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La Locanda
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Ebook499 pages8 hours

La Locanda

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Vi siete mai chiesti cosa sia in realtà la memoria? Verrebbe da rispondere: è il ricordare qualcosa perché non vada perduto. Ma se, invece, la memoria fosse proprio il dimenticare affinché tutto possa essere ritrovato, ricordato, e nuovamente perduto? Immaginate se questo ragionamento apparentemente assurdo fosse invece alla base della storia dell’umanità e di tutti quei miti che parlano della fine del mondo, la vita non assumerebbe tutto un altro significato? Immaginate ancora se una persona qualunque – per caso? – scoprisse l’esistenza di realtà parallele sconvolgenti e che questa sua nuova consapevolezza fosse l’inizio di un viaggio straordinario e allucinante. La locanda è un romanzo affascinante e surreale, in cui l’accettazione dell’improbabile e dell’impossibile diventa la chiave di lettura per accedere alla salvezza del genere umano. Un romanzo capace di sorprendervi e stupirvi, fino all’ultima pagina.
LanguageItaliano
Release dateJun 8, 2017
ISBN9788856783681
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    La Locanda - Marco Signor

    Albatros

    Nuove Voci

    Ebook

    © 2017 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l. | Roma

    www.gruppoalbatrosilfilo.it

    ISBN 978-88-567-8368-1

    I edizione elettronica giugno 2017

    prima PARTE

    Il viandante

    Ogni ricordo è legato ad un evento

    «No, ora devo andare a casa. Ho un ospite che arriva tra poco».

    Nicola salutò i colleghi di lavoro, si chiuse la giacca pesante perché quella sera faceva molto freddo e si avviò verso l’auto che era parcheggiata nel piazzale lì vicino. Il suo passo era lento, teneva le mani in tasca quando si fermò di colpo ricordandosi che si era dimenticato una cosa importante: «La bottiglia di vino» si disse mettendosi una mano sulla fronte e aumentando il passo si affrettò a salire in macchina. Di corsa si diresse verso l’enoteca che per sua fortuna era di strada e senza esitare comprò una bottiglia dicendo che si trattava di un vino adatto per un’occasione speciale.

    Nel tragitto che lo separava da casa, aveva una corsa molto lenta, tutte le altre auto lo sorpassavano senza che lui se ne accorgesse così assorto nei suoi pensieri, tanto che sentiva solo il rumore sordo del suo motore.

    Dopo circa dieci minuti svoltò a destra, poi a sinistra e con movimento meccanico prese il telecomando e aprì il cancello, fece manovra, scese nel seminterrato, si fermò, aprì il portone e avanzò lentamente con l’auto per entrare nel garage, spense il motore e scese tenendo in mano la borsa con la bottiglia.

    Dopo aver chiuso il portone, si diresse verso le scale che portavano nel suo appartamento, ma prima di salire si voltò a guardare la sua moto che era parcheggiata lì a fianco guardandola con un malinconico sorriso pensando che in qualche maniera gli doveva la vita.

    Cominciò a salire le scale prestando attenzione a non scuotere troppo la bottiglia di vino, visto che l’aveva comprata per la sua ospite di riguardo. Entrò in casa ancora un poco pensieroso e appena accesa la luce guardò il suo mobilio strettamente essenziale.

    Finalmente le cose cominciavano a fluire con più serenità, aveva trovato un lavoro, anche se lo detestava, ma era sempre un lavoro; la banca non rompeva più le scatole per il pagamento del mutuo e si poteva permettere una bottiglia di vino non da supermercato. Dopo aver messo la bottiglia di vino in frigorifero, si voltò e guardando la televisione la lasciò invece spenta, aveva troppa voglia di silenzio.

    Dopo aver fatto la doccia, entrò nello studio e, dopo aver controllato la posta elettronica, rimase lì a fissare lo schermo del computer. Si diede uno scossone, aprì un cassetto della sua scrivania e prese una chiave, la fissò per qualche istante, poi si girò, guardò la cassaforte, infilò la chiave nella serratura e con un movimento esageratamente deciso girò la chiave che fece scattare la serratura con rumore metallico.

    Aperta la porta, prese una scatola di metallo color bronzo, un’altra chiave che stava all’interno della cassaforte, chiuse quest’ultima e si diresse verso il salotto, appoggiò la scatola sul tavolino di vimini e la fissò per almeno cinque minuti.

    «Lì dentro...» si disse, ma non aveva tempo da perdere, la sua ospite stava per arrivare, e aveva ancora dei preparativi da ultimare per essere un bravo padrone di casa. Mentre sistemava il suo salotto con distratta attenzione, ripensò a quando gli chiese se voleva ascoltare una storia e lei sorpresa per quella insolita richiesta rispose quasi d’istinto:

    «Che storia?».

    «Una storia vera ma anche impossibile».

    Lei aveva accettato l’invito pur sapendo quali voci circolavano su di lui, e lui ne era contento, perché finalmente poteva raccontare la sua storia.

    Dopo aver cenato, Nicola si mise a preparare il salotto dove si sarebbe svolto il suo racconto, predisponendo le tazze per il caffè e i bicchieri per il vino. Verso le sette e trenta suonò il campanello, lui guardò dalla finestra e dopo essersi accertato che fosse la sua ospite premette il pulsante per aprire il cancello e aspettandola sulla porta la salutò con un convenevole «Buona sera».

    Lei rispose al suo saluto ed entrò in casa.

