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Rinascere antichi: L'architettura nelle relazioni tra Parigi e Roma nel Seicento
Rinascere antichi: L'architettura nelle relazioni tra Parigi e Roma nel Seicento
Rinascere antichi: L'architettura nelle relazioni tra Parigi e Roma nel Seicento
Ebook712 pages7 hours

Rinascere antichi: L'architettura nelle relazioni tra Parigi e Roma nel Seicento

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About this ebook


Il libro è il risultato di una ricerca durata all’incirca vent’anni, condotta in  Francia, Italia, Stati Uniti e Canada (Montréal), in archivi e biblioteche. Come suggerito dal titolo, il libro tratta delle relazioni che, in merito all’architettura, ebbero luogo tra Italia e Francia nel corso del Seicento. Per la pittura o per la scultura, il tema non è nuovo. Per l’architettura, al contrario, il soggetto di ricerca è originale, poiché scambi, influssi e imprestiti reciproci hanno sempre occupato al massimo qualche pagina delle storie dell’architettura o delle monografie sugli architetti francesi. Il libro non pretende di dare al problema una trattazione sistematica, e si concentra su alcuni episodi ritenuti rilevanti: si tratti della polemica sorta intorno alla costruzione di un edificio, dell’inventario della biblioteca di un architetto, dell’edizione e della fortuna di un trattato, della carriera di qualche italiano in Francia e di qualche francese a Roma (non tutti architetti, questi ultimi, ma personaggi chiave nel dipanarsi del libro). Ricorrono i nomi di Jacques Le Mercier, Etienne Martellange, Roland Fréart de Chambray e Paul Fréart de Chantelou, François Sublet des Noyers, Charles Errard e, non ultimo, di Antonio Barberini, il cardinale nipote di Urbano VIII, coinvolto in un affaire architettonico durante la sua lunga, anche se discontinua, presenza a Parigi. Inediti documenti d’archivio e nuove interpretazioni di quanto già noto riportano l’attenzione agli anni che precedono la soluzione istituzionale del voyage d’Italie e la fondazione dell’Accademia di Francia a Roma, sul finire del Seicento, indi la definizione della grandeur e le declinazioni tutte nazionali, francesi, del linguaggio classico dell’architettura.

 
LanguageItaliano
PublisherAnnalisa Avon
Release dateMay 13, 2017
ISBN9788822860668
Rinascere antichi: L'architettura nelle relazioni tra Parigi e Roma nel Seicento

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    Rinascere antichi - Annalisa Avon

    Annalisa Avon © tutti i diritti riservati

    annalisaavon@yahoo.it

    http://www.annalisaavon.link/

    Autore. Annalisa Avon (1957-)

    Rinascere antichi. L’architettura nelle relazioni fra Parigi e Roma nel Seicento

    Include indicazioni bibliografiche

    ISBN ebook: 9788822860668

    Progettazione grafica, creazione ebook, cura redazionale di Annalisa Avon

    Annalisa Avon

    Rinascere antichi

    L’architettura nelle relazioni fra Parigi e Roma nel Seicento

    Sommario

    Ringraziamenti

    Biblioteche e archivi consultati

    Introduzione

    La Francia e l’architettura italiana : «rinascere antichi»

    L’architettura fra Italia e Francia nel Cinquecento

    La Francia e l’architettura italiana nel Seicento: alla ricerca di uno stile francese, alcuni episodi

    Verso la fine del Seicento: un milieu filoitaliano a Parigi, nuovi episodi

    Note all’introduzione

    1. «I più periti architetti di Parigi…»: modelli per la nuova architettura nella Francia del primo Seicento

    Un episodio nella Parigi del 1630: la querelle sulla facciata della chiesa gesuita di Saint-Louis

    Classico contro Barocco?

    Il progetto di François Derand

    Il progetto di Martellange

    I termini della polemica e il partito degli «Intelligens».

