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Comunicazione, intercultura e organizzazioni complesse
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Comunicazione, intercultura e organizzazioni complesse

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L’importanza trasversale che le tecnologie digitali hanno raggiunto all’interno dei diversi livelli di organizzazione sociale non è andata del tutto ad intaccare o destabilizzare forme e modelli di comunicazione in essi ormai consolidati. Accanto alle innovazioni introdotte dai digital media, forme e modelli della comunicazione di tipo più tradizionale e mainstream mantengono una loro validità euristica. Ciò nella misura in cui essi si rivelano coerenti all’organizzazione sociale all’interno della quale trovano spazio di espressione.
I saggi raccolti nel volume si sviluppano attorno a tra aree di interesse: la comunicazione, l’interculturalità e le organizzazioni complesse, individuando diversi ambiti di osservazione. In ciascuno di essi si analizzano le opportunità e le insidie connesse all’applicazione di strategie comunicative che fanno da ponte tra il vecchio e il nuovo, evidenziando come potenzialità e criticità possono essere comprese e analizzate solo se adeguatamente contestualizzate. L’idea attorno a cui convergono le riflessioni degli autori è quella della necessità di competenze comunicative di tipo specialistico, rispettose delle istanze che ciascuno degli ambiti presi in esame solleva e capaci di leggere ed intercettare i mutamenti a cui i diversi livelli di organizzazione sociale oggi sono chiamati a far fronte.
LanguageItaliano
Release dateJun 14, 2017
ISBN9788838245688
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    Comunicazione, intercultura e organizzazioni complesse - Francesca Ieracitano

    Francesca Ieracitano

    Comunicazioni, intercultura e organizzazioni complesse

    Il volume è stato pubblicato grazie al contributo

    della Libera Università Maria SS. Assunta

    La collana è peer reviewed

    EDIZIONI STUDIUM - ROMA

    Copyright © 2017 by Edizioni Studium - Roma

    ISBN 978-88-382-4568-8

    UUID: f8aab3ae-50fc-11e7-9fad-49fbd00dc2aa

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    Premessa

    COMUNICAZIONE

    Lo stato di salute dei mass media nell'era digitale

    Una lettura sociologica del prodotto videoludico. Il caso metal gear solid 3

    Esperienza storica dello staff dei negoziatori nella gestione dell'emergenza

    INTERCULTURA

    Migrazioni e frontiere: dinamiche relazionali tra migranti e operatori nel palcoscenico del confine

    Competenze interculturali e formazione: dimensioni e modelli di riferimento

    La stampa etnica come «intermediario socioculturale»: L’analisi dei giornali Ako Ay Pilipino e Expreso Latino

    ORGANIZZAZIONI COMPLESSE

    L'ibridazione delle best practice di industry diverse: un modello di comunicazione innovativa

    Misurare l'impatto sociale: driver e barriere nelle imprese sociali italiane

    Premessa

    Francesca Ieracitano

    Il presente volume raccoglie una serie di saggi che approfondiscono tematiche capaci di restituire la complessità del rapporto che intercorre tra comunicazione, società e cultura, con un’attenzione particolare rivolta alle forme e ai modelli che la comunicazione assume all’interno dei diversi livelli di organizzazione sociale.

    Questo percorso di analisi originale prende spunto dal lavoro di ricerca svolto dagli autori all’interno del XXVII e XVIII ciclo del Dottorato in Comunicazione, Interculturalità e Organizzazioni Complesse della Libera Università Maria Ss. Assunta – Lumsa, di Roma, coordinato dalla Prof.ssa Donatella Pacelli. Esso si pone in linea di continuità con la tradizione di ricerca inaugurata dal Dottorato in Scienze delle Comunicazione e Organizzazioni complesse, coordinato dalla Prof.ssa Maria Grazia Bianco all’interno dello stesso Ateneo.

    A fare da trait d’union ai diversi contributi è, in una certa misura, la rivendicazione dell’importanza di competenze specialistiche, fondamentali affinché la comunicazione si riveli strumento efficace e capace di farsi molla propulsiva di cambiamenti culturali, innovazione e sviluppo, ma anche cartina di tornasole delle trasformazioni sociali in atto.

    In altri termini, attraverso i contributi presentati nel volume vengono ripercorsi idealmente diversi livelli del modello della piramide elaborata da McQuail. Ciascun autore infatti prende in esame un livello di organizzazione sociale (dalla comunicazione interpersonale a quella mass mediale) all’interno del quale la comunicazione avviene secondo specifiche dinamiche e nel rispetto di modelli coerenti all’organizzazione sociale all’interno della quale ha luogo, andando di conseguenza incontro a problemi e criticità che possono essere compresi e analizzati solo se adeguatamente contestualizzati.

