Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

Vite accidentali
Vite accidentali
Vite accidentali
Ebook503 pages7 hours

Vite accidentali

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

Una raccolta di racconti, esistenze colpite dalla disgrazia o da un frammento di apparente felicità. Moto GP, Annichilina e Olghina, Cecilia… questi alcuni dei nomi che riempiono le pagine e che si velano e svelano, lasciando al lettore lo spazio dell’immaginazione, del pensiero. Dai racconti emergono Personaggi con la P maiuscola, pronti a guidare il lettore in una Sardegna che è radici e famiglia, sangue e polvere. Filo conduttore è un’autocoscienza necessaria, critica costante sulla e della realtà, che tenda la mano ai movimenti sociali in opposizione alla guerra, all’ingiustizia, alla disuguaglianza sociale. Vite accidentali è, come le opere precedenti della Mulas, un inno alla resistenza per la cultura della vita, l’augurio di riuscire a sottrarsi, con conoscenza illuminata da un istinto primordiale, agli abusi della ragione.
LanguageItaliano
Release dateMay 28, 2017
ISBN9788826443393
Vite accidentali

Read more from Giovanna Mulas

Related to Vite accidentali

Related ebooks

General Fiction For You

View More

Related articles

Reviews for Vite accidentali

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    Vite accidentali - Giovanna Mulas

    Sommario

    PARTE PRIMA

    CAPITOLO 1 - Caterina

    CAPITOLO 2 - Caterina • Due anni prima

    CAPITOLO 3 - Benjamin • Due anni prima

    CAPITOLO 4 - Caterina

    CAPITOLO 5 - Benjamin • Due anni prima

    CAPITOLO 6 - Caterina

    PARTE SECONDA

    CAPITOLO 7

    CAPITOLO 8

    CAPITOLO 9

    CAPITOLO 10

    CAPITOLO 11

    CAPITOLO 12

    CAPITOLO 13

    CAPITOLO 14

    CAPITOLO 15

    CAPITOLO 16

    CAPITOLO 17

    CAPITOLO 18

    CAPITOLO 19

    CAPITOLO 20

    CAPITOLO 21

    CAPITOLO 22

    CAPITOLO 23

    CAPITOLO 24

    CAPITOLO 25

    CAPITOLO 26

    CAPITOLO 27

    CAPITOLO 28

    CAPITOLO 29

    CAPITOLO 30

    PARTE TERZA

    CAPITOLO 31 - Benjamin

    CAPITOLO 32 - Benjamin

    CAPITOLO 33 - Caterina

    CAPITOLO 34 - Benjamin

    CAPITOLO 35 - Caterina

    CAPITOLO 36 - Benjamin

    CAPITOLO 37 - Caterina

    CAPITOLO 38 - Benjamin

    CAPITOLO 39 - Caterina

    CAPITOLO 40 - Benjamin

    CAPITOLO 41 - Caterina

    CAPITOLO 42 - Benjamin

    CAPITOLO 43 - Caterina

    CAPITOLO 44 - Benjamin

    CAPITOLO 45 - Benjamin

    CAPITOLO 46 - Caterina

    CAPITOLO 47 - Benjamin

    CAPITOLO 48 - Caterina

    CAPITOLO 49 - Benjamin

    CAPITOLO 50 - Caterina

    CAPITOLO 51 - Caterina

    I WAS FIRE. SHE WAS MY HURRICANE.

    AI LETTORI

    MATCHING SCARS SERIES #3 - Benjamin

    SOUNDTRACK

    RINGRAZIAMENTI

    Valentina Ferraro

    © 2016 Les Flâneurs Edizioni di Alessio Rega

    www.lesflaneursedizioni.it

    info@lesflaneursedizioni.it

    Copertina di Alessandro Bombieri

    Valentina Ferraro

    Quanto dura per sempre?

    Matching Scars Series #2

    Les Flâneurs Edizioni

    «Sa qual è il bello dei cuori infranti?» domandò la bibliotecaria. Scossi la testa.

    «Che possono rompersi davvero solo una volta. Il resto sono graffi».

    Il gioco dell’angelo, Carlos Ruiz Zafón

    A Irene,

    seduta sulla riva del fiume

    con il tuo bel vestito a fiori

    una sciarpa di seta intorno al collo

    un libro di poesie in mano

    l’aria serena di chi ha trovato pace.

    E quando un giorno ci rincontreremo,

    su quella stessa riva,

    ce le racconteremo tutte.

    PARTE PRIMA

    CAPITOLO 1 - Caterina

    Con mani tremanti faccio scorrere il cursore del mouse sulla mail appena arrivata dall’ufficio immigrazione canadese ma non riesco proprio a trovare il coraggio per aprirla. Non ce la farei ad affrontare l’ennesima delusione. Sono mesi che raccolgo ogni tipo di informazione possibile e immaginabile su Toronto, che mando curriculum a tutte le aziende in città sperando che almeno una persona mi risponda. Mi basterebbe anche un lavoro come guardiano di un magazzino notturno a questo punto, qualsiasi cosa sarebbe meglio che rimanere un minuto in più in questa città che non sento più mia da troppo tempo.

    «Cate, mi porteresti il fascicolo Angiolini per favore?» mi domanda Alessandro, il mio capo, facendo dissolvere i miei sogni a occhi aperti.

    «Te lo porto subito». Sposto rumorosamente la sedia e chiudo la pagina del mio account di posta elettronica. Fissavo il messaggio da venti minuti abbondanti senza riuscire a convincermi a leggerlo, altri dieci non faranno alcuna differenza.