    Note al primo capitolo

    2. Voyages d’ Italie

    Étienne Martellange e Jacques Le Mercier

    Étienne Martellange a Roma

    Il viaggio in Italia di Jacques Le Mercier

    Quattro incisioni

    Un disegno

    Note al capitolo secondo

    3. Parigi nuova Roma

    Parigi, Henri IV e Maria de Medici: la città agli inizi del Seicento

    L’architettura, la rappresentazione del potere politico e religioso, la cultura dell’antico: Le Mercier architetto del cardinale Richelieu

    La chiesa della Sorbona: «un palais à la théologie, un mausolée à ses cendres [...]»

    «Une architecture regulière»

    L’architetto e i savants*

    Galeries

    La biblioteca, gli strumenti scientifici, le collezioni di antichità e opere d’arte di un architetto del Seicento**

    De Bibliothecis syntagma

    Alcuni nuovi indizi

    Note al capitolo terzo

    4. Le modèle italien e l’architettura francese dopo la metà del Seicento

    Modelli per la nuova architettura

    Nuovi esempi e riferimenti per l’architettura francese*

    Il caso della chiesa dell’Assomption

    La fondazione del nuovo convento dell’Assomption e la riforma degli ordini monastici

    La riforma dell’Ordine delle Haudriettes

    «Il a plu à vôtre bonté nous tirer de l’enfer…»: l’insediamento della comunità e le prime acquisizioni di immobili e terreni

    « … Pour ornement encore de cette vostre ville»: dai primi lavori, al progetto del nuovo convento

    Il primo progetto per la cappella dell’Assomption (1630-32)

    Due nuovi progetti per la nuova chiesa (1660-1670)

    Il progetto di Charles Errard e la costruzione della chiesa

    Un problema aperto: i disegni per la chiesa di Sant’Andrea al Quirinale conservati nel fondo del convento dell’Assomption

    Note al capitolo quarto

    5. Antonio Barberini in Francia e il convento dell’Assomption

    Antonio Barberini superiore del convento dell’Assomption, nuove ipotesi di ricerca

    «Si possono i viaggi fare con l’istesso commodo col quale si sta in una stanza…»: la carriera di Antonio Barberini in Francia

    Ancora sulla carriera di Antonio: tracce negli Archivi parigini

    Antonio Barberini e le Filles de l’Assomption

    Arte e diplomazia: Antonio Barberini tra Francia e Italia.

    Qualche nuova ipotesi sull’Assomption, un Pantheon parigino

    Un milieu italiano a Parigi

    Charles Errard e i francesi a Roma

    Addenda: a proposito della casa di François Sublet de Noyers, divenuta proprietà del convento dell’Assomption

    Note al capitolo quinto

    Elenco delle immagini

    Bibliografia dei testi citati

    Ringraziamenti

    I miei studi sulla Francia del Seicento hanno avuto inizio intorno al 1993, quando vinsi la borsa per un dottorato in Storia dell’architettura allo IUAV di Venezia, l’ateneo presso il quale qualche anno prima mi ero laureata: Manfredo Tafuri, al tempo direttore del dottorato, mi suggerì (a me, che pure mi ero occupata sostanzialmente sempre dell’architettura contemporanea, ma allora spiazzare i candidati era la prassi) di affrontare lo studio del contrapporsi, nella Francia del Seicento, di sapere dei maçons e cultura scientifica, dunque di sapere derivato dalla pratica e di quello fondato, per l’architettura, sulla geometria proiettiva o più in generale sulla matematica, temi sui quali indagava allora Giorgio Ciucci, già mio relatore di laurea presso la stessa Università, con il quale ho peraltro lavorato, prima del dottorato e per molti anni a seguire, su periodi e temi talvolta completamente diversi. Una borsa di studio del Canadian Centre for Architecture-CCA di Montréal (Canada), sul tema Baroque beyond Rome, mi permise di non interrompere le ricerche, che in seguito proseguii in modo discontinuo, attività più prosaiche permettendo. Sino a che, grazie a un dottorato in Storia dell’arte ottenuto nel 2007 con un progetto di ricerca specifico presso l’Università di Udine, con Caterina Furlan come tutor, ho trovato modo e tempo per dare una forma più conclusa al tutto. E devo precisare che, naturalmente, come sempre accade, nel progredire delle ricerche temi e obiettivi del lavoro sono, negli anni, mutati, e l’indicazione iniziale quasi persa di vista.

