Millenial: Viaggi nel futuro presente
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Info su questo ebook
Il libro è un piccolo manuale d’uso dell’età contemporanea senza pretese accademiche, basato sulle esperienze dell’autore, che vanno dal giornalismo al romanzo, passando per gli itinerari geografici, le ricerche sul campo e le letture.
Le nuove tecnologie, il loro impatto nella vita quotidiana, i lati oscuri dell’attualità, il narcotraffico, derivato al culto della droga e dall’ondata psichedelica degli anni ’60: la civiltà avanzata non trova più un baricentro. L’informazione di massa diventa rumore confuso o gossip, il pensiero colto si nasconde.
Il terzo millennio accorpa problemi irrisolti sul piano etico, politico, sociale e scientifico. La ferocia della guerra viene riverberata dai media. La moralità delle amministrazioni pubbliche è sotto inchiesta dovunque. La coscienza civile non attecchisce tra i nuovi barbari. Il sapere scientifico non scopre nemmeno il rimedio per il raffreddore, al punto che forse la scienza deve ancora cominciare.
La percezione del futuro passa unicamente per i clamori elettronici e si ripropone uno scenario che James Joyce applicava a tutti i tempi nel celebre motto dell’Ulisse scelto per epigrafe: «La Storia è un incubo dal quale cerco di risvegliarmi».
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Anteprima del libro
Millenial - Enzo Verrengia
Ulisse
Incontrollabile
«Forse un giorno Internet diventerà un’autostrada dell’informazione, ma per il momento assomiglia più a una ferrovia del secolo scorso che attraversa regioni infestate dai banditi. I nuovi utenti, che entrano a ondate nel ciberspazio in cerca di informazioni gratuite o di opportunità commerciali, costituiscono un facile bersaglio per gli imbroglioni, che sanno usare la tastiera con la stessa destrezza con cui Billy the Kid maneggiava la sua sei colpi».
Lo scriveva Paul Wallich sullo Scientific American nel 1998, delineando con un’appropriata scelta di immagini la rete allo stato nascente. Ma in questo modo ne prefigurava anche una condizione permanente. Oggi infatti le cose non sono cambiate, anzi peggiorano al secondo. La rete si configura più che mai come incontrollata e incontrollabile. Lo spazio telematico riflette alla perfezione lo spazio reale. Due universi, uno elettronico e l’altro fisico, convivono in un modello d’incontrollabilità che sfugge perfino alle configurazioni della geometria frattale di Benoît Mandelbrot.
Da un lato la casbah virtuale, con i vicoli e i bazar dei siti, dei blog e, da ultimo, dei social. Dall’altro il caravanserraglio di una società satura di se stessa. A dispetto dei cultori di un presunto nuovo spazio di circolazione delle idee. Gli studiosi, che quelle idee producono, hanno avvertito ripetutamente sul fatto che il linguaggio approssimativo e conciso del video non può sostituire il ponderoso lavoro da svolgere sui libri.
«I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Di solito venivano subito messi a tacere, ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel.» Parole non di un fautore dell’impossibile ritorno al passato, bensì di un autorevole alfiere dell’informazione allargata e dell’elettronica al servizio del sapere. L’anatema venne da Umberto Eco a Torino, un anno prima della sua morte, nel corso della cerimonia di conferimento della laurea honoris causa in Comunicazione e Cultura dei Media. Una svolta a U rispetto ai suoi retaggi ottimisti verso l’assetto dei mezzi di divulgazione? Non proprio. Chi gli conosce la bibliografia che precede la produzione di romanzi ricorda le sue sapide e calzanti sortite contro l’imbonimento televisivo. La Fenomenologia di Mike Bongiorno
, pezzo forte del volume Diario minimo, definiva le coordinate di un palinsesto che non alfabetizzava il Paese ma diffondeva il nozionismo scolastico finalizzato a vincere premi in soldoni.
Eco pubblicò anche Apocalittici e integrati, un saggio sulla cultura di massa di segno opposto a Eclissi dell’intellettuale, di Elémire Zolla, che denigrava la riproducibilità tecnica dell’opera d’arte. Il fumetto, il fotoromanzo, il disco a 45 giri venivano considerati strumenti di una crescita sempre più diffusa di un popolo il cui boom economico non equivaleva ancora a vero sviluppo, come accadeva nelle altre società occidentali. Certo, Eco fin da allora non mancava di analizzare il catastrofismo dei notiziari finalizzato all’audience e, nel caso dei giornali, alle tiratura. Solo che lo considerava un fenomeno emerso con stessa invenzione della stampa a caratteri mobili, che apriva le porte ai mass-media. Alla fine della sua parabola di vita, l’atteggiamento di Eco acquisì il valore di un monito epocale.