    La prospettiva di analisi assunta dagli autori nella trattazione dei loro temi è di tipo prevalentemente sociocentrico, attenta, dunque, a leggere nella comunicazione mutamenti sociali ed economici, ma anche processi culturali di più ampio respiro, pur sfuggendo al fascino di cadere in facili determinismi.

    Il volume rappresenta l’ideale prosieguo della Collana Quaderni del Dottorato in Scienze della Comunicazione. Parimenti ai precedenti, esso risponde all’obiettivo di testimoniare la fecondità degli studi in un ambito di interesse, quello della comunicazione, ancora troppo frequentemente considerato chiuso nelle sue logiche e non all’altezza delle finalità che persegue. Al contrario, come mettono in luce i saggi presentati, i terreni di indagine che si aprono mettendo a tema aspetti della comunicazione che sembrano offrire opportunità inedite per dialogare con i problemi che agitano le società contemporanee.

    Emerge, dunque, con convinzione l’idea di una polisemia del comunicare e della trasversalità di un processo che permette di coniugare problematiche di natura antropologica con la specificità dei contesti di vita contemporanei, più complessi e sfuggenti, senza degenerare nel tecnicismo o nella settorializzazione dei saperi.

    Lungi, infatti, dal riconoscere alla comunicazione una forza paradigmatica esclusiva, ciò verso cui convergono i diversi autori è la possibilità di utilizzarla come categoria di analisi che concorre a toccare con precisione e sensibilità questioni di ampia portata. Pertanto, nella eterogeneità dei campi di osservazione prescelti, gli autori sembrano bene rappresentare una prospettiva di studio che colloca la comunicazione fra i processi capaci di restituire centralità alla persona anche in ambienti altamente complessi, quali appunto quelli delle industrie culturali, delle organizzazioni sociali, istituzionali ed economiche della contemporaneità.

    Da questo punto di vista, va riconosciuta agli autori – che qui ripropongono i risultati principali delle ricerche condotte all’interno del percorso di Dottorato – un doppio merito: da un lato, quello di fornire un’analisi critica dei terreni in cui la comunicazione agisce e nei quali è spesso corresponsabile di disfunzioni, inefficienze e incomprensioni, dall’altro quello di andare oltre tali limitazioni. Essi offrono infatti analisi previsionali e propongono modelli e chiavi di lettura alternative utili a innescare circoli virtuosi che fanno perno proprio sulla comunicazione intesa come molla propulsiva di un cambiamento sociale e culturale.

    L’analisi critica dei contesti e delle situazioni comunicative analizzate non è dunque il punto di arrivo delle piste di ricerca qui proposte, ma diviene punto di partenza per tracciare con cautela e con onestà intellettuale le vie percorribili per scenari futuri.

    In questa prospettiva i diversi contributi danno luogo a un dialogo armonico tra teoria e ricerca, che non si esaurisce al suo interno, ma getta un ponte funzionale a porre in relazione la riflessione scientifica alle problematiche e alle criticità delle società occidentali contemporanee.

    Gli argomenti trattati sono molteplici, tuttavia è stato possibile ricondurli all’interno delle tre macroaree attorno alle quali il percorso del Dottorato è strutturato: l’area della comunicazione, l’area dell’intercultura e quella delle organizzazioni complesse.

    – L’area della comunicazione si apre con il contributo teorico della sottoscritta dal titolo: L o stato di salute dei mass media nell’era digitale, il quale, a partire dalla prospettiva della media ecology, si sforza di individuare le forme di dialogo tra specie mediali differenti, analizzando nuove pratiche di utilizzo dei mezzi di comunicazione di massa e forme culturali connesse che sembrano aderire più che ad una media logic ad una media fuzzy logic. Ad esso segue il contributo di Luca Attenni: Una lettura sociologica del prodotto videoludico. Il caso Metal Gear Solid 3 nel quale viene esaminato come uno dei prodotti dell’industria culturale per eccellenza destinato allo svago, di fatto, ripropone i valori e i modelli culturali di riferimento di una modernità radicale. Il contributo di Oriana Funari è dedicato all’ Esperienza storica dello staff dei negoziatori nella gestione dell’emergenza. In esso viene preso in esame una delle forme forse più delicate di comunicazione interpersonale, quella della negoziazione, rispetto alla quale il rischio di degenerare nella conflittualità richiede una grande capacità di analisi degli strumenti comunicativi e dei micro e macro contesti in cui l’interazione ha luogo.