    Vorrei solo aggiungere che la mia conoscenza della lingua francese era agli inizi del tutto approssimativa, ma che oramai la sua pratica e conoscenza mi hanno reso vicina e familiare una cultura storica, filosofica e letteraria che finalmente posso leggere con piacere nei testi e nei documenti originali, e questo sarebbe stato impossibile senza l’esperienza di ricerca all’estero. Senza contare le lunghe giornate di studio nella sede storica della Bibliothèque Nationale (quella di Henri Labrouste, non i quattro condomini attuali a Tolbiac), dove ho visto con emozione –una cosa fra le tante- passare in consegna a qualche lettore le scatole del fondo manoscritti di Walter Benjamin, e dove si muovevano i fantasmi di quanti i cui nomi si leggevano tra quelli dei donneurs e benefattori dell’istituzione, nella sede ottocentesca, mentre si era in attesa di poter avere un posto a sedere: Victor Hugo, Émile Zola, Marcel Proust, Georges Bataille, Romain Rolland...Alla pari, altri archivi e biblioteche hanno riservato qualche momento emozionante, legato perlopiù a qualche elettrizzante ‘scoperta’, come per fortuna mi è accaduto.

    I lunghi soggiorni a Parigi, spesso assai solitari in realtà, non sono stati, tuttavia, solo momenti di studio e di ricerca ma anche occasioni di riapertura verso alcuni interessi, specie verso l’arte moderna e contemporanea, interesse questo che ha, sì, sempre accompagnato la mia vita, ma cui la visita costante a musei e gallerie private, nell’intensa vita culturale parigina, ha dato molta più forza e significato.

    Dato il tempo trascorso, molte sono le persone che dovrei ringraziare, ma mi è impossibile ricordare tutti, tra docenti, amici, colleghi, personale di archivi pubblici, privati e biblioteche. Vi è certo un’unica persona cui sono profondamente grata, ed è Luciano Campolin, mio marito, poiché senza il suo sostegno intellettuale, morale, materiale, e senza le sue osservazioni, la sua pazienza e, in quanto architetto come me, senza il suo vivo interesse per quanto stavo facendo, il presente lavoro probabilmente non avrebbe mai visto la luce.

    Per questi e altri, più profondi motivi, il libro è dedicato a Luciano.

    Biblioteche e archivi consultati

    AAE: Archives du Ministère des Affaires Étrangères, Paris;

    ACF: Archives du Collège de France, Paris;

    ADep.Ev.: Archives Départementales, Évreux Normandie;

    AHSI: Archivio Storico della Società del Gesù, Roma;

    AL: Avery Library, Columbia University, New York;

    AMG: Archives du Ministère de la Guerre, Château de Vincennes, Paris;

    AN: Archives Nationales, Paris;

    AN, MC: Archives Nationales, Minutier Central des Notaires, Paris;

    AP: Archives de Paris, Paris;

    ASL: Archivio dell’Accademia di San Luca, Roma;

    ASV: Archivio di Stato, Venezia;

    BAV: Biblioteca Apostolica Vaticana, Roma;

    BHVP: Bibliothèque Historique de la Ville de Paris, Paris;

    B.Inst.: Bibliothèque de l’Institut de France, Paris;

    BMCh: Bibliothèque et Médiathèque l’Apostrophe, Chartres;

    BNF: Bibliothèque Nationale de France, Paris;

    BNF, Mss: Bibliothèque Nationale de France, Paris, Département des Manuscrits;

    BNF, Est.: Bibliothèque Nationale de France, Paris, Département des Estampes;

    BSG: Bibliothèque Sainte-Geneviève, Paris;

    BS: Bibliothèque de la Sorbonne, Paris;

    CCA: Canadian Centre for Architecture, Archivi e Biblioteca;

    ENSBA : Bibliothèque de l’École Nationale Supérieure des Beaux-Arts, Paris;

    Louvre, Département des Arts Graphiques, Paris.