    E se non fossi riuscita a entrare nel programma della Green Card nemmeno quest’anno? E se fossi costretta a rimanere bloccata in questa città per sempre? E se la smettessi di portarmi sfortuna e iniziassi a pensare positivo? Ecco quello sarebbe già un buon inizio.

    Non so come, ma prima o poi me ne andrò di qua. Papà sta bene, meglio insomma. Una volta scongiurato il Parkinson e aver preso coscienza della sua nuova condizione fisica, le cose sono lentamente tornate alla normalità. Certo se vendere la casa al mare, la casa in montagna, perdere il lavoro e vederlo affrontare una crisi depressiva dopo l’altra si può definire normalità allora sì, siamo messi proprio bene!

    Ritorno alla scrivania e cerco di concentrarmi sul programma nuovo che hanno installato per gestire la contabilità del Circolo del Golf.

    «Caterina», la vocina imbarazzata di Leonardo mi fa contorcere lo stomaco e non riesco nemmeno ad alzare lo sguardo verso di lui. Due anni a maltrattarmi, facendo di tutto per mettermi ogni singolo amico in comune contro, umiliandomi a ogni occasione, raccontando storie non vere su di me, facendomi dare della puttana da tutti alle mie spalle per poi tornare, un mese fa, strisciando con la coda fra le gambe, un milione di scuse e la promessa di rendermi felice.

    Ogni volta che lo vedo ho voglia di infilarmi due dita in gola, questo è l’effetto che mi fa, non ho più nemmeno un briciolo di affetto per lui.

    «Ciao, sono venuto a ritirare la ricevuta di pagamento del terzo bimestre».

    Patetico. Di tutte le scuse possibili al mondo ha scelto la più banale. «Le ricevute le spediamo per posta, da sempre. Cos’è, stai cercando di far risparmiare al Circolo il costo di un francobollo?», a malapena alzo lo sguardo. Verme schifoso.

    «Serve a mio padre» farfuglia lui. Figuriamoci.

    «Domani mattina gliela faccio trovare alla reception, sono piuttosto incasinata in questo momento» taglio corto.

    «Okay, grazie allora» dice lui, rimanendo però fermo immobile davanti a me.

    «Posso aiutarti con qualcos’altro?», la iena che ormai si è impossessata della mia anima e del mio corpo non ce la fa proprio a essere diplomatica con lui.

    Ho passato quattro anni bellissimi con questo ragazzo prima di partire per il mio anno di studi in Florida. Certo, non si può dire che mi sia comportata molto bene in sua assenza… okay, mi sono comportata decisamente male: ho perso la testa per il mio vicino di casa praticamente due giorni dopo essere atterrata nel nuovo continente – facciamo due ore – l’ho tradito e l’ho lasciato in modo piuttosto brutale. Ma me l’ha fatta pagare, con interessi da strozzino!

    «Sei diventata così fredda, è come se avessi davanti un’altra persona, non so più cosa pensare».

    Mi viene quasi da ridere. Ormai sono una persona diversa. Grazie a Leo, all’inferno che mi ha fatto passare negli ultimi due anni con il suo atteggiamento da bullo, grazie alla malattia di mio padre che ci ha fatto andare quasi a fondo e grazie a quel ragazzo, il cui nome non riesco ancora nemmeno a pronunciare ad alta voce, quello per cui avevo perso la testa, che amavo con tutta me stessa e che ha distrutto tutti i miei sogni nel giro di ventiquattr’ore, ecco, grazie a loro sono cambiata, e non in meglio.

    Ma non ci posso pensare, il ricordo fa ancora troppo male. È tutto nel passato: aprirò quella dannata mail che mi confermerà che ho ottenuto la Green Card e mi lascerò tutto alle spalle entro la fine dell’estate.

    «Sì, bravo, peccato che non freghi un cazzo a nessuno di quello che pensi tu. Non sono affari tuoi se sono fredda, diversa, cambiata o se ce l’ho col mondo intero»; lo inchiodo con lo sguardo e lo fulmino con tutto l’odio del mondo. «Se ora potessi levarti dalle palle avrei da lavorare».

    «Prima o poi mi perdonerai Cate, per tutto quello che ti ho fatto, io e te siamo destinati a stare insieme!».

    Gli sorrido e sbatto gli occhi in modo sensuale, «Quel giorno spero di morire in preda a una crisi di prurito vaginale».

    Fa sul serio? Forse si è dimenticato cosa mi ha detto la prima volta che ci siamo rincontrati al Circolo del Golf, dove sono socia e dove lavoro da quando sono tornata dalla Florida due anni fa, finito il mio anno di studi: «Ma guarda un po’, chi non muore si rivede. Hai avuto una bella accoglienza quando sei arrivata? Ah già, non hai più amici, sei sola come un cane e puoi star certa che mi impegnerò affinché la situazione non cambi».

    E la seconda volta: «Ne valeva la pena distruggere tutto tra noi solo per farti quel morto di fame con un cesso di macchina come se fossi una puttanella?». Mi aveva afferrato per un braccio e spinta contro il muro, «Sei squallida».

    Potrei andare avanti.

    Finalmente, a un certo punto, le voci su di me si erano placate, i suoi amici non mi infastidivano più e le mie ex amiche, Monica e Giulia, erano tornate quasi piangendo e con mille scuse false e di circostanza. Si erano beccate abbastanza vaffanculo da parte mia da bastare una vita intera.