    – L’area dell’ intercultura guarda alle problematiche comunicative e ai possibili sviluppi connessi alla dimensione dell’interculturalità da diverse prospettive: quella dell’interazione diretta in contesti di emergenza, esaminata nel saggio dal titolo: Migrazioni e frontiere. Dinamiche relazionali tra migranti e operatori nel palcoscenico del confine, di Francesco Vigneri; quella delle formazione e del trasferimento di conoscenze basato su competenze interculturali capaci di dialogare con la diversità, secondo quanto emerge dal saggio: Competenze interculturali e formazione: dimensioni e modelli di riferimento, di Maria Rosaria Nava ed infine, quella mass mediale, dove l’informazione gioca un ruolo determinante nel favorire dinamiche inclusive e di intermediazione come analizzato nel contributo su La stampa etnica come intermediario socioculturale: l’analisi dei giornali Ako Ay Pilipino e Expreso Latino, di Daria Forlenza.

    – L’area delle organizzazioni complesse getta lo sguardo su possibili strategie di sviluppo e innovazione che interessano non solo i modelli di comunicazione adottati dall’ambito istituzionale, come nel caso del saggio: L’ibridazione delle best practices di industry diverse: un modello di comunicazione innovativa, di Giorgio Caridi, ma anche su nuovi modelli di business più attenti a un mercato camaleontico, nel quale i ricavi si misurano non solo in termini economici, ma anche di impatto sociale, come evidenzia il contributo: Misurare l’impatto sociale: driver e barriere nelle imprese sociali italiane di Cecilia Grieco.

    In particolare, per quanto riguarda il primo ambito di indagine, la riflessione sullo stato di salute dei mezzi di comunicazione di massa oggi analizza il modo in cui di fatto i media digitali siano riusciti ad offrire nuove spinte propulsive alla ridefinizione del ruolo dei media mainstream all’interno, ma anche all’esterno, del mediascape. Se per un verso le innovazioni strutturali e tecnologiche hanno offerto spinte al rinnovamento dei vecchi media, allo stesso tempo però la diffusione di forme culturali connesse e nuove pratiche di utilizzo di vecchi e nuovi media rischia di destabilizzare e mettere in discussione la solidità della media logic e le sue routine produttive. Esse infatti si fanno promotrici di una fuzzy media logic che introduce l’elemento dell’incertezza, rischiando di delegittimare il modo di operare dei media mainstream e la loro modalità di rappresentare la complessità del reale.

    Ne consegue il ricorso a nuovi modelli narrativi che propongono una verità (mediale) rappresentata e raccontata attraverso enunciati vaghi e l’incertezza non sembra eliminabile nell’acquisizione ed interpretazione delle informazioni offerte dai media mainstream attraverso la logica dicotomica del vero/falso.

    Nel contributo di Oriana Funari la comunicazione si sposta dalla dimensione mass mediale a quella dell’interazione tra attori che intervengono in una particolare dinamica comunicativa, quella della negoziazione, facendosi portatori di scopi e interessi di natura opposta. L’autrice fa un’attenta disamina delle competenze necessarie a instaurare una relazione comunicativa che rischia di degenerare in conflitto, sostenendo che «la c ultura della negoziazione resta la migliore possibile strada da percorrere per creare una mentalità non conflittuale». Tale cultura si configura come metodo di intervento istituzionalizzato, dinamico e interattivo i cui strumenti risiedono nella professionalità del negoziatore e del suo staff, in un uso sapiente e responsabile degli strumenti e delle tecniche della comunicazione verbale e non verbale, nell’ascolto attivo e nell’empatia che possono aver luogo solo se a monte il negoziatore è stato capace di instaurare un rapporto di fiducia e credibilità con il sequestratore.