    Nelle trascrizioni dei documenti mi sono attenuta il più possibile agli originali, apportando solo minime correzioni ma trascurando la frequente assenza di accenti acuti, gravi e circonflessi, e rispettando i modi della scrittura.

    Nei nomi propri, ho rispettato, quando possibile, quanto derivato da fonti autorevoli (ho così preferito per esempio Jacques Le Mercier, come derivato da Louis Hautecoeur, a Jacques Lemercier, come dal titolo di una monografia recente, così come ho optato, tra le varie soluzioni e uniformandole, per Philibert de l’Orme).

    Nell’insieme, si noterà che il libro ha, a tratti, il carattere un po’ pedante dello scritto accademico, ma ho preferito e in un certo senso dovuto lasciare in gran parte i testi delle due tesi di dottorato successive come stavano, aggiornando alcuni riferimenti bibliografici, neppure tutti (anche se, oggi, la ricerca per via informatica ha reso ogni cosa più veloce e agevole: molti miei problemi, soprattutto all’inizio, si sarebbero risolti assai più in fretta senza la consultazione delle schede cartacee, oppure -grande innovazione- con la possibilità di fotografare autonomamente i materiali d’archivio, cosa peraltro ancora impossibile, quasi ovunque, in Italia).

    Quale unica responsabile della stesura, redazione e correzione del libro, spero mi si perdoneranno eventuali errori e refusi, dei quali mi scuso sin d’ora.

    Nota sull’autrice

    Architetto, dottore di ricerca in Storia dell’architettura e dell’urbanistica e in Storia dell’Arte, ricercatrice indipendente, vive e lavora a Pordenone.

    Ha svolto attività di ricerca e ha insegnato come assistente e docente a contratto in corsi di Storia dell’architettura e del Design presso le Università di Venezia e Udine (Scuola di specializzazione postlaurea in Storia dell’Arte). Estratti del presente libro sono stati pubblicati in Annali di architettura, rivista del CISA-Centro Internazionale di Studi Andrea Palladio di Vicenza. Oltre che sulla Francia, ha condotto diversi studi sull’architettura e gli architetti italiani del Novecento, pubblicati in cataloghi e monografie, quali Italia Anni Trenta (Milano 1989), Storia dell’Arte italiana (a cura di Carlo Bertelli, Milano 1992), Storia dell’architettura italiana. Il primo Novecento (a cura di Giorgio Ciucci e Giorgio Muratore, Milano 2004), e nei volumi su Daniele Calabi (a cura di Donatella Calabi e Guido Zucconi, Venezia 1992), Giuseppe Terragni (a cura di Giorgio Ciucci, Milano 1996), Marcello D’Olivo architetto (Milano 2002), Pietro Lingeri (a cura di Chiara Baglione ed Elisabetta Susani, Milano, 2004). Dal 1986 ha collaborato con continuità, con saggi, articoli e recensioni alle riviste Casabella e Domus. Alcune pubblicazioni recenti riguardano la storia della città di Pordenone, in particolare due monografie, e cioé Cesare Scoccimarro (1897-1953), e Cesare Scoccimarro nell’architettura italiana del Novecento, volumi editi a Udine nel 2013 e nel 2014, fino al più recente Architettura e città. Pordenone dal primo Novecento agli anni Settanta, Pordenone 2016.

    Introduzione

    La Francia e l’architettura italiana : «rinascere antichi»

    Nella presentazione del Trattato della pittura di Leonardo Da Vinci (1651), Raphael Trichet du Fresne ricorda di aver utilizzato, per l’edizione del volume, il manoscritto che Paul Fréart de Chantelou aveva avuto da Cassiano Dal Pozzo «nel tempo ch’egli andato in Italia alla conquista di belle cose, se per la gloria del regno non moriva il nostro gran Cardinale, haverebbe portato Roma a Parigi»¹: la considerazione, pur se riferita ad un episodio specifico, riassume in modo efficace il fitto scambio che a metà del Seicento — ma in realtà ancor prima della data dell’edizione degli scritti vinciani illustrati da Poussin, come si vedrà — vedeva coinvolte l’Italia e la Francia, in un andare e venire neppure troppo figurato ‘dall’una all’altra Roma’, in un insieme di relazioni e, talvolta, in una competizione alimentate appunto dal mito della città eterna e della cultura classica.