    Quindi sì, si era decisamente vendicato, e su una cosa ha ragione: sono sola come un cane. Ma non è stata tutta colpa di Leonardo, sono la prima responsabile della mia solitudine e infelicità.

    Leo scuote la testa esasperato e sta per dirmi qualcosa ma Alessandro esce dalla sua stanza e mi raggiunge alla scrivania.

    «Dottor Ranieri, possiamo aiutarla?» domanda in tono cordiale, celando una punta di sarcasmo. Sono abbastanza sicura che lo sopporti anche meno di me.

    «Sono a posto così, grazie. Caterina, ti chiamo dopo», si infila in cellulare in tasca e se ne va.

    Aspetto che sia fuori dalla portata delle mie orecchie e inizio a prendere a piccoli pugni la scrivania in mogano scuro. «Lo odio!» sentenzio infine.

    «È un idiota, non dargli importanza», Alessandro mi dà una pacca affettuosa sulla spalla e mi sorride. Se non ci fosse stato lui in questi due anni non so come avrei fatto. È stato molto più di un semplice collega, è stato un amico sincero, l’unico, a dire il vero. Solo lui sa esattamente cosa ho passato, e non perché gliene abbia parlato a cuore aperto, ma perché è quel tipo di persona alla quale basta guardarti dieci secondi negli occhi per capire come stai, cosa stai provando, e trova sempre le parole giuste per aiutarti a reagire.

    «Per la cronaca, mi sono laureata anch’io il mese scorso insieme a Leo, perché a lui viene concesso il titolo di dottore e io non vengo mai nemmeno chiamata con il mio nome per intero?»: è la prima stupidaggine che mi viene in mente per cambiare discorso.

    «Perché tu sei la mia dipendente e posso denigrarti quanto voglio e tu, dottoressa-che-ha-preso-la-laurea-solo-un-mese-fa, non ti puoi ribellare». Alzo gli occhi al cielo e lui mi arruffa i capelli sulla testa. «Mi piacciono i capelli così corti, ti danno un’aria ribelle. Sei pronta per un cambiamento?».

    «Cioè?» domando sulla difensiva. Tiene sotto controllo le mie mail e la cronologia dei siti internet che visito (durante le ore di lavoro)?

    «Sai come si dice, quando una donna cambia taglio di capelli in modo così drastico è perché c’è una rivoluzione in atto», mi scruta con attenzione mettendomi in soggezione.

    «Vedremo» replico rimanendo sul vago e concentrandomi di nuovo sul mio lavoro.

    CAPITOLO 2 - Caterina • Due anni prima

    Finisco di liberare l’armadio e piego le ultime magliette per poi adagiarle con cura nella valigia. La mia stanza è ormai spoglia di tutti i miei effetti personali e gli scatoloni, ben sigillati e meticolosamente etichettati, sono sparsi per la stanza. La mia ex stanza…

    Mi siedo sul letto e cerco di mandare giù il groppo in gola che non mi fa respirare. Il piano è semplice: tornare in Italia, informare mio padre che ho intenzione di continuare l’università in Florida, aspettare Benjamin, che mi raggiungerà dopo solo tre settimane a Roma, tornare a Orlando con il mio meraviglioso ragazzo, riprendere possesso della mia camera, cercarmi un lavoro e vivere per sempre felice e contenta.

    Non fa una piega!

    Chiudo gli occhi e butto fuori l’aria dai polmoni con calma, cercando di restituire un battito normale al cuore. Perché non dovrebbe funzionare?

    Insomma, sono un sacco di soldi ma sono sicura che papà mi verrà incontro. Lui vuole che io sia felice, su questo non ci piove. E c’è solo una cosa che mi renderebbe felice: prolungare il mio sogno americano. Fisso lo scotch marrone su una delle scatole e mi perdo fra le note di Breath dei Rhodes.

    «Cosa devo fare con te?», la voce di Ben mi fa sussultare. Alzo lo sguardo e me lo ritrovo immobile contro lo stipite della porta, braccia conserte all’altezza del petto e un sorriso impertinente sul viso, a osservarmi. Da quanto tempo è lì?

    «In che senso?» domando cercando di controllare il tono roco della voce.

    Si stacca dolcemente dall’uscio, chiude la porta e mi viene incontro. Il mio meraviglioso ragazzo si inginocchia davanti a me e mi prende le mani fra le sue, se le porta alle labbra e mi bacia dolcemente le nocche.

    «Hai di nuovo quell’espressione preoccupata. Andrà tutto bene, questo non è un addio». Continua a sorridermi e mi mordicchia dolcemente l’indice. Solleva lo sguardo su di me e alza leggermente le sopracciglia.

    La fa troppo semplice lui, come sempre. Nella sua meravigliosa testolina non ci sono ostacoli di nessun tipo. Perché dovrebbero essercene? Siamo innamorati, giovani, felici. Mio padre capirà e non farà storie. Come no…

    Fisso distratta le scatole imballate che abbiamo deciso di non spedire per ora. Sarebbe stupido farle arrivare fino a Roma per poi doverle rispedire in Florida dopo poco.

    «Non è una partenza definitiva la tua, solo un viaggio di due mesi nella tua città natale. Il tuo posto è qui, con me…». Così almeno continua a ripetermi e io faccio di tutto per crederci.