    Al prodotto videoludico, quale emblema della cultura di massa, e al suo rapporto con le trasformazioni sociali e culturali è dedicata l’analisi che Luca Attenni fa di Metal Gear Solid 3. L’autore, contestualizzando il videogioco in uno scenario segnato dalle logiche dell’industria culturale, ne analizza la fenomenologia e soprattutto le narrative, nell’intento di farne emergere la sua valenza sociale. In altri termini l’autore elegge ad oggetto culturale il prodotto videoludico al fine di individuare se e come i condizionamenti derivanti dal mondo sociale nel quale esso si inscrive – e incontra il suo successo di pubblico – si riflettano nei valori e nel modello di società da esso riprodotto. Il videogioco, in questo caso esce dalle maglie interpretative proprie degli studi sul loisir e sulla gamification e viene letto ed analizzato come prodotto culturale, espressione della modernità radicale e dello spirito del tempo che lo ha generato. Ciò al fine di verificare «se si faccia specchio della complessità della realtà odierna o se invece finisca per semplificarla più o meno grossolanamente come nel caso di molti altri videogiochi che pagano in tal modo il loro tributo ai meccanismi dell’industria culturale».

    Il saggio di Francesco Vigneri apre la sezione dedicata all’intercultura. Egli presenta i risultati di uno studio etnografico condotto in una delle zone di frontiera maggiormente esposte ai flussi migratori, Lampedusa. L’isola divenuta oggi emblema delle difficoltà che caratterizzano il dialogo interculturale diviene per l’autore un osservatorio privilegiato delle pratiche di trattamento dei migranti alle frontiere marittime e dei loro metodi comportamentali. L’autore presenta, nel suo contributo, un’analisi delle dinamiche comunicative tra gli operatori della gestione migratoria e i migranti neo-sbarcati, focalizzando l’attenzione sul meccanismo di reciproco condizionamento che si viene a instaurare tra pratiche di trattamento, ruolo dei media, sentire comune e politiche sull’immigrazione. Ciò che i risultati dello studio mettono in luce è che «le dinamiche relazionali sono così impostate su un rapporto di forze asimmetrico che porta i migranti a ricorrere ad altre forme di espressione suscettibili di essere percepite come atti di arroganza o stoltezza, finendo per alimentare quel circuito vizioso che li vede sottoposti a un meccanismo de-soggettivante, ma in grado di far apparire la questione migratoria come un problema tale da rischiare di distruggere l’unione di un intero continente».

    I problemi e le potenzialità che caratterizzano il dialogo interculturale richiedono, pertanto, un sistema di competenze che Maria Rosaria Nava analizza con riferimento all’ambito specifico della formazione. In particolare l’autrice chiarisce che «qualsiasi percorso di formazione interculturale dovrebbe avere come filo conduttore la ricchezza derivante dalla diversità culturale e come obiettivo la presa di coscienza di quelle dimensioni e caratteristiche che ci avvicinano a chi consideriamo diverso da noi».

    Le competenze divengono la base a partire dalla quale è possibile auspicare un agire che sia interculturalmente competente, il quale è la risultante di una commistione di fattori che tengano conto dei tratti della personalità dei soggetti coinvolti nel dialogo, la consapevolezza di sé, ma prima di ogni altra cosa la consapevolezza dell’ altro-da-sé, che si fonda sulla conoscenza dei contesti di riferimento.

    Come chiarisce la Nava, non esistono formule predefinite capaci di porre in essere una relazione interculturale rispettosa delle parti coinvolte. Gli elementi sopracitati devono essere infatti modulati in relazione alle specificità delle culture alle quali ci si rapporta e dei contesti in cui l’interazione ha luogo.

    Il lavoro di Daria Forlenza, sposta la prospettiva di analisi sui problemi dell’integrazione e dell’intercultura focalizzandosi sul ruolo e le potenzialità del sistema dei media, ed in particolare della stampa etnica, nella costruzione di dinamiche inclusive. Forlenza, nel suo contributo, guarda a questo specifico canale di comunicazione come intermediario sociale, linguistico e culturale. Sebbene la stampa etnica rappresenti un punto di riferimento rilevante per le comunità straniere esaminate presenti nel nostro paese, è pur vero che essa fatica a conquistare lo spazio e la visibilità presso l’opinione pubblica nazionale. «I giornali etnici non godono ancora del riconoscimento da parte delle istituzioni e non possono agire in qualità di intermediari politici perché le notizie che diffondono hanno una scarsa influenza sull’opinione pubblica». Malgrado ciò, essi si configurano come importanti promotori dell’identità culturale per le minoranze che potrebbero rivendicare uno spazio di partecipazione politica nei confronti dei contesti di accoglienza.