La connessione fra Internet e il mondo e il tempo fuori di sesto, per citare Dick, si rivela ad ogni passo di una quotidianità greve di apocalisse. Non solo truffatori, hacker, maniaci, pedofili, molestatori, psicopatici e serial killer trovano nella rete un ineguagliabile brodo di coltura. Il terrorismo fondamentalista ne ha ricavato milioni di canali per diffondere filmati, messaggi o semplici slogan che pervadono menti, soprattutto giovanili, predisposte al deragliamento e facili a trasformarsi in attori del male assoluto. Questo, peraltro, ha un corrispettivo nella subcultura dello streaming, nei video virali, nella propagazione diretta di una creatività a base di ignoranza, di nozioni maldigerite, di un non sapere spacciabile per conoscenza.
Lo scenario che maggiormente concretizza nella realtà il caotico della rete è la Parigi del presente. Quella che si sta scontando nella Francia dell’apocalisse permanente, prima e dopo Charlie Hebdo e gli attacchi multipli seguiti, fino agli apici del Bataclan e degli Champs Elysées, è la perdita un’identità nazionale che non aveva nulla di nazionalistico. Al contrario, si trattava di un retaggio elevato di tolleranza che partiva dall’illuminismo per arrivare all’esistenzialismo e ai noveaux philosophes, i primi a denunciare i totalitarismi e gli integralismi di ogni sorta e a mettere in forse le ideologie contrapposte della guerra fredda. Nessuna, cultura alternativa eguaglia il primato della tolleranza occidentale di fattura francese.
Invece, dalle aree marginali del pianeta provengono, dapprima porta a porta poi attraverso la rete, suggestioni, entusiasmi, vitalismi, ma anche assolutismi contrapposti. Lo si capisce vedendo i film di Spike Lee. Nella sua Brooklyn le etnie non convivono, si ammazzano a vicenda. Lo stesso nella Parigi devastata dalle vendette esportate degli estremisti islamici e delle banlieues in fiamme ed ora soggette a coprifuoco. E per quanto gli intellettuali, lontani dalla strada, si affrettino a rivendicare le colpe coloniali della Francia, la verità è un’altra. Che cioè una grande cultura si va sfaldando nell’incontrollabilità.
I rappers della world music, cantori ufficiali della contemporaneità, sono ibridi abilmente sfruttati dall’industria discografica. È lo smercio ad alto profitto di opere che alla fonte costano pochissimo. Questa armonia dissonante, che non è né canto né parola, piuttosto la colonna sonora della Nuova Babilonia. Una Parigi virtuale, cyberpunk, più destrutturata della Los Angeles di Blade Runner e molto somigliante al Budayeen, l’immenso ghetto metropolitano del futuro affrescato da George Alec Effinger. Incrocio tra i vicoli levantini di Pepè le Moko e un quartiere violento di New York. Il rap che vi risuona non appartiene a nessuna delle due culture, né a quella di provenienza, né a quella di arrivo. Non ha nulla a che vedere con le stupende melodie arabe, basate su una ricchezza tonale che solo alcuni musicisti occidentali hanno saputo decifrare. Meno ancora con la vena malinconica o brillante, appassionata o cinica, raffinata o popolare dei grandi chansonnier. Che fine fa nella Parigi cibernetica e multirazziale l’eredità di Georges Brassens, Jacques Brel, Georges Aznavour, Gilbert Bécaud, Edith Piaf, Juliette Greco e Dalida? Artisti totali, che nella limpidezza della parola cantata avevano già saputo interpretare ed anticipare la modernità? Il futuro appartiene di diritto più a loro, che non ai cascami manipolati da una discografia che sta karaokizzando tutto. Poiché costa molto meno smerciare cascami che investire su nuovi talenti, in termini di diritti d’autore e promozione.
Quegli uomini e quelle donne porgevano sentimenti che impregnavano la melodia col cosmopolitismo di chi, da Parigi, ha sotto l’occhio il mondo, le cose di un pianeta.