    «Certo che stasera fa proprio freddo» disse cercando un posto dove riporre la sciarpa e la giacca pesante che nel frattempo si era tolta. Lui le prese la giacca e la ripose nell’armadio a muro e la fece accomodare su una delle due poltrone che componevano il suo semplice salotto.

    «Spero di non averti rovinato la serata con questo mio invito» gli disse porgendole una tazza di caffè.

    «Certo che no! Mi hai incuriosita con questa tua strana richiesta. Voglio dire, non sei una persona molto socievole, e se devo essere sincera, una mia amica mi ha consigliato di non venire, e anche il mio ragazzo mi aveva detto che non era molto contento, e ha anche cercato di convincermi a restare a casa, ma eccomi qui lo stesso».

    Parlava con molta semplicità, eppure Nicola sentiva una vena di ironia nel suo modo di accompagnare parole e gesti.

    «Allora, che storia impossibile mi devi raccontare?» aggiunse sistemandosi più comoda nella sua poltrona.

    E così questa improbabile coppia era seduta l’uno di fronte all’altra con entrambi una tazza di caffè in mano. Nicola la guardava esitante senza sapere da dove cominciare mentre lei continuava a sorseggiare il suo caffè.

    «A scanso di incomprensioni da parte tua, è meglio che inizi dal principio, così non rischio di perdere il filo e non narro la mia storia senza seguire una certa logica, anche se parlare di logica non è appropriato».

    Il silenzio calerà

    Ogni ricordo è legato ad un evento

    «Tu sai che ogni nostro ricordo, ogni nostra esperienza si basa su tutto quello che viviamo ogni momento. Tutto questo, anche se non ce ne accorgiamo, condiziona tutta la nostra vita in tutti i suoi istanti, belli, brutti, tristi, allegri e così via. Però, alcuni di essi, sono, come dire, più potenti di altri. Ed è proprio di uno di questi di cui ti voglio parlare: ma andiamo con ordine».

    Mentre parlava, questa sua introduzione era accompagnata da un movimento leggero delle mani.

    «Questa storia inizia con la mia decisione di andare in vacanza. Io non sono molto esigente per quel che riguarda la questione vacanze, di conseguenza non mi porto dietro tutti quei confort che per gli altri possono essere, come dire, necessari. Tutto era nella normalità, non c’era nulla che mi potesse far pensare che qualcosa sarebbe andato storto. Mi comprai anche una guida del posto dove avevo deciso di andare, sai quelle verdi per intenderci, e consultata la cartina decisi che sarei andato in un posto che confina con le Marche. Il posto dove avevo deciso di rilassarmi si chiama Bagno di Romagna e stando alla cartina non era difficile arrivarci. Mi sono preparato come di consuetudine e dopo due giorni di preparazione di buon mattino mi sono messo in viaggio per la mia meta di vacanza. Se solo avessi saputo che cosa sarebbe successo, mi sarei guardato bene dal partire... Dopo aver superato Venezia, ho preso la direzione per Chioggia e poi per Comacchio e Ravenna prendendola con molta calma. Feci una pausa a Comacchio, vicino a Porto Garibaldi per una mezz’ora e dopo mi diressi verso Ravenna con la serenità che accompagna uno che va in vacanza. Raggiunta Ravenna, mi sono fermato per un caffè, ed è proprio lì che ho avuto i primi segnali premonitori».

    «Segnali premonitori? Di cosa?».

    «Di quello che stavo per vivere in prima persona».

    Questa interruzione permise a Nicola di offrire un po’ di vino alla donna davanti a lui e dopo di versarne anche nel suo bicchiere dicendo:

    «Non ti preoccupare, arriverò al punto molto presto, ma ti prego, se hai delle domande falle alla fine».

    Ci fu un momento di silenzio, poi Nicola riprese la sua storia.

    «Dove ero rimasto... ah sì, Ravenna. Appena arrivato a Ravenna, mi sono fermato in un bar-trattoria o una cosa del genere per un caffè. Questo posto era una casa privata trasformata in locale pubblico con una bella entrata sul portico dal tetto in legno. C’erano molti tavolini sulla veranda e sulle finestre i gerani erano in piena fioritura e nell’insieme era una vista piacevole. Entrato, la donna dietro al banco, che credo fosse domenicana o di quelle zone, mi salutò con cortesia:

    Cosa desidera?.

    Un caffè lungo in tazza grande le dissi e, sedendomi su una sedia di quelle che stanno vicino al banco, mi guardavo in giro aspettando il mio caffè. Mentre ero lì, si avvicinò uno strano personaggio» così dicendo, Nicola iniziò a muovere le mani e ha parlare con voce leggermente esitante.

    «Fu lui a cominciare il discorso con una frase molto strana:

    Non ti devi preoccupare, darai solo un’occhiata e capirai quanto siamo fortunati.

    A quella strana frase, mi girai verso di lui e gli chiesi se stava parlando con me e di quale occhiata stava parlando ma quello continuò:

    Lo saprai quando sarà il momento. Tu sei destinato a garantire la continuità delle cose così come le conosciamo. Sei il primo, ci saranno altri due... ma prima che finisse la donna al banco intervenne dicendo:

    Non cominciare, e tu non dargli retta. Non so quanti anni sono che rompe le scatole con questa storia di un’altra dimensione o una cosa del genere.