    L’analisi delle organizzazioni complesse si apre con il contributo di Giorgio Caridi relativo all’importanza di sperimentare all’interno di queste realtà modelli comunicativi basati sull’ibridazione di forme e tecniche comunicative proprie di diverse tipologie aziendali. L’elemento di innovazione per un’impresa di servizi in particolare è determinante per garantire un cambiamento basato su meccanismi adattivi nei confronti dell’ambiente in cui essa opera. Tale innovazione per un’organizzazione complessa risponde «all’esigenza di una comunicazione mirata e moderna che soppianti una comunicazione adatta per tutti e per ogni occasione, e che sia indirizzata ai bisogni specifici dei vari target. Per far ciò, è imperativo un educarsi permanente che contempli l’innesto di elementi culturali propri di altre industry e background».

    Il lavoro di Cecilia Grieco ha infine messo in evidenza l’importanza della relazione tra performance economiche e attenzione sociale, offrendo un’analisi del fenomeno della misurazione dell’impatto sociale di organizzazioni complesse, quali le imprese sociali italiane. Il processo di misurazione dell’impatto sociale incontra il suo principale ostacolo nella mancanza di «una cultura in relazione al concetto di impatto sociale ed alla sua misurazione». In altri termini emergono delle barriere legate all’assenza di una adeguata conoscenza del tema, in parte attribuibile alla mancanza di pressioni da parte degli stakeholder percepita dagli imprenditori sociali o dalla mancanza di iniziative che richiedono esplicitamente alle organizzazioni la misurazione del proprio impatto sociale.

    Ancora una volta la comunicazione diviene fattore dirimente nel superamento di un simile gap che potrebbe essere sanato attraverso lo sviluppo e la disseminazione di linee guida delle quali le stesse organizzazioni coinvolte nell’analisi di Grieco avvertono fortemente l’esigenza.

    Il percorso tracciato dai saggi raccolti in questo volume evidenzia senz’altro la necessità di incentivare piste di ricerca capaci di riflettere sulle criticità che affliggono dimensioni del vivere sociale e che intercettano i problemi dell’innovazione, dell’integrazione e della comunicazione a diversi livelli (interpersonale, istituzionale-aziendale e massmediale). Tuttavia tali percorsi assumono senso nella misura in cui sono animati dalla capacità di aspirare. Quella capacità, cioè, di andare oltre affiancando all’analisi critica dei contesti in cui le problematicità emergono, uno sguardo orientato al futuro capace di offrire strumenti e competenze che si facciano portatrici di innovazione e sviluppo, pur nei limiti e nelle difficoltà con le quali i contesti sociali contemporanei, minacciati dall’idea della crisi economica, relazionale, di valori e istituzionale, sono chiamati a convivere.

    COMUNICAZIONE

    Lo stato di salute dei mass media nell'era digitale

    di Francesca Ieracitano

    1. Introduzione

    L’avvento di ogni nuovo medium nella storia dei mezzi di comunicazione di massa, è accompagnato, sovente, da una doppia lettura. Essa consiste da una parte nel vedere in esso una nuova promessa di democrazia e crescita egualitaria [1] all’interno delle società che lo accolgono e, dall’altra, nell’inquadrarlo come una possibile minaccia per la sopravvivenza dei media che lo hanno preceduto e per la società. Ciò alla luce di nuovi potenziali effetti nocivi che il nuovo medium può produrre sui suoi fruitori [2] .

    Tali preoccupazioni hanno senz’altro contribuito ad alimentare il dibattito sugli effetti della comunicazione di massa di nuovi stimoli. Stimoli necessari a ravvivare un campo di ricerca che ancora oggi trova ampie barriere e difficoltà nell’essere indagato. Mancano infatti strumenti adeguati e domande di ricerca che tengano conto della ridefinizione del panorama mediale e soprattutto del ruolo del pubblico all’interno del processo della comunicazione di massa.

    Tuttavia, la ricerca di possibili effetti causati dall’introduzione nella vita quotidiana [3] di tecnologie digitali e pratiche di utilizzo alternative – talvolta non previste [4] – ha favorito lo sviluppo di nuovi paradigmi interpretativi e branche di studio, come gli internet studies. Essi, soprattutto ai loro esordi, hanno segnato una netta demarcazione tra il mondo dei media tradizionali e quello dei media digitali [5] .

    Questa, per certi versi, necessaria frammentazione del sapere ha portato ad analisi comparative nelle quali il vecchio ed il nuovo, soprattutto nella cosiddetta prima fase degli internet studies [6] , appaiono contrapposti.

    Una riflessione incentrata sullo stato di salute dei media mainstream oggi non può basarsi solo sul modo in cui essi siano riusciti o meno a inserirsi, mettersi in gioco e rinnovarsi in un mediascape dove il ruolo di social e digital media sembra essere trainante. Al contrario, va pensata alla luce dell’intermediazione che si è venuta a creare tra di essi e che ha permesso per un verso lo sviluppo delle tecnologie digitali e per l’altro più che la sopravvivenza, la rinascita e ridefinizione dei media mainstream [7] .