    «Vorrei che domani mattina partissi con me…» mi esce con un filo di voce. So che non può partire, ha ancora tre concerti da fare in Florida e non sarebbe giusto mollare i Matching Scars solo perché la sua infantile e immatura ragazza non riesce a sopportare l’idea di stargli lontana per tre settimane.

    Ventidue giorni per l’esattezza… un’eternità, insomma!

    «Vorrei poterlo fare Blondie, ma ti prometto che finito l’ultimo concerto correrò in aeroporto e volerò da te!», si alza da terra e si siede accanto a me. Mi passa un braccio intorno alle spalle e mi trascina giù sul materasso. Il suo corpo caldo, le sue mani fredde, il suo odore divino mi riempiono il cuore e l’anima.

    Sono stati i dieci mesi più belli della mia vita, questi passati in Florida, non posso credere di essere così fortunata e ancora meno che siano già trascorsi e sia arrivato il momento di tornare in Italia. Gli accarezzo una guancia con un dito tremante: questo meraviglioso ragazzo è tutto mio e mi ama tanto quanto io amo lui.

    «Stanno iniziando ad arrivare i nostri amici, hai bisogno di una mano qua?» mi domanda intanto che mi fa scivolare un dito sulla guancia, per poi sfiorarmi il mento e scendere sul collo.

    «Ho finito, devo solo cambiarmi» rispondo chiudendo gli occhi. Non importa se stiamo insieme praticamente ogni istante della giornata da sei mesi, se non perdiamo occasione per saltarci addosso, se in questo momento sono la tristezza in persona: lui mi sfiora e io mi sciolgo dimenticandomi del mondo.

    «Mmmhhh…» replica lui e con un gesto repentino si stende sopra di me. Fa finta di guardare l’ora su un orologio da polso immaginario che in realtà non indossa, «E allora abbiamo ancora dieci minuti, e sai quante cose potrei farti in dieci minuti? Permettermi di darti una mano a spogliarti…».

    Ridacchio intanto che mi sfila via la T-shirt con un gesto fluido e inizia a sbaciucchiarmi sul collo facendomi drizzare i peli sulle braccia. Mi sazierò mai di lui? No, non credo.

    «Ben…», la mi voce è poco più di un sussurro.

    «Mark non si arrabbierà se arriveremo con un paio di minuti di ritardo» mi rassicura lui slacciandomi il reggiseno e armeggiando con la zip dei suoi shorts.

    «Volevo solo chiederti di chiudere la porta a chiave» replico io mentre lo aiuto a liberarsi dei pantaloncini e dei boxer. Al diavolo Mark e il suo barbecue, non chiedo altro che passare le ultime ore che mi rimangono in Florida sotto le coperte con il mio attraente ragazzo.

    Il mio ragazzo! Mi fa ancora strano pensare che alla fine dei conti ce l’abbiamo fatta. Mi perdo per una manciata di secondi a ricordare i mesi di incomprensioni fra di noi, quando io volevo lui, lui voleva me, ma continuavamo a sbagliare tempi e modi. Quanto stupido tempo perso.

    Ben sussurra qualcosa che non sento fra i miei capelli, e le sue mani sono ovunque sulla mia pelle rovente.

    Giugno è senza dubbio il mese più caldo in questa città umida. Faccio scorrere una mano sulla schiena scolpita di Ben, è già sudato. Liscio, morbido e sudato.

    Non perdiamo tempo con i preliminari. Mi schiaccia contro il materasso e mi allarga le gambe con la pressione delle sue ginocchia, entrandomi dentro come fosse la cosa più naturale del mondo. Quest’uomo sembra nato per fare sesso e regalare piacere.

    «Mmmhh» mugola, «sei calda e bagnata. La miglior scopata di sempre, piccola». Ridacchia divertito e mi regala un bacio affettuoso sulla guancia.

    Il mio cervello si annebbia all’istante, dimentico la mia partenza imminente, i miei amici che iniziano a parcheggiare le macchine sulla via di casa e si fanno strada nel giardino sul retro, dimentico tutto.

    È tutto troppo veloce e intenso per poter pensare.

    Ricadiamo sfiniti sul materasso con il cuore a mille e il fiato corto. Ben mi afferra il viso fra le mani e se lo porta a pochi centimetri dal suo e, per la prima volta, il suo sorriso scompare, lasciando spazio a un’espressione triste che evidentemente non riesce più a nascondere.

    Negli ultimi quindici giorni non ha fatto altro che ripetermi che sarebbe andato tutto bene, che ci avrebbe pensato lui a convincere mio padre a lasciarmi tornare a Orlando se io avessi fallito, che lui, per nessun motivo al mondo, avrebbe rinunciato a me. E ora? Ora mi guarda come se fosse l’ultima volta che facciamo l’amore su questo letto.

    «Che succede Mr. Carter?» domando passandogli una mano fra i capelli e sistemandogli all’indietro la ciocca ribelle che gli ricade in continuazione sulla fronte.

    «Blondie, non lascerò che nulla ci separi, mai. Non pensare che io non stia a pezzi all’idea di doverti portare in aeroporto domani sera. Rido perché l’alternativa è penosa e imbarazzante. Io e te staremo insieme per sempre». Mi sorride a mezza bocca e nasconde il viso fra i miei capelli lunghi schiariti dal sole.

    Vorrei credergli con tutto il cuore. Devo credergli, perché come ha detto lui, l’alternativa è penosa.