    Di un’altra cosa? gli chiesi. E, se devo essere sincero, mi sono messo a ridere, ma la mia risata non era molto spontanea. Dopo aver salutato la donna al banco, guardai se dentro al bar ci fosse ancora il tipo di prima, ma era andato via e così andai via tranquillamente anch’io, ma mentre mi avvicinavo alla moto, questo tizio si avvicinò ancora dicendomi:

    Anche se quella donna ti ha detto che sono uno con le rotelle non proprio al loro posto, lascia che ti dia almeno questo».

    A queste parole Nicola prese la scatola di metallo, infilò la chiave nella sua serratura, la aprì e ne tirò fuori un foglio di carta e un medaglione a forma rotonda con quattro piccoli raggi ognuno rivolto verso l’alto a formare una minuscola parabola. Era di bronzo e misurava poco più di undici centimetri e mezzo con figure elaborate che ricordavano strane battaglie avvenute nei miti del passato. Il foglio di carta, anche se sembrava di eccellente pregio, era tutto logoro, in maniera più visibile nell’angolo sinistro in alto. Lo diede alla sua ospite con delicatezza, lei lo prese con altrettanta cura e dopo averlo guardato lesse ad alta voce:

    «Ogni ricordo è legato ad un evento».

    Lei guardò il foglio di carta con fare incerto e disse un po’ sorpresa:

    «Ma che cosa significa? – dopo aver riletto a mente quelle strane parole, gli chiese ancora – Quale ricordo, quale evento?».

    A questo punto lei stessa iniziò a credere che le voci che aveva sentito su di lui forse avevano un fondamento di verità; aveva accettato di ascoltare la sua storia, senza sapere che, forse, quello a cui mancava una rotella era proprio lui. Non considerava affatto questa possibilità da scartare, ma c’era qualcosa di strano e mai provato prima che le continuava a ripetere Ascolta il resto della storia, senza sapere il motivo di quello strano ed insolito desiderio.

    «Allora? – chiese dopo aver bevuto un piccolo sorso di vino – Vai avanti!».

    «Feci una risata di scherno e alzando lo sguardo da quel foglio di carta, indovina un po’, quell’uomo era sparito, non c’era più, scomparso completamente. Guardandomi intorno vidi solo il parcheggio semideserto, solo quattro auto erano ferme, una famiglia di tedeschi era lì fuori con i suoi bambini che giocavano vicino alla loro auto, ma di quel tipo nemmeno l’ombra, ed io rimasi lì, sentendomi un fesso che davo credito a un perfetto sconosciuto incontrato nel bel mezzo dell’Emilia. Alzando le spalle rassegnato a tenermi quella scatola, la misi nel mio zaino e ripresi il mio cammino con la ferma intenzione di non pensarci più, e così mi diressi con tranquillità verso Cesena, dimenticando quella cosa dopo appena pochi minuti. Dopo circa tre ore o poco più trovai lo svincolo per la Valle del Savio e per Bagno di Romagna arrivando alla meta poco dopo l’una del pomeriggio. Di quella giornata mi ricordo che era un caldo incredibile, per strada non c’era nessuno, non soffiava un alito di vento e con il mio abbigliamento e il calore del motore, il caldo era ancora più insopportabile. A fianco della strada scorreva il torrente che dà il nome alla valle, e le sue acque sembrava mi dicessero che potevo fare un bel tuffo se volevo. Seguendo la strada, che correva per molti tratti lungo il fianco della montagna, sono giunto finalmente nel paese dove volevo trascorrere le vacanze. Sono passato per forza nel centro della città, visto che c’era una sola strada che era quella principale, e posso dire che è un bellissimo centro medievale di notevole importanza. Come tutti i centri città aveva il suo bel traffico e ho dovuto sudare un po’ per uscire da quel dedalo di auto, pedoni, biciclette, autobus, e dopo una mezz’ora mi sono fermato in un bar, mi sono guardato intorno e quel traffico caotico continuava la sua corsa per chissà quale meta. Sono entrato nel bar e mentre bevevo la mia birra fresca, ho consultato la cartina per vedere dove si trovava il camping che avevo visto su internet prima di partire. Dopo averlo individuato, mi sono rimesso in marcia, il traffico si era calmato e così ho raggiunto la periferia senza troppa difficoltà, ma non immaginavo che la difficoltà vera dovevo ancora assaporarla. Infatti, quel camping non riuscivo proprio a trovarlo, e gira e rigira non trovavo l’indicazione che mi interessava finché in un incrocio – che era una cosa a metà tra una rotonda e un incrocio a T – ho quasi esultato vedendo finalmente il cartello che indicava Camping quattro chilometri e dando un colpo di gas ho superato l’incrocio e mi sono diretto verso l’ambita meta. Ti dico che la strada non era esattamente delle migliori, sembrava più uno sterrato che una strada asfaltata, ma mi ha portato comunque dove volevo arrivare e alle quattro del pomeriggio avevo piantato la tenda. Mi stavo preparando per fare una doccia – ne avevo bisogno – quando sentii una voce che mi diceva: Ha perso lei questo?».

    Così dicendo, Nicola alzò il medaglione che aveva in mano e lo mostrò alla donna, tenendo uno sguardo freddo, addirittura di ghiaccio, poi proseguì nel racconto.

    «No, non è mio. Sono appena arrivato e sono sicuro di non aver perso niente.

    Ma il signore che sta lì – alzando un braccio, indicò un punto verso l’uscita del camping – dice che l’ha perso lei mentre entrava dal cancello.

