Aiutami a Capirlo
By Stefano Zecchi and Paolo Nucci
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About this ebook
In che modo la ricostruzione dei sintomi da parte dei genitori influisce sulle scelte del medico? Quanto è importante, ai fini della riuscita della cura, la capacità del pediatra di sviluppare solidarietà ed empatia nei confronti del piccolo paziente e dei suoi genitori? E qual è la giusta distanza su cui improntare la relazione? Aiutami a capirlo. L’incontro tra il medico, il genitore e il bambino intende rispondere a queste e altre domande muovendo dal presupposto che nessuno può dare per scontata la comprensione delle parole del dottore. In queste pagine, quindi, si sviluppa un’interessante riflessione su quegli aspetti comunicativo-relazionali del trattamento terapeutico che ne condizionano inevitabilmente l’esito. A partire dalle proprie esperienze di vita e professionali, gli autori forniscono alcuni suggerimenti concreti affinché si instauri un rapporto di fiducia tra tutti i componenti della relazione e il bambino diventi il vero protagonista della stessa.
“Il senso d’impotenza di un genitore di fronte alla malattia del suo bambino è una delle sensazioni più dolorose che si possano sopportare. La prima domanda che padre e madre rivolgono a se stessi è piena di quell’angoscia provocata dalla consapevolezza di non poter risolvere in autonomia lo stato di salute del figlio. Perché proprio io – padre o madre – devo vivere la malattia di mio figlio senza poterla fronteggiare ed eliminare, senza riuscire ad alleviare il dolore del piccolo, e mi trovo costretto ad affidarmi ad altri?”.
Stefano Zecchi
“Nessuna famiglia deve venir fuori da una consultazione medica senza avere un’idea di massima del problema che c’è, di che cosa abbiamo fatto o faremo per assicurarcene e di come lo risolveremo o proveremo ad affrontarlo. Saremo dei buoni comunicatori se il nostro interlocutore avrà la percezione che ce la stiamo mettendo tutta e che se non ne saremo capaci avremo l’umiltà di suggerire qualcuno più bravo che possa gestire la condizione”.
Paolo Nucci
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Aiutami a Capirlo - Stefano Zecchi
Parigi..
Introduzione
di Elena Meli
La sala d’attesa dell’ambulatorio è piccola, non mi sento molto a mio agio. L’ambiente certo non aiuta: qualche sedia di plastica scura, le solite riviste un po’ datate su un tavolino, poster scoloriti nemmeno troppo allegri alle pareti. Un cesto di giocattoli che hanno visto tempi migliori, lasciato senza troppe cerimonie in un angolo, è l’unico indizio a indicare che qui si visitano anche bambini.
Mia figlia, poco più di due anni, non sembra molto attratta da quello xilofono di plastica ammaccato o dal peluche grigiastro dall’aria triste. Mi sta accanto oppure gironzola nei paraggi, chiamandomi di continuo per farmi le solite mille domande su qualunque cosa nella sua lingua ancora strampalata.
Nell’attesa mi chiedo che cosa dirà la dottoressa: è una luminare dell’ospedale pediatrico della città in cui vivo, visiterà la bambina perché da qualche settimana mi sono accorta che tiene il pollice della mano destra in una posizione parecchio strana, sembra proprio che non riesca a stenderlo del tutto. Sono qui, nell’ambulatorio dove visita privatamente, perché, come spesso succede, l’attesa con il servizio pubblico sarebbe stata lunghissima: qualche mese, mi hanno detto all’ufficio prenotazioni. Come si fa ad aspettare così tanto quando la preoccupazione ha già cominciato a roderti il cervello, quando il paziente in questione ha due anni appena ed è tua figlia? Così, benedicendo il fatto di potermelo permettere, ottengo un appuntamento in pochissimi giorni e ora eccomi qui, seduta sulla seggiola di plastica scura, a fare appello a tutta la mia capacità di non farmi prendere dall’ansia.
Quando entriamo nello studio della dottoressa, non molto più accogliente della sala d’attesa nei suoi colori smorti e con quei disegni anatomici di scheletri e ossa appesi ai muri, nonostante tutto mi sento subito meglio. Perché lei mi saluta veloce, ma poi guarda subito la bambina e la accoglie con un sorriso enorme dicendole qualcosa di scherzoso. Mia figlia è timida, timidissima con gli estranei, per cui la vedo come sempre molto titubante mentre osserva questa signora in camice bianco da sotto in su, poi però accenna a un sorriso e capisco che il ghiaccio è rotto.
Io racconto i sintomi, la dottoressa visita la bimba con pochissimi gesti sicuri: mi colpisce il fatto che non faccia nulla più di quanto sia strettamente essenziale, come se non volesse invadere il suo spazio o disturbarla oltre il minimo necessario. La piccola è visibilmente tranquilla e rilassata, comincio a esserlo un po’ anche io fino a quando arriva il momento di discutere a quattr’occhi quel che c’è da fare. Ovvero un intervento chirurgico: il tendine del pollice è strozzato
da una piccola malformazione e non riesce a stendersi del tutto, va liberato con un’operazione da programmare per quando mia figlia avrà compiuto tre anni. Abbiamo qualche mese per sperare che tutto si sistemi da sé, ma io già me lo sento che toccherà andare in sala operatoria e devo avere la faccia bianca come un cadavere, mentre la bimba non sembra rendersi conto di nulla. Per fortuna, è ancora piccola.