    Ci alziamo controvoglia dal letto quando Mark bussa insistentemente, ma grazie al cielo il ragazzo ha il buon senso di non aprire la porta. Credo abbia imparato la lezione negli ultimi mesi…

    «Sono arrivati tutti, sbrigatevi». Il suo tono è perentorio e Ben alza gli occhi al cielo.

    «Solo due ore e poi ce ne andiamo», mi punta il dito contro e mi ammonisce con lo sguardo.

    A quanto pare Benjamin ha una sorpresa in serbo per me e non è stato contento di sapere che suo fratello ha organizzato un party in mio onore il giorno prima di partire. Ma trovare un accordo fra i due è ormai la mia specialità: un colpo al cerchio e uno alla botte!

    Mi infilo il mio vestito rosa preferito con la gonna a palloncino decisamente troppo corta e indosso un paio di infradito senza tacco. Lego i capelli in uno chignon perfetto e mi passo uno strato di burrocacao. Ogni tanto sposto lo sguardo su Ben, dietro di me, e non posso fare a meno di sorridergli.

    Quando sono pronta mi afferra la mano e ci incamminiamo verso il patio, stritolandoci le dita a vicenda, come se quella pressione potesse incatenarci per sempre l’uno all’altra.

    Ci saranno già una trentina di persone che si aggirano in pantaloncini corti con bicchieri di birra in mano, nel giardino. Osservo i miei amici e mi sforzo di sorridere. Abbraccio Erika e Jessica, le mie coinquiline, mi impongo di mangiare un hot dog stracolmo di ketchup e butto giù due sorsi di birra come fossi un automa: con la testa annebbiata e il cuore pesante.

    Mark mi ribadisce per la centesima volta che questo non è un barbecue di addio, è solo una scusa per organizzare una festicciola e salutarci prima delle vacanze. Ben si è laureato a tempo di record solo un paio di settimane fa, con un anno di anticipo rispetto alla sua classe, altri ragazzi hanno concluso il loro corso di studi, tra cui Thomas, il ragazzo di Erika, e Paul, il suo compagno di stanza nel dormitorio dell’università, e in realtà stiamo salutando tutti loro, dice.

    Vorrei credergli, vorrei che quello stupido malessere fisico che sento dentro le viscere mi lasciasse in pace, abbandonasse il mio corpo una volta per tutte e mi permettesse di godermi la giornata in santa pace.

    Di certo gli occhi lucidi che Jessica cerca invano di nascondere non aiutano. L’espressione contrita del mio ragazzo ancora meno. Non che ci sia niente di diverso rispetto al solito: non si può certo dire che ami stare in mezzo alla gente, soprattutto quella con la quale non ha confidenza.

    Lo osservo mentre si lascia andare a un paio di batture con Kris, il suo migliore amico nonché batterista ufficiale del loro gruppo, e Sarah, la ragazza che qualche mese fa è stata scelta come voce femminile dei Matching Scars.

    Abby mi passa un braccio intorno alla spalla. «Sei ponta per partire?» mi domanda buttando giù d’un fiato il cocktail alcolico nel suo bicchiere di plastica rosso e reggendosi contro di me, evidentemente poco stabile sulle sue gambe.

    Abby ubriaca è uno spasso. Non beve mai troppo, è sempre molto attenta a mantenere un certo contegno, ma quando si lascia andare… è la persona più comica sulla faccia della terra.

    «Tutto pronto! Valigia chiusa, scatoloni imballati, passaggio di proprietà della macchina firmato». Papà ha insistito affinché vendessi la mia scassatissima e preziosa Wrangler, certo lui non sa che ho intenzione di tornare. Forse se lo immagina, arrivati a questo punto, ma ha abilmente sviato il discorso ogni volta che, in modo più o meno vago, ho provato a parlargliene.

    Benjamin mi ha praticamente costretta a venderla a lui: «Senti, la compro io, quando tornerai, ad agosto, faremo di nuovo il passaggio di proprietà e mi restituirai i soldi».

    «E se non dovessi tornare?».

    «Tornerai, anche a costo di rapirti e portarti qui di peso». Alla fine mi aveva convinta.

    Abby mi scocca un bacio sonoro sulla guancia e per l’ennesima volta alzo lo sguardo su Ben, che proprio non riesco a smettere di fissare. «Lo rivedrai presto. Passerete due settimane meravigliose in Italia a mangiare pasta e bere vino di classe e poi tornerete qua dove ti aspettiamo tutti a braccia aperte».

    Mi sforzo di sorriderle. La fanno tutti troppo facile. Conoscono il lato docile di mio padre, quello che me le dà tutte vinte sulle cose stupide, ma nemmeno io so come reagirà quando gli dirò che voglio trasferirmi definitivamente negli Stati Uniti, figuriamoci se possono saperlo loro.

    Di nuovo quella stupida morsa allo stomaco.

    Le casse posizionate agli angoli del giardino fanno rimbombare le note di Away From The Sun dei 3 Doors Down. Lo sguardo dolce di Ben si posa immediatamente su di me e mi becca a fissarlo. Istintivamente ci avviciniamo l’uno all’altra.

    «Preferisco quando me la canti tu», gli faccio l’occhiolino e gli butto le braccia intorno al collo.