    Dopo i miei tentativi di convincerlo che quel coso non era mio, mi vidi costretto – non so il perché – a prenderlo. Non avevo idea di che cavolo fosse, ma quel tipo sembrava quasi contento di liberarsene, ed io feci buon viso a cattiva sorte pensando di aver già trovato un regalino da portare a casa senza avere speso un solo euro. Che fortuna eh... Verso le sette ero già al paese per cercare un posto dove mangiare qualcosa, visto che era dalle nove della mattina che non mettevo niente sotto i denti; avevo ancora quasi due ore di luce e così mi sono fermato in un chiosco vicino a un parco dove preparavano sul momento una specie di piadina ripiena. La serata era bella, anche se soffiava un vento che alla lunga cominciò a dare fastidio, era incessante, ma per il resto mi sentivo rilassato, aspettavo la mia piadina gustandomi la mia birra come se non avessi nessun problema al mondo. Guardavo in giro vedendo le persone nel parco che passeggiavano con i loro figli, i loro cani o da soli, e il sole che si stava avviando verso il tramonto dava una sensazione di tranquillo benessere.

    La cameriera mi portò la mia ordinazione e, dopo averla ringraziata, mi misi più comodo, guardai quello che avevo nel piatto e mentre stavo per dare il primo morso, non so per quale motivo, alzai lo sguardo con la netta sensazione di essere osservato. Guardai in lontananza, poi mi girai e chi ti vado a vedere? – le sue parole erano accompagnate da un gesto delle mani che voleva accentuare la sorpresa – Il tipo che avevo incontrato a Ravenna.

    Ancora lei? Non posso crederci! Cosa fa, mi sta seguendo? Guardi che con me casca male. Se cerca soldi, l’avverto che sono qui in vacanza e con mezzi molto ristretti.

    Quello mi guarda, accenna a un sorriso che dava l’impressione di essere un sorriso compiaciuto e mi dice:

    Finalmente ti ho riconosciuto e trovato. Non ti devi preoccupare, non sono qui con cattivi propositi, ma esattamente il contrario. Vedi, io ho il compito di istruirti nei limiti che mi sono stati concessi.

    Io lo guardavo un poco divertito, lo ammetto, ma senza sapere se cacciarlo o ascoltare quello che voleva dirmi. Capisci che mi trovavo in una situazione strana, se era uno malato di mente, avrei potuto passare dei guai, ma lui mi fissava compiaciuto.

    Ma cosa sta dicendo! Forse mi confonde con un’altra persona. È la prima volta che vengo qui, non posso essere la persona che cerca. Detto questo, mi fermai di colpo guardandolo fisso, e improvvisamente mi accorsi che era lui la persona che aveva detto al camping che il medaglione era mio e che l’avevo perso.

    Aspetti un momento, lei è quello del campeggio. Si può sapere perché ha detto che questo è mio? così dicendo presi dal mio zaino il medaglione e glielo mostrai.

    "Perché tu sei il Viandante, tu sei il primo di tre persone straordinarie, come lo era stato un grande uomo dimenticato prima di te. Ricorda, non separarti mai da questo medaglione, per nessun motivo, perché sarà proprio questo oggetto che ti riporterà indietro, che ti farà incontrare e riconoscere la Dama. Quest’uomo dimenticato mi ha lasciato il medaglione, la pergamena e quello che li conteneva, e prima di essere dimenticato, mi ha detto testuali parole: Cerca chi verrà dopo di noi, al Viandante consegna questo scrigno, in esso è custodito il ricordo. Fatto questo, il primo dei tuoi compiti sarà giunto al termine".

    Mentre mi stava dicendo quelle cose lo guardavo molto divertito. Un grande uomo che è stato dimenticato, non era poi così grande se è stato dimenticato, ti pare? Poi lì dentro è custodito il ricordo, era troppo anche per me che ritengo di avere una buona fantasia».

    «Aspetta un momento – lo interruppe la donna – Non ci sto capendo niente. Tu vai in vacanza, incontri per tre volte la stessa persona, ti fa un discorso che è a dir poco pazzesco su un uomo che è stato dimenticato, ti lascia strani oggetti perché a parer suo sei questo fantomatico Viandante, dice che incontrerai la Dama che non si sa chi è, e se ne va così, senza una spiegazione degna di questo nome? Se fossi stata in te, avrei chiamato un’ambulanza».

    Nicola, che aveva ascoltato i dubbi appena espressi, non poteva che essere d’accordo con lei. Non aveva tutti i torti, ma lei non conosceva ancora gli incredibili avvenimenti che si sarebbero succeduti, e altrettanto non sapeva che, in quei giorni e anche dopo, non era in suo potere opporsi e tanto meno rifiutarsi.

    «Vedi, alla fine di questo strano colloquio, io lo guardavo molto divertito, e lui capendo cosa stessi pensando si affrettò a dirmi:

    Il compito è assolto. Non porto più la pena, ora arriverà il prossimo Ambasciatore che sarà consapevole e guardando in alto alzò le braccia dicendo con voce soddisfatta: Ho portato a termine il primo dei tre compiti che mi sono stati affidati. Dopo di che se ne andò, con il suo volto rilassato, non più teso come era quando si sedette vicino a me e girandosi mi disse Addio Viandante e lo vidi scomparire tra le strette vie del paese camminando lentamente con quell’aria di ritrovata serenità. Puoi ben immaginare che cosa stessi pensando in quel momento. Avevo ancora quel medaglione in mano e girandolo e rigirandolo non capivo che significato potesse avere ma per quel tipo era di estrema importanza dicendomi che non dovevo assolutamente separarmene. Guardandolo notai subito un particolare che prima non avevo visto. Sorpreso, lo misi sopra al tavolo e vidi questo» così dicendo Nicola indicò con un dito il centro del medaglione «L’hai riconosciuto?».