La dottoressa capisce come mi sento e ora si concentra su di me, non smettendo comunque mai di lanciare qualche segnale a mia figlia che sta curiosando fra le carte sulla scrivania. Mi sento accolta con le mie angosce da genitore che boccheggia nel panico, mentre mi spiega per filo e per segno che cosa succederà se dovranno intervenire. Anche se capisco razionalmente che si tratta di qualcosa di non invasivo, le parole anestesia generale
non riesco a togliermele dalla testa.
Quanto ho rimuginato sulle parole della dottoressa nei mesi successivi, quanto tempo ho passato su internet cercando di trovare qualche informazione in più? Ore infinite, anche se da qualche parte dentro di me (il sesto senso delle mamme?) sentivo che eravamo in buone mani e che potevo fidarmi: le sue spiegazioni erano tutto ciò che avrei dovuto sapere per affrontare l’intervento. Che poi è stato necessario, nessun miracolo
: pochi giorni prima del terzo compleanno, eccoci in ospedale per l’operazione.
La bambina è piccola, so che è tutto relativamente più facile a questa età: non c’è bisogno di troppe spiegazioni dettagliate, bisogna cercare di sdrammatizzare e rendere tutto un’avventura
speciale, colorando un po’ la realtà. Di nuovo siamo io, i medici e lei: posso entrare in sala operatoria finché non sarà addormentata, anche se le gambe mi tremano molto, moltissimo, e senza dubbio non sarei così spaventata se fossi io stessa a dovermi sdraiare su quel lettino. Lei guarda i dottori con la fiducia che ha sempre dimostrato verso di loro fin dall’inizio: ora si sono trasformati in maghi vestiti di verde
che le daranno una speciale maschera rosa alla fragola per dormire un po’. Io le tengo la mano, non so come facciano ma i chirurghi riescono a tenere sotto controllo anche me, a infondermi tutto il coraggio che mi manca mentre vedo lei che si addormenta davvero, placida, e tutti attorno hanno l’aria di sapere perfettamente che cosa devono fare. Mi affido. Non posso fare altrimenti, mi convinco con tutta me stessa che queste persone sanno che cosa stanno facendo e che mia figlia si risveglierà fra poco con appena due o tre punti alla base del pollice, un giorno in osservazione e via
, come dice la dottoressa, fra poco non ricorderemo più nulla di questa giornata.
Tutto va come previsto e ora, oltre sette anni dopo, posso dire che la dottoressa aveva ragione: a volte con mia figlia cerchiamo di trovare la cicatrice ma quasi non si vede nelle pieghe del palmo. Qualche volta parla ancora dei maghi vestiti di verde, ma i ricordi sono positivi: l’esperienza non è stata paurosa per lei, e tutto sommato neanche per me. L’ansia era inevitabile, ma la relazione che si era creata fra me, i medici e la bambina ha funzionato e ci ha fatto attraversare questo piccolo guaio senza troppa angoscia da parte nostra, se non quella ineludibile quando c’è di mezzo un intervento su un bambino. Perché per quanto cerchi di consolarti dicendo che c’è molto di peggio, al momento di entrare in una sala operatoria il timore atavico del male non ti molla. Però io ho potuto parlare ai medici di tutti i miei dubbi, sentire il loro appoggio e la comprensione per la nostra situazione: nelle sale vicine c’erano bambini che lottavano contro malattie ben più gravi, ma i chirurghi non ci hanno mai fatto sentire come pazienti di minore importanza, tutt’altro. La loro attenzione e il calore umano di cui hanno circondato me e la bambina ci hanno fatto attraversare quella giornata con fiducia e ottimismo.
I maghi in camice verde non erano i primi dottori incontrati da quando sono nati i miei figli, né sono stati gli ultimi. Quell’esperienza però, un po’ più forte
di tutte quelle precedenti e successive, di tutte le volte in cui il problema era ancor più piccolo e quotidiano, mi ha fatto riflettere molto su come dovrebbe o potrebbe essere il rapporto fra medici, genitori e pazienti quando chi si ammala è un bambino. L’annuncio della necessità di un intervento, per quanto semplice, l’attesa successiva con i dubbi che si accavallano, l’ospedale con il suo inevitabile carico di sofferenza e ansia, passando di fianco a genitori distrutti perché alle prese con problemi ancora più gravi per i loro figli: un viaggio
che mi ha insegnato molto e ha fatto sorgere anche qualche interrogativo.
Perché fin dall’inizio il rapporto è sempre sbilanciato, inevitabilmente: ci presentiamo dal medico carichi di paure e incertezze, lui o lei è una sorta di oracolo
da cui ci si aspetta la verità, ancora di più rispetto a quando il problema di salute riguarda noi in prima persona. Quasi come se regredissimo un po’ a una condizione primitiva, come se ci volessimo affidare a una