    Per avviare quest’analisi la presente riflessione incrocerà due paradigmi interpretativi entrambi sviluppatisi in ambiti disciplinari diversi da quelli della communication research: quello della media ecology e quello della fuzzy logic.

    Il primo, nato nell’ambito delle scienze biologiche e naturali, e il secondo nell’ambito della logica matematica rappresentano due paradigmi, a mio avviso, utili ad assumere una visione, per quanto possibile, d’insieme sulle trasformazioni che attraversano il mediascape e che ancora non possono dirsi giunte a compimento.

    Cosa ben più importante, i due paradigmi consentono di assumere una visione d’insieme sulle nuove forme di dialogo che si sono instaurate tra i diversi media e tra questi e diverse sfere del sociale, rendendo i confini stessi del mediascape sempre più fuzzy.

    L’idea di base che si intende sostenere è che lo stato di salute dei media mainstream oggi può essere diagnosticato e misurato solo se si cerca di capire come questi si siano specializzati e/o abbiano tratto beneficio dall’avanzamento del nuovo, tentando di cogliere al contempo, come sia cambiata la loro modalità di dialogo con la società, nonché le loro logiche di funzionamento. Per fare ciò è necessario svincolare la riflessione da una prospettiva dicotomica che sia esclusivamente mediacentrica o sociocentrica [8] .

    Il framework della media ecology permette di trascendere le due prospettive e sarà utile a comprendere che tipo di relazione, cooperazione o ibridazione è nata dal dialogo tra vecchi e nuovi media fino a ridefinire la geografia che tracciava, prima in maniera molto netta, i confini tra i singoli mezzi di comunicazione di massa, i loro pubblici e le pratiche di utilizzo ad essi connesse, nonché i confini tra il sistema dei media e altre sfere del sociale [9] .

    Le trasformazioni di tipo strutturale e tecnologico verranno dunque richiamate al fine di comprendere come attraverso di esse si sia definita la dialogicità tra media mainstream e digital media, come di conseguenza una cultura convergente abbia prodotto un impatto sul rinnovamento dei vecchi media e quali nuovi «stati di connessione» [10] esse abbiano innescato al di fuori del sistema mediale.

    Questo apre la strada ad una seconda riflessione che chiama in causa il modo in cui nuove pratiche di utilizzo dei media mainstream e dei digital media e nuove forme culturali connesse siano intervenute fino a rinegoziare il dialogo tra l’ecosistema mediale e quello sociale arrivando a produrre cambiamenti che hanno investito anche la media logic.

    Il paradigma della fuzzy media logic diventa a tal proposito utile al fine di capire in che direzione si stia muovendo la media logic e con quali ostacoli essa si deve confrontare.

    Per indagare questo aspetto si farà luce soprattutto sulle pratiche di utilizzo dei media e sulle forme culturali connesse come la disinformazione, la misinformazione [11] e la post-verità che hanno il loro impatto su media mainstream, digitali e su diverse sfere del sistema sociale.

    Tali questioni aiutano a comprendere come l’interazione e l’integrazione tra diverse specie mediali concorra ad alimentare il clima di incertezza che si respira nelle società contemporanee. L’azione non sempre coordinata e sinergica tra specie mediali differenti infatti ridefinisce alcune delle strategie sulle quali si basa la media logic, ulteriormente alterata dalla presenza di nuovi attori che intervengono nella produzione e diffusione dei contenuti. Essi seguendo una fuzzy media logic mettono in atto nuove pratiche di utilizzo rispetto a quelle previste dai media mainstream, tanto da rendere la media logic complice nell’accogliere e in alcuni casi nel produrre l’incertezza.

    2. Dalla paura al dialogo tra vecchi e nuovi media: una prospettiva di media ecology

    Come ricorda Bukingam [12] le nuove tecnologie hanno da sempre rappresentato una fonte di preoccupazione, perchè costituiscono una forma ideale di rottura con il passato. Pertanto, ogni innovazione avvenuta nell’ambito della comunicazione di massa, e non solo, è stata accompagnata dalla preoccupazione che il nuovo rischiasse di far estinguere le tecnologie che le avevano precedute [13] .