    Lei si sporse un po’ dalla poltrona per avvicinarsi e guardando cosa gli stava indicando fece cenno di no con la testa, poi si appoggiò nuovamente sullo schienale della poltrona.

    «Questo è il simbolo dell’infinito».

    «L’infinito? Cioè?».

    «Come cioè? Non hai mai sentito parlare di questo argomento, delle teorie a riguardo?».

    «Se devo essere sincera, non è esattamente quello che mi interessa maggiormente».

    «Questo è l’otto rovesciato, è chiamato anche lemniscata e rappresenta l’infinito così come viene concepito, e il suo nome significa nastro. Se tu prendi un foglio di carta e con una penna disegni questo otto rovesciato potrai farlo senza staccare la penna, perché non ha un principio né una fine. Se hai sentito mai nominare i Tarocchi, questo simbolo appare anche sulle loro carte e sta a significare un qualcosa che va al di là del mondo materiale e questo è infinito e misurabile. Però questo sta anche a significare che ci sono altre dimensioni oltre a quella che si vede, e le loro energie, che sono illimitate, si intrecciano tra loro. Molte tradizioni inseriscono questo simbolo in maniera molto precisa. La Cabala, per esempio, lo colloca come la sfera Suprema, ma questo simbolo rappresenta anche... l’ignoto».

    A queste parole lui si fermò a guardarla, si portò il bicchiere di vino alla bocca come se stesse aspettando una sorta di domanda su quello che gli aveva appena detto. Passarono pochi secondi nei quali il silenzio che si era formato tra loro due sembrò irreale.

    «Perché ti sei fermato?».

    Lui si mise a ridere dicendo:

    «Niente, pensavo che mi stessi prendendo per matto. Non ti suona strana la parola ignoto?» e a questa domanda lei sorrise, forse perché non aveva mai pensato a quella parola prima di quella sera, e non sapeva se era strana oppure no.

    «Non è... strana, al contrario, la trovo... affascinante. Vai avanti».

    Nicola rimase per un momento senza parole, si sentiva sollevato, per la prima volta da quel periodo oggetto del suo racconto, parlava con una persona che lo stava a sentire senza dare giudizi affrettati.

    «Allora, perché ignoto? Per il fatto che quello che vediamo e percepiamo con i nostri cinque sensi è solo una porzione della realtà che ci circonda. Ci sono anche delle cose che non riusciamo a percepire direttamente, ma che grazie al ragionamento possiamo intuire, immaginare e teorizzare. Nonostante tutto questo, percepiamo solo una piccola parte della realtà, e su questa formuliamo equazioni, discussioni filosofiche, teologiche e nella maggior parte dei casi discussioni inutili».

    Prese la bottiglia di vino, si riempì nuovamente il suo bicchiere, porse a lei la bottiglia, si appoggiò allo schienale della sua poltrona tenendo il bicchiere in mano e guardandola disse con voce quasi distante:

    «L’Esistenza è infinita, illimitata, e non si può racchiudere in nessuna filosofia o teoria scientifica. Il simbolo dell’infinito ci pone di fronte al mistero che ci circonda, e allo stesso tempo ci ricorda che esistono infinite possibilità – e cambiando tono di voce che divenne più deciso terminò – e una di queste infinite possibilità si chiama... paradosso».

    Lei cominciò a guardarlo veramente di traverso, sentendo quelle parole che nessuno usava, se non nell’ambito puramente scientifico, per quello che ne sapeva, oppure solo sul piano speculativo.

    «Aspetta un momento, ma di che cavolo stai parlando?».

    Non rispose subito, lui stesso dubitava delle sue stesse parole ma non aveva altro mezzo e restando il più naturale possibile aggiunse:

    «Del paradosso, inteso come una realtà assurda che deriva da premesse concrete. Si tende sempre a legare il paradosso al tempo come unità di misura o l’ipotetica possibilità del principio di casualità».

    «Intendi dire che le cose succedono per caso?».

    «No. Niente succede per caso, visto che il caso non è altro che la causa ignota di un effetto noto. Diversi paradossi sono stati ipotizzati, anche Einstein ne ha ipotizzato uno. Lui ha detto che se tu potessi scattare da ferma alla velocità luce in un tempo indefinito, potresti vedere te stessa mentre sei ancora ferma alla partenza. La scienza considera possibili questi ipotetici effetti sulla realtà che conosciamo, effetti generati da grandi sconvolgimenti spazio-temporali, il tempo schiacciato se entri in un buco nero, l’orizzonte degli eventi» e a quelle ultime tre parole esitò un momento. Poi con voce incerta aggiunse: «Ma io stasera ti voglio parlare sì del paradosso, ma non spazio-temporale, bensì il paradosso che riguarda quella che viene chiamata realtà parallela».

    «Tipo viaggi in altri mondi? Non è che guardi troppi film di fantascienza?».

    Nicola si mise a ridere dicendo a se stesso che a lui quei film erano sempre piaciuti, fino a quel suo viaggio che determinò il corso dei suoi eventi.