    «Smettetela di amoreggiare» ci rimprovera Mark. Mi stacco controvoglia dal mio ragazzo e mi concentro sul mio migliore amico. Il solo pensiero di perdere Ben mi fa sgretolare il cuore in un milione di pezzi; il pensiero di non rivedere Mark mi fa mancare il respiro. Riesco a mantenere il controllo di fronte al mio ragazzo, a mascherare la frustrazione e la tristezza, ma quando suo fratello mi guarda con quegli occhioni verde acqua e mi stordisce con il suo sorriso sghembo, perdo il controllo. Con lui proprio non riesco a fingere, perché ne abbiamo passate troppe insieme.

    Lo abbraccio forte e soffoco un singhiozzo contro il suo collo. Mi strizza piano sul fianco e mi sussurra che va tutto bene. Solo lui sa quanto sia spaventata all’idea di partire e non tornare. Con Ben è impossibile parlare di questa cosa, per lui questa ipotesi non esiste.

    Mark invece mi ascolta, anche se concorda con il fratello, mi permette di sfogarmi e, poverino, è stato il mio fazzoletto ambulante nell’ultimo mese.

    «Cosa mi hai promesso?» mi sussurra all’orecchio.

    «Che non avrei pianto» ammetto fra le lacrime silenziose.

    «Ecco, appunto. Quindi basta essere tristi. Ci rivedremo fra pochissimo e tornerà tutto come sempre». Annuisco poco convinta.

    «Ho un buco allo stomaco, un magone che non mi fa respirare» ammetto alla fine, abbracciandolo ancora più forte.

    «Senti, qual è l’ipotesi peggiore? Non ti fanno il visto in tempo per agosto e tuo padre fa un po’ di storie. Hai tutta l’estate per convincerlo, e massimo il primo settembre sarai di ritorno», mi scosta e mi fissa dritto negli occhi. Improvvisa una smorfia stupida e mi fa sorridere.

    «Mark, rimaniamo altri quindici minuti, dopodiché io e Cat ce ne andiamo». Ben, che pensavo si fosse allontanato con Kris, mi sovrasta da dietro e mi fa staccare dolcemente da suo fratello. Mi afferra per mano e mi sistema accanto a sé. Adoro quanto sia geloso del rapporto fra me e Mark, lo fa sembrare insicuro, aggettivo che di certo non gli appartiene.

    Mark annuisce e mi strizza l’occhio. Si avvicina di nuovo al mio orecchio solo per il gusto di dar fastidio a suo fratello e mi fa ridere sotto i baffi. «Sua Maestà Carter ha fatto le cose in grande stasera, vedrai cosa ti ha organizzato…», mi piazza una manata sul sedere di fronte agli occhi esterrefatti del mio ragazzo e si allontana velocemente.

    «Uno di questi giorni lo uccido» commenta Ben tirandomi di nuovo a sé con fare protettivo.

    CAPITOLO 3 - Benjamin • Due anni prima

    Non riesco a rilassarmi nemmeno io stasera: più la guardo cercare di mascherare la sua angoscia più ne fa salire a ondate anche a me.

    «Hai già accennato a tuo padre del nostro piano?», la guardo di sfuggita riportando l’attenzione sulla strada.

    «No» risponde lei con un filo di voce. Allunga la mano e afferra la mia sul cambio.

    «Cat!» la rimprovero stringendole leggermente le dita sottili.

    «Ormai glielo dirò quando me lo ritroverò davanti. Non è proprio facile comunicargli per telefono che ho intenzione di rimanere in Florida, cercarmi un lavoro e contribuire alle spese dell’università perché voglio finire gli studi qui», la sua vocina si affievolisce sul finale e chiudo per un brevissimo secondo gli occhi.

    «Gli dirai anche che verrai a vivere con me?» azzardo io, e lei ridacchia.

    «Certo che no! E comunque non ho ancora detto di sì, anzi credo di averti detto No almeno venti volte», si sporge in avanti e mi sfiora la guancia con un bacio, per poi rimettersi seduta al suo posto e incollare gli occhi sulla strada buia davanti a noi.

    «Ma non ha senso pagare due affitti!» protesto io per l’ennesima volta, anche se già so come andrà a finire questa conversazione, «Spediamo Mark a casa con Jessica ed Erika e noi due ci cerchiamo un appartamento più piccolo, tutto nostro». Mi porto il palmo della sua mano contro le labbra e lo bacio piano.

    «Ti sei laureato quindici giorni fa, non frequenterai nemmeno più l’università. Chi lo sa dove ti porterà il lavoro».

    «E allora cercheremo un appartamento a metà strada fra la tua Facoltà e il mio lavoro, non credo di riuscire a non averti a portata di mano ogni giorno». Cosa mi sta facendo questa ragazza? La sto implorando di venire a vivere con me e non ho ancora nemmeno compiuto ventidue anni!

    Si accuccia contro la mia spalla e il suo profumo dolce mi solletica il naso. «Nemmeno io riuscirei a starti lontana per più di ventiquattr’ore, non so come farò queste tre settimane», sospira e percepisco tutto il suo panico nella voce.

    «Ci videochiameremo tre volte al giorno, ci manderemo duemila messaggi, io finirò i concerti, tu cercherai di convincere tuo padre, ti godrai la sua compagnia, andrete a giocare a golf, a cena fuori insieme e vedrai che voleranno questi giorni», cerco di rassicurarla io.

    «E torneremo in tempo per la grande festa del Labour Day a Daytona Beach i primi di settembre?» domanda lei puntandomi il dito contro.

    «Assolutamente sì, Blondie», le sorrido e le si illuminano quei suoi occhioni giallo fluorescente.