    Tuttavia la storia dei mezzi di comunicazione di massa dimostra come la nascita di ogni nuovo medium, più che rappresentare un elemento di rottura con il passato e le tecnologie che lo avevano preceduto, si è posta in continuità con esse, prendendone a prestito in prima battuta i contenuti e le funzioni. Ciò a seguito di un complesso processo di negoziazione tra tecnologie, culture e pratiche di utilizzo. Un esempio su tutti è la nascita della cinematografia che, in termini di funzioni svolte e di offerta, proponeva contenuti non certo innovativi basati su storie, musica, spettacoli, teatro che prima dell’avvento del cinema venivano fruiti altrove.

    Stesso timore ha segnato gli esordi del medium televisivo rispetto alla cinematografia, alla stampa, ai libri ed alla radio. Gli sceneggiati radiofonici hanno trovato la loro transcodifica nella formula della serialità propria della fiction in primis ed oggi delle tv series e web series. L’invenzione della telefonia mobile ha subito battute d’arresto legate proprio al timore che essa potesse cannibalizzare la telefonia fissa [14] . Anche in questo caso ci troviamo di fronte ad un dispositivo che ha inglobato in sé altre forme di comunicazione come quella orale e successivamente anche quella scritta, grazie ai messaggi di testo, senza per questo annullarle.

    Tuttavia, il processo di evoluzione, rinnovamento e/o trasformazione che i media hanno subito non può essere descritto in termini così lineari e progressivi. Soprattutto nel settore dei media e dei dispositivi digitali il processo di evoluzione è stato segnato da importanti momenti di rottura, attribuibili in alcuni casi a quelle che Clayton M. Christensen ha definito «disruptive innovation» [15] . Con questa espressione si fa riferimento a quelle innovazioni che in prima battuta non sembrano particolarmente significative o rilevanti per i consumatori/utenti che già sono utilizzatori della tecnologia che precede tale innovazione. Si tratta di innovazioni che hanno una velocità di propagazione talmente ampia che nel momento in cui attecchiscono sono in grado di rivoluzione un settore o una fetta di mercato, fino, nei casi più estremi, a mandarla in crisi. Basti pensare a come si è affermato e propagato Whatsapp rispetto ad altri sistemi di messaggeria istantanea, o prima ancora, a come si è affermato all’inizio con poca convinzione e poi con in maniera prorompente il personal computer rispetto agli ingombranti e costosi calcolatori. Queste innovazioni non hanno modificato bisogni esistenti, ma li hanno rafforzati, puntando molto sui vantaggi che derivano dall’affordance dell’innovazione. Lo stesso discorso vale per l’I-Pad/ Tablet.

    In altri termini una disruptive innovation introduce funzionalità nuove o diverse da quelle richieste da utenti già esistenti, quindi sembrerebbe indirizzata a nuove nicchie di mercato. Di fatto, poi essa si evolve e si espande rapidamente fino a rendere obsolete le tecnologie e/o situazioni preesistenti, non tanto perché offra servizi o funzioni migliori, ma perché introduce prodotti più semplici e «affordable» [16] , più pratici e più economici. In questo modo, di tale innovazione possono beneficiare nuovi utenti e utenti di una fascia bassa che prima non potevano permettersi un certo prodotto, fino a divenire quasi indispensabili anche per quei fruitori/clienti che in prima battuta non sembravano interessati ad essi.

    Allo stesso modo, per certi versi, ciò che di fatto ha segnato la differenza tra i diversi media sul piano sociale sono non tanto le funzioni svolte, quanto i diversi bisogni e gratificazioni che il nuovo medium di volta in volta è andato a soddisfare. Ad esempio, come ricorda McQuail, la cinematografia è riuscita a soddisfare il bisogno di intrattenimento e svago a basso costo per un ceto urbano medio-basso e operaio che non poteva permettersi di andare al teatro o ai concerti [17] .

    Stessa cosa potrebbe dirsi oggi per i contenuti offerti dalla rete, dove la novità sostanziale non consiste solo nella facilità con cui l’utente può accedere a una vastità di contenuti prima appannaggio di specifici media, ma soprattutto nella possibilità di generare questi contenuti e condividerli. La centralità che la rete e le tecnologie digitali hanno conferito all’utente hanno ridefinito per sempre il suo ruolo all’interno del processo di comunicazione di massa, un ruolo che trova nei social media la sua massima forma di espressione.