    «Rinascere antichi», esattamente il titolo scelto per questo libro (libero adattamento di un’espressione che si trova nel Parallèle de l’architecture antique et de la moderne di Roland Fréart De Chambray, trattato per il quale si veda qui più oltre) sembra essere l’intento che anima i francesi nell’avvicinarsi alle arti e all’architettura italiane. Va aggiunto, tuttavia, che nel momento in cui Trichet e Fréart scrivono, quello scambio, che difficilmente può essere scisso dalle relazioni politiche e diplomatiche, si avvia a mutare profondamente, nei modi e nei mezzi, in un percorso che sarà segnato dalla fondazione delle Accademie, dalla istituzionalizzazione del voyage d’Italie e dalla progressiva emancipazione della cultura artistica francese dalle ibridazioni o, meglio, come puntualizzava André Chastel, dagli «actes d’appropriation»² che ne avevano segnato le origini.

    Di quelle relazioni, ciò che si intende qui approfondire è quanto avvenne in merito all’architettura nel corso del Seicento.

    Per ciò che concerne la pittura e la scultura, gli interessi antiquari e l’ambito letterario, gli studi sono sempre stati numerosi e aggiornati, specie perché si è potuto contare, oltre che sulla testimonianza concreta rappresentata dalle opere d’arte, su dati e materiali vari e consistenti. Intendo dire la corrispondenza degli eruditi, i resoconti e i giornali dei viaggi in Italia e, per converso, degli spostamenti de l’Italie à la France, le tracce documentarie lasciate da collezionisti e committenti, come da personaggi importanti e dai loro ‘agenti’, oltre che la letteratura artistica.

    La conoscenza di questo insieme di studi, che qui sarebbe impossibile riassumere anche per sommi capi, costituisce uno sfondo che non può essere trascurato quando ci si occupi della storia dell’architettura. Tuttavia, per quest’ultima, si tracciano e seguono percorsi specifici, con lo studio di materiali che, almeno per buona parte del Seicento, sembrano ridursi a ben poco, a fronte di ciò che è dato a disposizione per la pittura oppure per la storia del collezionismo. Ciò dipende molto semplicemente dal fatto che gli ‘imprestiti’ e le relazioni si sono sviluppati sostanzialmente con la diffusione dei trattati e dei libri di architettura, e molto più raramente attraverso la conoscenza diretta dell’architettura, lasciando rare tracce in appunti e disegni di viaggio. Per sua natura, inoltre, l’architettura solo in casi eccezionali — in realtà quasi mai — figura quale oggetto nella corrispondenza fra gli uomini di stato e i loro incaricati, o agenti, in Italia. Lo studio degli inventari delle biblioteche degli architetti, di recente fattosi più attento³, ha portato alla luce un consistente per quanto non inatteso interesse rivolto all’architettura italiana, ma le conseguenze possibili dei ‘modelli’ così appresi sulla concreta attività costruttiva restano piuttosto difficili da valutare.

    L’architettura fra Italia e Francia nel Cinquecento

    Se i documenti attestano che per un architetto francese, tra la fine del Cinquecento e la prima metà del Seicento, compiere il viaggio in Italia era un evento raro, considerazioni un po’ diverse si impongono per il secolo precedente. Non vi è storia dell’architettura francese che non ricordi, al capitolo sul XVI secolo, le descentes en Italie dei sovrani in assetto di guerra — Charles VIII, Louis XII, François I — che ebbero per risultato, in senso più o meno figurato, una ‘invasione’ in senso inverso del gusto italiano nel campo delle arti. Oggi, in realtà, il significato assunto da quelle campagne di guerra è stato ridimensionato, e all’idea di un ‘influsso’ italiano — termine generico e disastroso, poiché «il implique une fatalité d’emprunts»⁴, quasi l’influsso avesse carattere casuale e inevitabile — si è sostituita la convinzione di trovarsi di fronte a un contatto continuo tra le due culture, che previde spostamenti tanto nell’uno, che nell’altro senso.