    «Giura?», cerca di mantenere l’espressione seria.

    «Te lo giuro amore», ridacchio. Non mi capita spesso di vedere il suo lato più insicuro. Vorrei confessarle che non permetterò a nessuno di dividerci, che l’aspetterò sempre, ma non lo faccio.

    Il viaggio fino a Daytona Beach è breve e chiacchieriamo del più e del meno intanto che ascoltiamo un vecchio album dei Blue October. Blondie fa ripartire per tre volte di seguito Calling You, e alla fine ne ha imparato il ritornello a memoria.

    «Credo che questa sia ufficialmente la mia canzone preferita» sentenzia infine.

    «Ah sì?», la sfotto io. Cambia canzone preferita ogni settimana.

    «I will keep calling you to see / If you’re sleeping, are you dreaming / If you’re dreaming, are you dreaming of me / I can’t believe you actually picked me¹», canticchia distratta con il suo accento sexy.

    Fermo la macchina di fronte al grande ingresso dell’Hilton Daytona Beach Resort e mi gusto l’espressione sorpresa della mia bellissima ragazza.

    «Wow», si gira a guardarmi una frazione di secondo per poi scendere velocemente dalla macchina prima che il valletto possa aprirle la portiera.

    Il ragazzo, con la sua uniforme bianca impeccabile, la studia perplesso ma lei lo sorpassa senza nemmeno accorgersi della sua presenza. Lui spalanca leggermente gli occhi e mi guarda mortificato. Alzo le spalle e sorrido sperando che capisca che non è colpa sua, Cat è fatta così: impaziente e curiosa come una scimmia.

    Scendo e porgo le chiavi a un altro ragazzo, poco più grande di me, che mi apre lo sportello. Mi chiede se abbiamo bagagli e con un cenno del capo indico il portabagagli.

    Blondie è immobile davanti all’entrata e guarda sbigottita, con il naso all’insù, l’imponente edificio.

    «Non stava scherzando tuo fratello… hai fatto le cose in grande», mi butta le braccia al collo e si lancia in un bacio passionale che in un’altra circostanza non mi darebbe mai in pubblico. Io me lo prendo senza farglielo notare e mi perdo fra le sue labbra morbide che profumano di fragola.

    Si stacca dolcemente e mi trascina nella hall.

    Ho prenotato una suite vista mare e, ad attenderci sul terrazzo, c’è un piccolo tavolo elegantemente apparecchiato per la cena romantica che ho fatto preparare.

    La stanza è ancora più spaziosa di quello che mi aspettassi, da una parte due piccoli divani, un tavolo e uno schermo da cinquanta pollici appeso al muro e, separata da due grosse ante scorrevoli, la camera da letto con un enorme letto invitante pieno di cuscini. Scorgiamo subito le candele accese tutto intorno alla ringhiera del balcone. Un vaso con un mazzo di girasoli imponente si erge sul tavolino al centro della stanza.

    Blondie continua a spostare la testa da una parte all’altra senza sapere bene dove guardare. Una volta tanto credo di averla lasciata senza parole e non è facile!

    «I fiori sono per te», azzardo cercando di nascondere l’imbarazzo. Non ricordo l’ultima volta che ho regalato fiori a una donna che non fosse mia madre. Forse non è mai successo. Scaccio quel pensiero e la osservo intanto che si avvicina cauta al bouquet, più grande di lei.

    Afferra delicatamente il bigliettino fra i fiori e lo apre. «Solo tu. Per sempre tu». Lo legge ad alta voce e sono contento che sia di spalle perché sicuramente si accorgerebbe della mia postura impacciata: non sono proprio portato per queste situazioni sdolcinate.

    Si asciuga velocemente una lacrima da sotto gli occhi e riposa, con meticolosa attenzione, il biglietto nella sua bustina prima di girarsi. Quando lo fa i suoi occhioni lucidi e limpidi mi fissano fin dentro l’anima facendomi battere forte il cuore.

    Sei mesi e ancora non riesco ad abituarmi al suo disarmante sorriso, al modo in cui mi fa sentire.

    Si lancia praticamente contro di me con un balzo e faccio appena in tempo a sollevarla che mi stringe le braccia intorno al collo e le gambe si attorcigliano intorno alla vita. Le sue labbra incandescenti trovano le mie, e si fa strada nella mia bocca in modo prepotente. Sono costretto a indietreggiare per non perdere l’equilibrio e cerco delicatamente di sciogliermi da quel bacio così focoso. Ho organizzato questa serata nei minimi dettagli e deve essere tutto perfetto, ma se mi bacia così… devo combattere con tutte le mie forze per non trascinarla in camera da letto e strapparle i vestiti di dosso.

    Le passo una mano sulla guancia e le scosto delicatamente il viso dal mio.

    «Non rovinarmi i piani» la avverto con un sorriso malizioso.

    «C’è altro?» mi domanda stupita, «È già tutto perfetto così».

    «Scherzi», la metto giù e le afferro il mento con due dita per assicurarmi che mi stia guardando, «oggi, ventitré giugno, sono esattamente sei mesi che stiamo insieme, non ti vedrò per tre settimane e ho intenzione di trascorrere la notte più indimenticabile della nostra vita». Le sbaciucchio le labbra ma la scanso via prima che l’erezione nei pantaloni decida al posto mio.