    «Non essere così ironica. I film di fantascienza sono tali ma partono dalla scienza, dopo il cinema ci mette il suo, ma la base è scientifica. Vedi per esempio Star Trek, la velocità a curvatura e come punto di partenza la teoria del ponte Einstein-Rosen».

    «Certo che parli veramente strano».

    «Non è poi così strano il mio linguaggio. È solo fisica quantistica». Queste ultime parole avevano un tono di ironico divertimento con forse velata sufficienza che lei non gradì molto, sentendosi lievemente offesa.

    «Anche se non mi interesso di queste cose, questo non significa che non le conosca. Anch’io conosco la famosa formula E=mc². Quindi, non usare un tono di sufficienza, è offensivo».

    Per scusarsi Nicola si alzò in piedi e, dopo aver fatto un leggero inchino, le versò ancora un po’ di vino e dopo aver ripreso posto disse in tono di scusa con il massimo dell’umiltà di cui era capace:

    «Non volevo mancarti di rispetto, ma devi ammettere che questo non è esattamente argomento di cui si parla ad un appuntamento, se mi passi il termine».

    Era passata circa un’ora da quando si erano seduti e lui aveva cominciato la sua storia sapendo che si sarebbe molto interessata alla cosa, non certo perché era un abile oratore, ma perché sapeva...

    «Ora, quello conosciuto come il ponte di Einstein-Rosen o cunicolo spazio-temporale è una ipotetica caratteristica topologica dello spazio-tempo che, in parole povere, è una scorciatoia, sia da un punto all’altro dell’universo che da una dimensione all’altra, e sempre secondo questa teoria, questo cunicolo permetterebbe di viaggiare tra di essi più velocemente di quanto impiegherebbe la luce a percorrere la stessa distanza nel cosiddetto, spazio normale. È chiamato anche galleria gravitazionale, e mette in rilievo la dimensione della gravità collegandola alle altre due dimensioni, spazio e tempo. Tutto questo è collegato da un cunicolo o galleria dimensionale che può sfortunatamente portare in una dimensione parallela».

    «Mi sta venendo mal di testa».

    «Aspetta, ora mi spiego... una dimensione parallela, o universo parallelo, è un ipotetico universo separato e distinto dal nostro ma che coesiste con esso. In tutti i casi, sono immaginati e identificati con un altro continuum temporale, ossia un mondo solo – non come avevi detto tu, altri mondi – ma altre dimensioni» e mentre pronunciava queste ultime parole, Nicola disegnava nell’aria un cerchio invisibile con la mani come volesse dare forza alla sua spiegazione.

    Lei lo guardava in silenzio, con occhi che tradivano la sua smisurata perplessità unita allo sbigottimento di quella conversazione, domandandosi di che cosa stesse parlando e dicendo con voce decisa: «Ma che cavolo stai dicendo?». Dopo si alzò di scatto, si diresse verso l’armadio a muro e prendendo la sua giacca con movimenti rapidi e bruschi, iniziò a parlare trattenendo a stento la sua collera che saliva sempre di più.

    «Mi hai chiamata per un simposio alla Star Trek? Non capisco perché io ti abbia detto di sì. Hanno ragione a dire che sei matto da legare. Dimensioni cosa! Ma va a quel paese! Ora capisco perché sei sempre da solo, chi vuoi che stia con uno come te che parla di cose che non stanno in cielo, figurati in terra».

    Parlava più con se stessa che con lui, mentre Nicola rimase in silenzio ad ascoltare lei che sfogava la sua collera usando dei termini non volgari ma che comunque avevano un tono di offesa. Lui restava immobile, in silenzio, tenendo il bicchiere di vino in mano e guardando il muro bianco che aveva di fronte.

    Sentiva la sua voce che continuava a imprecare contro di lui e la sua stupida storia, sentiva che si metteva la giacca, e senza voltarsi e senza muovere un solo muscolo le disse:

    «Non è una puntata di fantascienza oppure ai confini della realtà. Quello che ti sto raccontando è successo veramente, e sto cercando di raccontarlo appoggiandomi a un minimo di logica, altrimenti non saprei come fare. Storia strampalata? Non è vero, ti posso assicurare che è la pura verità su un fatto realmente accaduto».

    Lei si fermò di colpo, rimase ferma per qualche secondo e girandosi si portò davanti a lui, lo guardò fisso negli occhi e con tono deciso disse:

    «Hai già detto che è una storia vera, che è successa a qualcuno, ma non mi hai ancora detto chi è questo qualcuno! E non mi hai ancora detto che cosa gli è successo».

    Lui, dopo aver bevuto in un sol colpo il vino che aveva nel bicchiere, si alzò dalla poltrona, appoggiò una mano sulla spalliera e disse in tono risoluto:

    «Ma non l’hai ancora capito? Tutto quello che ti sto raccontando è successo a me!!».

    A questa dichiarazione, la donna, dopo aver fatto un lungo respiro, si sedette tenendosi la giacca addosso, calmò il suo sguardo, incrociò le braccia e disse con voce asciutta:

    «Va avanti».

    Rimasero in silenzio tutti e due, nessuno spostava lo sguardo dall’altro. Quello di lui era stanco, lontano, assente, mentre quello di lei, al contrario, era penetrante, infuocato, ma allo stesso tempo stranamente... curioso.