    Naturalmente il timore per l’avvento dei nuovi media non è legato solo al rischio di obsolescenza a cui essi avrebbero potuto esporre i vecchi media, ma soprattutto all’impatto sociale da essi prodotto. Si è passati così dal timore per l’uso propagandistico e manipolatorio della cinematografia durante i totalitarismi alla perdita della capacità simbolica dell’homo videns [18] o al rischio di un’eccessiva socializzazione alla violenza o di isolamento sociale che si temeva il medium televisivo potesse incentivare tra le giovani generazioni.

    Tuttavia, le paure negli ultimi 50-60 anni sembrano essere più o meno sempre le stesse e il denominatore che le accomuna è in fin dei conti riconducibile al grado di pervasività riconosciuto ai diversi media che si sono succeduti nel tempo, alla loro capacità di frapporsi in maniera interstiziale tra le attività che svolgiamo nella nostra vita quotidiana e di interferire e/o interagire con esse.

    I timori che come un déja vù ritornano ad accendere il dibattito tra apocalittici e integrati in merito ai digital media trovano il loro culmine negli interrogativi che si sono posti Carr e Weinberger nei loro libri: domandandosi se la rete faccia diventare stupidi o intelligenti [19] . Un interrogativo che già di per sé malcela una prospettiva deterministica sulla questione.

    Al di là di questi interrogativi, nel dibattito pubblico, così come in quello accademico, le paure relative al consumo di televisione da parte soprattutto di minori e adolescenti oggi si sono solo traslate sulle piattaforme digitali dei social media. Vale a dire, il timore di una dipendenza dal medium; i rischi per la socialità dovuti ad un eccessivo isolamento sociale; i rischi per l’apprendimento, riconducibili anche ad un crescente livello di esposizione ad immagini che indeboliscono la capacità di elaborazione simbolica richiesta invece dalla lettura [20] . Per non parlare della degenerazione di o in comportamenti devianti: la tv ci socializza alla violenza perché la fa entrare dentro le case dove prima non la si conosceva, diceva Popper [21] . Allo stesso modo, la rete ha aperto le porte alla minaccia del cyberbullismo. Laddove di fatto a cambiare non sono solo le forme che la violenza assume, ma la visibilità che ad essa si accompagna, con il conseguente danno all’immagine delle persone, tra le altre cose.

    Naturalmente molte di queste preoccupazioni si incentrano principalmente sulle possibili derive relazionali alle quali le nuove tecnologie possono portare: la socialità in rete appare più agevole, ma meno protetta (apparentemente) rispetto alle forme di socialità offline.

    La logica che ha guidato questo acceso dibattito pubblico ma anche accademico per circa 70 anni è ancora una volta quella del nuovo vs il vecchio. Ciò ha portato paradossalmente a sviluppare uno sguardo miope sul modo in cui il vecchio e il nuovo hanno imparato a dialogare e ad integrarsi soprattutto grazie e a causa del nuovo ruolo che gli utenti si sono ritagliati all’interno di questo rapporto.

    Da qui l’esigenza di ricorrere a un framework teorico che guardi alla relazione reciproca che si è instaurata tra media mainstream e digital media in termini dialettici.

    Perchè la prospettiva della media ecology può essere di supporto ad una riflessione sullo stato di salute dei vecchi media nell’era digitale? Perché essa consente, tra le altre cose, di prendere in esame:

    aspetti strutturali che hanno facilitato il dialogo tra media differenti, nonché in alcuni casi la loro sopravvivenza;

    – pratiche di utilizzo basate non solo sulla facilità di accesso da parte degli utenti, ma anche sulla riappropriazione dei media e sulla ridefinizione/rinegoziazione delle loro funzioni anche da parte di nuovi attori sociali. Soggetti che rivendicano la propria legittimità e/o istituzionalità in alcuni casi e che riescono ad ottenerla applicando le stesse regole o ribaltando le strategie che sono proprie della media logic;

    – sviluppo di forme culturali connesse, le quali oltre a circolare con facilità tra media di tipo differente hanno ulteriormente sancito il passaggio da una media logic ad una fuzzy media logic con importanti ricadute sociali e politiche in alcuni casi.

    Secondo l’interpretazione che ne danno Postman e Nystrom, la media ecology è lo studio dei media, cioè di «complessi sistemi di comunicazione» intesi come ambienti [22] . Come lo stesso Postman ha ricordato in una conferenza dal titolo «Cinque cose che dobbiamo sapere sul cambiamento tecnologico», «un nuovo medium non aggiunge qualcosa, esso cambia ogni cosa» [23] e questo cambiamento, naturalmente non rimane circoscritto all’interno del sistema mediale stesso.

    Senza ricadere nelle derive di un determinismo tecnologico

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