    «Sei mesi!», si gira e fa qualche passo verso il terrazzo, «eravamo a Daytona Beach, il giorno prima della vigilia di Natale. Non ti sembra sia passata una vita?», si volta a guardarmi e inizia a mordicchiarsi nervosamente il labbro inferiore.

    «No, mi sembra ieri, a dire la verità», mi infilo le mani in tasca e socchiudo leggermente gli occhi. «Vuoi dirmi che sei già stanca di me?», la stuzzico.

    Voglio che mi dica che mi ama, perché ogni volta che quelle stupide parole le escono dalle labbra il mio cuore perde un battito.

    Alza una spalla e mi guarda con l’espressione più snob del mondo.

    Le vado incontro e con due passi le sono davanti, la afferro di nuovo fra le mie braccia e la isso su una spalla, in modo che abbia la testa contro la mia schiena e il sedere all’altezza del mio viso. Le mollo una leggera sberla sul didietro e la trascino in camera da letto… tutto sommato se ritardiamo di quindici minuti sulla tabella di marcia non si arrabbierà nessuno. Cat emette uno strillo stridulo per la sorpresa ma si copre immediatamente le labbra per non farmi capire che sta ridendo.

    «Cosa vuoi farmi?», continua a sogghignare e la lancio sul letto distruggendo la composizione a forma di cuore disegnata sul letto con petali di rose rosse.

    «Oh, lo sai cosa voglio farti», la spoglio così velocemente che mi congratulo mentalmente con me stesso.

    Blondie ride e cerca di scendere dal letto ma l’afferro per una gamba e la incastro sotto il mio corpo.

    «Dicevamo?» domando intanto che le blocco i polsi sopra la testa contro il cuscino. Ridacchia e serra le labbra per farmi capire che non parlerà.

    «Sei già stanca di me, snob del cazzo che non sei altro?», su quelle parole spalanca gli occhi fingendosi indignata e oltremodo offesa. Cerca di scalciare ma le fermo le gambe. «Lo sai che non hai scampo…», inizio a baciarla sul mento, sul collo, scendo lentamente con la lingua, scostandole il vestito e impossessandomi di uno dei suoi seni. Adoro che non porti il reggiseno.

    Non cerca più di scappare via. Al solo tocco della mia bocca contro il suo capezzolo si irrigidisce e inarca la schiena.

    «Insomma Blondie, sei» le afferro il capezzolo fra i denti e stringo leggermente, «già», lo succhio piano, «stanca», lo lascio andare e afferro l’altro, «di», succhio forte, «me?».

    Mi perdo contro il suo corpo liscio e la sento ansimare intanto che faccio scivolare le dita dentro i suoi slip. È sempre così maledettamente liscia! Come si fa a resisterle, porca puttana? Mi manderà al manicomio. Tre settimane senza di lei saranno lunghe e dolorose.

    «No!», ansima lei con gli occhi chiusi e la bocca aperta.

    «E verrai a vivere con me?».

    «Sei», sospira intanto che le faccio scivolare un dito nella sua parte più calda, «mmhh… sei scorretto!».

    Sorrido e scuoto la testa, forte del fatto che non mi possa vedere. Mi ci vorranno altri sei mesi per convincerla, santo cielo che testa dura che ha questa ragazza!

    Me la scopo, nel vero senso della parola. Niente preliminari, niente smancerie, me la scopo perché posso, perché è la mia ragazza e perché sa che la amo sopra ogni altra cosa al mondo.


    ¹ Continuerò a chiamarti per vedere / Se stai dormendo, stai sognando? / E se stai sognando, stai sognando me? / Non posso ancora credere che tu abbia scelto me.

    CAPITOLO 4 - Caterina

    Come sempre casa mia è immersa nell’oscurità. Non ricordo nemmeno più quando è stata l’ultima volta che ho varcato la soglia e ho respirato l’odore di qualcosa di cucinato. L’unica luce che si intravede è il bagliore fioco che arriva da sotto la porta dello studio di papà.

    Mi porto una mano sul petto e cerco di riprendere fiato. Ultimamente soffro di attacchi di panico non appena metto piede in queste quattro mura. La foto di mia madre che mi fissa e l’odore di viola selvatica non sono niente in confronto al dolore che provo al pensiero di aver perso anche mio padre. Non importa che fisicamente sia con me, è come se fosse stato risucchiato in un mondo tutto suo fatto di dolore e rimpianti. Non ride più da tanto tempo, niente lo rende felice, è solo un lungo silenzio dopo l’altro.

    Sono rimasta a Roma per lui, mi sono laureata, ho fatto il possibile. Visite mediche interminabili, day hospital estenuanti mentre me ne stavo nella piccola cappella dell’ospedale Gemelli a pregare che non fosse il Parkinson, che non stavo perdendo l’unico genitore che mi era rimasto, intanto che lui si sottoponeva a un esame dopo l’altro.

    Ma immagino che per un chirurgo plastico non poter usare le mani sia devastante, punto e basta. Non importa se si tratta di una malattia degenerativa come il Parkinson o, come per fortuna avevamo scoperto dopo mesi, uno stupido Tremore essenziale, il risultato non cambia: non potrà mai più tenere un bisturi in mano.

    Mi ripeto che sono un’egoista perché penso solo al mio dolore e non al suo: cosa ne so io cosa vuol dire compiere cinquant’anni e non avere più un lavoro, guardarsi allo specchio e sentirsi un fallito, vivere nel terrore di non riuscire ad andare avanti.

    Mi porto le mani agli occhi e caccio indietro

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1