    Erano passate nemmeno due ore da quando avevano iniziato e l’atmosfera che si era creata da rilassata e amichevole era diventata tesa. Senza distogliere lo sguardo disse:

    «Prima che tu vada avanti con la tua assurda discussione pseudo-scientifica, ti prego, falla finita. Dimmi semplicemente cosa ti è successo dopo che hai incontrato per l’ultima volta quel tipo che ti ha dato questi strani oggetti, che significato hanno e che cosa c’entrano in tutto questo».

    Senza dire una parola, Nicola la guardò, poi fece un triste sorriso, prese la bottiglia di vino, versò l’ultimo goccio che vi conteneva, appoggiò la bottiglia sul tavolo e con due occhi che sembravano distanti cercò le parole giuste per riprendere la sua storia. Non era certo molto facile per lui andare avanti con un filo logico perché, come aveva detto prima, l’unico modo per farlo era quello più possibile vicino alla realtà, così come comunemente viene intesa e interpretata.

    «Non ti arrabbiare, ma non conosco altro modo per...» si fermò, avendo visto che l’attenzione della donna si era spostata sulla scatola di metallo chiusa che stava vicino alla bottiglia.

    «Ti eri mai accorto che la tua scatola ha un buco vicino la serratura? È strano, è piccolo ma sembra un cerchio perfetto. Cos’è?».

    Lui si spostò in avanti per vedere meglio e appena vide di cosa si trattava, non lo curò della più piccola attenzione ma si limitò a dire:

    «Ah... quello! Non è niente di particolare. Quando mi è stata data quella scatola, il buco c’era già e se non ricordo male quel buco è un foro di proiettile che è stato fatto intorno al 1894».

    La noncuranza con cui disse quelle parole lasciò senza fiato la donna che gli stava di fronte e che lo guardava con occhi sbarrati.

    «Riprenditi, cerca di respirare, non sono preparato per il primo soccorso».

    «Ma che cosa ti è successo? 1894? Perché questa data mi suona famigliare?». Mentre parlava, si sentiva sprofondare sempre di più nella poltrona. Guardava Nicola perplessa, la tranquillità con cui giustificò il foro la lasciò senza parole, come se per lui fosse una cosa più che naturale. Si tolse la giacca e bevendo un sorso di vino disse:

    «Vai avanti».

    «Anche se non sono in grado di spiegare il motivo preciso, quel foro è l’inizio di tutto, ma bada, è solo il principio, non la fine. È un po’ complicato ma si tratta di una... porta».

    «Una porta?».

    «Te l’ho detto, non sono in grado di spiegarlo, è una di quelle cose che uno sa, ma senza essere in grado di farlo capire agli altri. Ma ti assicuro che c’entra, non il buco che hai appena visto, ma l’anno».

    Parlava con voce monotona quando cercava di spiegare la presenza di un foro di proiettile in un oggetto che gli apparteneva. Non si poteva descrivere la situazione che si era generata tra quei due, ma di una cosa si poteva essere certi: si ritrovarono in un comune e tacito accordo. C’era un legame invisibile che li univa, e mentre Nicola sapeva una parte della verità, lei non riusciva a capire il motivo che la teneva in quell’appartamento, non capiva che cosa ci fosse di così magnetico che quasi la costringeva a rimanere seduta in quella poltrona di vimini, nonostante avesse cercato di andarsene. Non sapeva spiegarsi perché dentro di lei doveva sentire il resto della storia, che avrebbe avuto un ruolo importante in tutta quella situazione. Non sapeva quale potesse essere, ma lo sentiva in quel momento.

    Lui si alzò per rinvigorire il fuoco, mentre lei lo guardava in silenzio, chiedendosi che cosa gli fosse successo di così assurdo per parlare di quelle cose proprio a lei.

    «Vuoi ancora qualcosa da bere?» le chiese prima risedersi.

    «No, voglio che tu vada avanti, ma cerca di essere semplice. Non voglio andare a casa con il mal di testa».

    Nicola la guardò divertito, si mise a ridere e, andando a sedersi sulla sua poltrona, pensò che non aveva mai considerato la scienza come un potenziale mal di testa.

    «E così sia» si schiarì la voce, fece per bere un altro sorso di vino ma si accorse di averlo finito, appoggiò il bicchiere vuoto sul tavolo e cominciò: «Ora, come ricordi, dopo aver avuto quello strano ed ennesimo incontro con quel tipo che consideravo sempre di più fuori di testa, sono ritornato al campeggio, mi sono messo comodo, mi sono rilassato stanco delle fatiche della giornata e nemmeno un’ora era passata che mi ero già addormentato dentro la mia tenda. Il mattino dopo ero in piena forma, con molta energia a mia disposizione. Dopo essermi preparato, ho consultato la guida per iniziare la mia visita e decisi di cominciare proprio da Bagno di Romagna, che stando alla guida aveva molto da offrire ad un visitatore. Questo bellissimo paese, un borgo medievale pieno di stradine, vie di acciottolato e immerso negli Appennini emiliani, è un posto tranquillo, un tipico borgo con un’antichissima tradizione e storia che risale ai tempi dei romani, e se ti interessa ci sono anche le terme, molto apprezzate anche dai dignitari romani. Il centro storico è un vero e proprio museo a cielo aperto con monumenti, chiese, piazze e piccoli angoli antichi. Appena fuori dalla città, puoi godere di un panorama che cambia ogni volta che giri lo sguardo. Lì respiri proprio quell’aria di serenità che solo l’Italia ti può offrire. E così passai la mattina e la prima parte del pomeriggio a godermi quel posto che mi ripetevo aver scelto bene e verso le tre del pomeriggio ero seduto in quel chiosco dove avevo mangiato qualcosa le sera prima, ti ricordi? Mentre mi rilassavo e godevo di una leggera brezza che scendeva dalla montagna davanti a me, girando lo sguardo verso sinistra vidi una cosa che mi lasciò letteralmente a bocca aperta e senza fiato. Proprio lì, fissata con dei bulloni, che credo fossero di piombo, c’era una targa di non so quale materiale che diceva queste testuali parole: Il silenzio calerà».