    Fra’ Giocondo, Giuliano da Sangallo e Leonardo da Vinci appartengono alla prima generazione di architetti italiani che nell’ultimo scorcio del Quattrocento e poi nel Cinquecento raggiunsero la Francia perché chiamati a corte, o perché in viaggio, come appunto il Sangallo, con il loro ‘padrone’⁵; a loro seguirono Francesco Primaticcio e Sebastiano Serlio, verso il cui passaggio in Francia la storiografia ha rinnovato l’interesse contando su inediti elementi documentari e di analisi, in monografie in gran parte dedicate proprio alla carriera francese dei due architetti, opere cui si rimanda anche per le ricche bibliografie⁶. Studi più circoscritti hanno condotto l’attenzione alla presenza in Francia del Vignola e di Vincenzo Scamozzi⁷, né vi è modo qui di ricordare puntualmente gli studi altrettanto importanti sullo spostamento delle maestranze o di architetti meno noti di quelli citati.

    Al passaggio e alla permanenza degli architetti ora ricordati, oltre che alla diffusione di quanto in Italia si dava alle stampe, sono imputabili l’inizio degli studi vitruviani, l’introduzione di modelli architettonici dei quali la Francia si appropriò in breve tempo, la diffusione di un sistema normato degli ordini, la divulgazione degli esempi più importanti dell’architettura antica.

    Non è difficile trovare, nei primi trattati d’architettura francesi, la dichiarazione dei debiti contratti e qualche formula di riconoscenza. «Si je ne me feusse prevalu du labeur de Frere Iehan Ioconde l’Architecte, du Messire Leon Baptiste Albert [... ] de messire Sebastien Serlio [...] jamais je ne feusse venu au bout de mon entreprise», scrive Jean Martin nella sua edizione di Vitruvio del 1547⁸; Philibert de l’Orme, due decenni dopo, dirà di Serlio «c’est lui qui a donné le premier aux Français par ses livres et ses desseings la connoisance des édifices antiques et plusieurs fort belles inventions»⁹.

    Dei francesi, talvolta si ricorda il giudizio poco lusinghiero che su di loro espresse Baldassarre Castiglione, che li descrisse come conoscitori «della nobiltà delle arme», che «tutto il resto nulla estimano»¹⁰. I primi architetti che dalla Francia raggiunsero l’Italia, tuttavia, a dispetto delle parole del Castiglione, furono letterati poi divenuti architetti, i cui nomi sono inscindibili da quelli degli umanisti cui furono legati. Guillaume Philandrier, per esempio, segretario del cardinale d’Armagnac, il quale fu a Roma prima della metà del Cinquecento e vi pubblicò, dopo aver fatto parte dell’Accademia della Virtù, le sue Annotationes (1544) a Vitruvio¹¹, testo di filologia prima che commento al trattato antico. Philbert de l’Orme fu in Italia, negli stessi anni, con il cardinale Jean Du Bellay e Rabelais: nel suo trattato, scritto a molti anni dal rientro in Francia, racconterà del suo incontro con Marcello Cervini, l’animatore a Roma dell’accademia vitruviana, e si descriverà tra le rovine, «mesurant divers édifices antiques [...] avec grand labeur, frais et despens [...] tant pour les échelles et cordages que pour faire fouiller les fondemens, afin de les cognoistre»¹².

    Di recente è stato nuovamente sondato il problema del viaggio compiuto verso Roma da Philandrier, con un affondo sulle sue Annotazioni ¹³, come del viaggio compiuto da Philibert de l’Orme, caso cui un’esauriente monografia dedica un capitolo¹⁴, accogliendo le indicazioni che sembrano derivare dai progetti e dalle architetture. Circa il viaggio di Étienne Dupérac, studi recenti hanno parimenti apportato importanti puntualizzazioni¹⁵, mentre resta più difficile da dimostrare, per quanto sia considerato probabile, il soggiorno in Italia di Pierre Lescot, di Jean Goujon e di Jean Bullant, fatto, nel caso di quest’ultimo, testimoniato da alcune frasi del suo trattato¹⁶. Gli studi ultimi dedicati a Jacques Androuet du Cerceau¹⁷, raccolti in un volume e accompagnati, a lato, dalla riedizioni e ristampe della sua produzione disegnata e incisa, aprono qualche prospettiva sulla possibilità di una conoscenza diretta, anche per quest’ultimo, dell’architettura antica, ipotesi in passato spesso avanzata.

