anch’essi a eseguire lavori servili, preparandosi così non a essere liberi cittadini di una Repubblica ma sudditi di una strisciante tirannia. E questi romani, che non praticano più la sana vita dei campi ma vivono di notte, oppure lavorano come schiavi negli opifici, non onorano più le antiche consuetudini, ma attendono con ansia ogni novità, e sperano soltanto in nuove invenzioni che allevino ancora la loro fatica.

    Questi romani dall’animo corrotto non sono certo in grado di rimanere saldamente schierati in coorti strette dinnanzi al nemico, e così sono costretti per sconfiggerlo a ricorrere ad artifici vili e disonorevoli, che lo colpiscono da lontano senza dargli la possibilità di difendersi: fucili e cannoni, armi come tutti sanno da sempre proibiti dal diritto delle genti. E la nostra Roma, la nostra città un tempo la più bella del mondo, si ritrova oggi circondata non più da campi ubertosi, messi e piantagioni, ma da orridi e cupi edifici, ove il clangore dei metalli s’ode giorno e notte, e che eruttano fumo e producono sempre nuove, malefiche macchine.

    Dopo aver esaurito tale elencazione di malanni e disgrazie, quasi che Roma non fosse la padrona del mondo ma Ilio conquistata da Agamennone, Catone con aria sempre più fosca e irata è passato, mi duole persino il ricordarlo ma non posso certo tacerlo a te, che ami le descrizioni precise e accurate, a indicare l’unico responsabile di tante nequizie.

    Chi è infatti l’uomo che ha prodotto tanto disonore e tanta immoralità a Roma e nella Repubblica? Si è chiesto, con tono retorico. Chi è il padre delle res novae che attentano alle virtù antiche, se non l’inventore della macchina a vapore che traina le locomotive, delle trebbiatrici meccaniche e delle altre invenzioni per l’agricoltura che hanno reso superata la coltivazione servile, delle lampade a gas, dei fucili e dei cannoni e di tante altre novità, tutte miranti a distruggere il mos maiorum?

    Chi, se non il nipote dell’uomo che una generazione fa quasi distrusse la Repubblica, conducendo una banda di schiavi e di predoni contro Roma, facendo strage per pura invidia dei componenti delle famiglie più illustri, instaurando nell’Urbe l’impero del terrore e della morte?

    Chi, se non colui il quale fu bandito da Silla, che ben si accorse dei pericoli che recava quel ragazzo schiavo delle mollezze orientali, indegno del sacerdozio di Giove che lo zio, per recar beffa agli dèi come agli uomini, gli aveva attribuito mentre ancora era infante?

    Chi, se non colui il quale esiliato da Roma si è dedicato ad attività vergognose per un vero patrizio romano, si è sporcato le mani con le macchine e il lavoro manuale, e ha ottenuto di poter tornare a Roma grazie alla licenza permessa da una troppo generosa Lex Didia, e forse anche dalla corruzione che le sue ben capienti tasche gli hanno consentito?

    Chi, se non l’uomo che, rientrato a Roma, anziché dedicarsi alle candidature di un cursus honorum il quale, benché iniziato tardi, poteva condurlo comunque a posizioni rispettabili, per odio verso la Repubblica ha rifiutato quanto è onorevole per ogni nobile romano e, nella sua arroganza, ha preferito seguire un’altra strada, del tutto nuova, continuando a dedicarsi a esperimenti, invenzioni e a commerci biasimevoli per un romano di nobile origine, e ora ha adottato anche l’assurdo e disonorevole soprannome di Machinarum Magister?

    Dopo aver esibito una tale formidabile serie di invettive, che ha lasciato molti senza parole per la sua violenza ma anche per la sincerità della convinzione che traspariva, Catone ha concluso asserendo che è da sempre compito del Senato difendere Roma e il mos maiorum non soltanto dai pericoli esterni ma anche, e ancora di più, da quelli interni. Così ha sempre fatto il Senato ogni volta che un romano aspirava alla tirannide, ha detto, e ha ripercorso gli esempi storici degli interventi eseguiti a tal fine, partendo dai tempi di Bruto e Collatino, di Spurio Cassio e Spurio Melio, per arrivare ai Gracchi, a Saturnino, a Lepido e a Catilina. Sono certo di non aver bisogno di dire a te, che ben conosci la storia romana, la sorte di ognuno degli aspiranti tiranni citati da Catone: sono stati tutti uccisi.

    Così, ha ribadito lui, si devono comportare anche oggi i senatori per mostrarsi meritevoli dei propri padri, quando una nuova tirannide, una tirannide animata da macchine e denaro, minaccia il mos maiorum quanto mai lo è stato prima. In ordine alle sue proposte su quanto il Senato avrebbe dovuto fare per far fronte ai propri doveri, si è riservato di intervenire in una prossima riunione del nostro consesso, per consentire a tutti i padri di riflettere.

    E a questo punto il console ha sciolto la riunione, invitando i presenti a meditare attentamente sulle parole di Catone, che lui per parte propria condivideva totalmente e faceva sue.

    Tu, amico mio, ami la verità, lo so bene, e pretendi da me la sincerità, anche se a volte educazione e cortesia imporrebbero di fare un torto alla verità in nome dell’amicizia, quasi a contraddire il vecchio Aristotele. Per cui non ti nascondo quanto penso davvero: il discorso di Catone ha fatto una grande impressione su tutti i senatori. Temo proprio che, con mio grande rammarico, egli abbia portato dalla propria parte la maggioranza del Senato, e dubito fortemente che i tuoi amici in Senato, tra i quali mi

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