    A queste parole la donna si mosse con un po’ di nervosismo sulla sua poltrona, spalancò gli occhi e fissandolo incredula disse:

    «Ma non è la stessa cosa che era scritta su quella specie di pergamena che ti aveva dato quel tipo a... Ravenna?».

    Nicola fece cenno di sì con la testa e prendendo in mano con delicatezza, forse esagerata, la pergamena, lesse per intero:

    «Il silenzio calerà, ogni ricordo è legato ad un evento».

    Tenendola in mano dopo aver finito di leggere, guardò la donna, appoggiò il foglio sul tavolino senza dire una parola, lei lo guardava con occhi scettici.

    Nicola, appoggiando le braccia sui braccioli, riprese:

    «Puoi immaginare il mio stupore, la sensazione che provai vedendo quello che c’era scritto; non capivo che cosa ci facesse una scritta del genere in un posto così, tra l’altro all’entrata di un parco con persone che andavano e venivano a tutte le ore, vicino all’imbocco di un sentiero pensato per bambini. Non era certo una frase adeguata per una famiglia o una scolaresca. Non sei d’accordo con me? Mentre guardavo quella targa con un po’ di sdegno, che credo fosse giustificato, vidi che si stavano avvicinando due carabinieri a piedi, e deciso ad avere una spiegazione li fermai.

    Scusate, sapete dirmi che cosa ci sta a fare una frase del genere? e, mentre parlavo, indicavo la targa incriminata. Quando i due agenti guardarono quello che gli stavo indicando, vidi subito il loro sguardo incredulo.

    Non ne abbiamo idea, signore. Questa mattina, mentre stavamo facendo il nostro primo giro, non c’era. Tu non ne sai niente? chiese al suo collega. Ricevette una risposta negativa, e non sapeva chi poteva avercela messa e perché. Dissero che probabilmente era uno scherzo – di pessimo gusto, aggiunsi io – e chiesero a me se sapessi qualcosa in proposito.

    Ma certo che no! Come posso saperlo, sono io che lo chiedo a voi ma non seppero dirmi niente.

    Dopo qualche minuto passato a ispezionare la targa, uno dei due uscì con una cosa che ha dell’incredibile:

    Visto che non è di nessuno, e che a quanto pare risulta essere uno scherzo, se vuole la può tenere lei e si guardarono quasi soddisfatti per quella possibile soluzione.

    Ma figuriamoci, cosa vuole che me ne faccia. Ma scusate, non è di proprietà del comune e del gestore del parco?».

    «Ma ti hanno veramente detto che se volevi potevi tenerla?» fu la domanda stupita che la donna fece.

    «Ti avevo detto dei segnali premonitori, no? Beh, questo era uno di quelli. Quando cercai di far... ragionare quei due simpatici agenti preposti all’ordine pubblico, mi guardarono, e uno di loro disse:

    Senta, non andiamo avanti con questa cosa. Abbiamo problemi molto più gravi di cui occuparci che di una stupida targa insignificante messa lì da dei ragazzini, faccia come crede e dimentichiamo. Buona giornata.

    Dopo che mi dissero questo, rimasi a guardarli mentre si allontanavano, e volgendo il mio sguardo su quella dannata targa cominciai a chiedermi se non fossi vittima di un elaborato scherzo. Comunque, non mi sono preso la targa, anche perché non ne avevo bisogno, come hai giustamente notato tu prima. Mi sono messo a camminare lentamente sul viale alberato che costeggiava la strada sorridendo e pensando a quella piccola discussione di pochi minuti prima, e seguendo il viale mi sono ritrovato a camminare lungo il torrente che scorreva a poche decine di metri verso l’imbocco di quel sentiero che ti avevo accennato, e seguendo i cartelli che lo indicavano, mi sono trovato davanti a una chiusa, una di quelle che si usano per incanalare l’acqua per generare la corrente elettrica. Come edificio non era male, sembrava una villa di fine Ottocento, e non era inserita nell’itinerario turistico per ovvie ragioni, ma dal di fuori era bella da vedersi. Ho continuato a seguire il cammino lungo il viale, e ho notato che in quel momento ero il solo a dirigermi verso quel sentiero. Dopo aver superato la chiusa sempre dritto davanti a me, c’era un ponte, con il corrimano in legno molto spesso e lavorato in maniera grezza. Questo ponte passava sopra al torrente che scorreva a una profondità di circa dodici-quindici metri, in maniera non molto fragorosa, infatti c’era pochissima acqua, ma mi fermai al centro del ponte per guardare la piccola vallata dove scorreva il fiume quando in modo del tutto improvviso si alzò un vento di una intensità tale da farmi fare un passo indietro e alzare un braccio per proteggermi il volto. Niente di strano – tu dirai – fatta eccezione dell’intensità che aveva, ma era un

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