Laddove per apprezzare i rappers occorrono dizionari di riferimenti gergali che, spesso, non spaziano oltre un quartiere, una strada magari contesa fra due gang, due tribù. E Daniel Pennac vi conferisce dignità simil-letteraria con i suoi romanzi sanguinari quanto scombinati, ai quali si attribuisce la capacità di rappresentare un universo e invece a stento contengono uno scorcio suburbano. Come dire che, il prossimo rischio, non è solo la perdita degli chansonniers, che sarebbe già grave, bensì la cancellazione di una letteratura post-moderna che passa per Sartre, Camus e Barthes.
Ma la Francia è solo la sintesi del capitolo occidente e il nucleo dell’assetto planetario.
La globalizzazione traspone la portata pervasiva della rete dall’informatica all’economia senza passare per la morale, l’etica e la coscienza dei popoli. Ne scaturisce un far west parallelo a quello che Wallich ravvisava per Internet. Affari e terrore. Un binomio confermato, per esempio, dalle operazioni della Guardia di Finanza, che smantellano società di facciata i cui profitti devono essere investiti in attentati sul suolo europeo. L’antagonista del consesso civile non ha sempre il volto di un incappucciato pronto a decapitare un ostaggio o a lanciarci contro la folla su camion e furgoni. Al contrario, può indossare completi di sartoria, viaggiare su aerei privati e muoversi ai piani altissimi della stessa società che vuole distruggere. Come Wulfgard, il terrorista ispirato a Carlos dal volto di Rutger Hauer nel film del 1980 di Bruce Malmuth I falchi della notte, dove l’unico a impensierirlo è il poliziotto di strada cui presta credibili sembianze Sylvester Stallone. Il vero proletario è Stallone, come aveva scritto Pasolini dei celerini mandati in piazza contro i manifestanti arrabbiati di origini altoborghesi. In una New York già di per sé infida, lo sbirro affinato dall’esperienza della lotta alle bande bracca Wulfgard tra discoteche e mostre.
Nella seconda decade del terzo millennio, lo smarrimento del controllo realizza i piani dello SPECTRE di Ian Fleming, inventato per fornire a James Bond nemici del suo stesso livello. Lo Speciale Esecutivo per Controspionaggio, Terrorismo, Rivendicazioni ed Estorsione è votato al crimine di impatto mondiale. E si consolida progenie diretta del caos. Che sia esaltazione mistica di un credo religioso o lucida architettura del delitto, la deviazione resiste e prolifera nel disordine. Si staglia sull’orizzonte post-apocalittico con il corpo di un mutante.
Geopolitica
È nel presente che si scopre la forza profetica di un autore e della sua opera. Rileggere Democratic Ideals and Reality, il breviario geopolitico di Halford J. Mackinder lascia sgomenti per l’aderenza allo stato attuale delle cose che si ritrova fra queste pagine. L’autore, un accademico inglese dalle molteplici competenze, lo pubblicava nel 1919, all’indomani di quell’apocalisse continentale che fu la Grande Guerra. Oggi, a oltre cento anni di distanza dallo scoppio di quest’ultima, in Europa si delineano pericolosamente le premesse di un conflitto analogo. Anzi, secondo Papa Francesco ed analisti laici, la terza guerra mondiale si combatte già, anche se con tempi e metodi differenti da quelli di allora.
Mackinder aveva previsto il rischio di una cronicizzazione del ricorso alle armi fra nazioni imperfette nella loro stessa consistenza territoriale. Infatti lui partiva dal suo campo di studi specifico, la geografia. Grande conoscitore della mappa planetaria, individuava codici interpretativi delle relazioni internazionali studiando le longitudini e le latitudini. La definizione esatta della professione di Mackinder sarebbe quella di geostorico. Stando alla sua visione del mondo, l’estensione e la posizione di una comunità specifica ne determina gli orientamenti, le potenzialità e l’affermazione sulle altre. Mackinder analizzava i potentati dei secoli trascorsi, dagli albori della civiltà agli imperi navali dell’età moderna, per ammonire contro il pericolo di una deriva occidentale verso l’autodissoluzione. A meno che non si arrivasse al controllo dell’Heart-Land. Cos’era? Nient’altro che la massa continentale dell’Eurasia, quella che successivamente avrebbe voluto dominare Hitler.
Tanto che il libro di Mackinder, rieditato nel 1942, quando la seconda guerra mondiale era al culmine, contiene una forte amarezza che si evince dalla prefazione. Il pensiero geopolitico dell’autore è stato ripreso da Karl Haushofer e da questi ha attecchito nella mente del Führer, che ha violato il patto Molotov-Ribbentropp per lanciare le armate tedesche lungo le pianure dell’Europa orientale, alla conquista del terreno slavo.
Mackinder ravvisava i sintomi della Germania conquistatrice dai tempi di Bismarck. Per il quale l’unificazione nazionale non era altro che l’aggregarsi di un impero volto al controllo dell’Heart-Land.
Ma la lungimiranza di Mackinder sui tedeschi va ben oltre. In Democratic Ideals and Reality spiega che negli istituti scolastici prussiani la geografia aveva un posto d’onore. Perché si trattava di formare un’élite capace di affermarsi nella turbolenza di un’epoca, quella contemporanea, di facili spostamenti sulla superficie terrestre, quando ormai le esplorazioni sono terminate con l’accesso ai poli e non rimane che organizzare l’atlante a vantaggio dei più dotati. Mentre i docenti inglesi irridevano la geografia, ritenendola superflua, se non inutile, anzi dannosa, in quanto fomentatrice di idee guerrafondaie.
Mackinder sosteneva che la Terra, dopo l’invenzione di mezzi che permettono di attraversarla rapidamente, si può suddividere in isole geopolitiche. La principale è quella eurasiatica. Chi la controlla, controlla il mondo.
Questo cronicizza non solo il rischio di guerre continentali che l’unione monetaria non sventa. È l’eterno ritorno del fattore G, dove la G sta per Germania. Oggi Berlino detta le proprie condizione alla fragile unione europea su basi geopolitiche, non personali. Chi appunta il rancore su Angela Merkel ignora che dietro di lei, insieme a lei e per lei si esprime un coacervo d’interessi che ripropongono la Kultur di Bismarck. La stessa riunificazione seguita al crollo del Muro non rappresenta che il logico e prevedibile sbocco di un percorso obbligato del disegno tedesco. Che è l’occupazione anche materiale dell’Heart-Land. Non pressioni sugli stati indecisi nel rispetto dei parametri finanziari, non ammonimenti di Schaüble sulla flessibilità della manodopera, non ferree norme di controllo della spesa pubblica. Il linguaggio dell’economia nasconde quello della geopolitica. I diktat di Berlino sono la terza ascesa della Germania con altri mezzi e senza ideologie. Peraltro, fin dal 1919, Mackinder faceva rilevare che gran parte dello sviluppo industriale delle società avanzate dipendeva dall’infusione del talento tedesco. Gli ebrei di radici mitteleuropee erano i principali artefici delle innovazioni tecnologiche dalle quali scaturiva lo sviluppo dei mercati.
Che cosa fanno ora gli altri contendenti? Washington, qualsiasi amministrazione sia insediata alla Casa Bianca, sembra interessata unicamente a trarre vantaggi militari e commerciali dalla debolezza dell’Euro e dalle risse intracontinentali. Londra, anche dopo e nonostante la Brexit, vuole tutelare la predominanza della City su tutte le transazioni del pianeta.
Esattamente come nel 1914, l’unica forma di resistenza attiva all’accaparramento tedesco dell’Eurasia viene da Mosca. Una Mosca non più zarista ed ancor meno comunista, ma ugualmente mossa dal carisma autoritario. Che sia Putin o un altro conta solo per dare un nome all’equivalente russo del Führerprinzip tedesco.
Mentre si combatte un nemico sul piano degli interessi globali, si collabora su quello delle convenienze reciproche. Smessi i panni di Cancelliere, Gerhard Schröder non rifiutò l’offerta del gigante energetico russo Gazprom di dirigere il consorzio Nord Stream AG. In tale veste, guidò la costruzione di un gasdotto che parte dalla costa rdi Vyborg e giunge al quella tedesca di Greifswald, transitando per il Baltico. E Schröder non ne beneficiò soltanto a livello personale. Rese un servigio alla madrepatria.
D’altronde, perfino ai tempi del Patto di Varsavia, la Germania dell’Est era un fortilizio di affidabilità strutturale e burocratica per il fatiscente impero sovietico. I migliori utensili venivano di là. Il più grande manipolatore di segreti era Markus Wolf, un tedesco cui si ispirò John Le Carré per la figura di Karla, l’arcinemico di George Smiley e del Circus, denominazione immaginaria del servizio segreto inglese. Tutto