    Nulla è rimasto in Italia del passaggio degli architetti francesi, almeno se si esclude chi volle stabilirvisi definitivamente¹⁸. Ma che cosa significò, per i francesi che raggiunsero Roma, l’aver compiuto tale viaggio di studio? Quali segni ne portò la produzione architettonica? La domanda avvicina a ciò che costituisce il problema per eccellenza del Rinascimento francese, dove il riferimento all’antico è rilievo paziente, ma anche esercizio di copia dai trattati, e dove, nell’architettura costruita, le scelte selettive preludono all’assemblaggio di elementi eterogenei. Studi attenti, limitati soltanto a qualcuno degli architetti citati e i cui risultati sono perciò generalizzabili con cautela, indicano per esempio, nel caso dei trattati, accanto a imprecisioni nella designazione dei monumenti, l’esistenza di disegni dall’antico che possono forse considerarsi «rilievi esatti»¹⁹, ma pure una certa preferenza per l’utilizzo della copia, non dichiarata, dall’opera di qualche autore italiano.

    De l’Orme presentò il profilo della cornice del cortile interno di palazzo Farnese come «extraite d’un marbre fort antique»²⁰; inoltre, lo «stylobate & pied de stat antique» di ordine dorico, alla pari del «piedestal corinthien» del suo trattato, si sono rivelati essere copie di piedestalli contenuti nel commento a Vitruvio di Cesare Cesariano²¹. L’architettura costruita può riservare sorprese ancor meno prevedibili. Philandrier, nell’unica costruzione che con qualche certezza può essergli attribuita, offre un esempio spiazzante per chi sia alla ricerca degli esiti francesi del vitruvianesimo²²; nel caso di Bullant, si è costantemente costretti a riconoscere che al disegno di elementi e ordini «selon la doctrine de Vitruve» o ripresi dall’antico, fa seguito «un’architettura che si distacca nettamente da tutto quello che conosciamo»²³; in Lescot, il più colto fra gli architetti citati più sopra, restò aperta la possibilità di invenzione²⁴ e ciò è vero in modo ancor più evidente per Jacques Androuet Du Cerceau; a proposito di Philibert de l’Orme, ricerche puntuali condotte sul primo degli edifici da lui costruiti al suo ritorno, e cioè l’hôtel Bullioud a Lione, mostrano la diversità delle fonti cui egli attinse, tanto da far concludere che «de ce voyage à Rome [...] de L’Orme a retenu un esprit général, un répertoire formel et un sens intuitif des proportions»²⁵, come si addiceva al suo atteggiamento pragmatico, che solo più tardi trovò un complemento teorico.

    Nessuna inesorabile «marche vers le classicisme»²⁶, dunque.

    La sintassi classicista, pur se utilizzata con libertà nei modi e nei riferimenti, si presenta «come estrinseco vocabolario di nessi ed elementi»²⁷. Su questo terreno la ricerca è ancora aperta, ma già sono emerse indicazioni importanti. Privata di consistenza la volontà di intravvedere, nell’atteggiamento che fu tipico del primo classicismo «alla francese», l’uso del classico in quanto «dato da contestare», in ibridi e gratuiti giochi linguistici, si sono individuate le ragioni possibili — ragioni politiche, che si confondono con quelle letterarie ed estetiche — di quella che si configurò come una vera «ricerca di un linguaggio»²⁸.

    Su quale sia stato il destino del linguaggio classico in Francia, nella relazione tra modelli italiani e maniera nazionale, dopo il volume di Pérouse de Montclos ormai divenuto un punto di riferimento per gli sviluppi dell’«architecture à la française»²⁹, non è cessato lo studio della ricezione in Francia delle forme all’antica. Lo suggerisce il titolo di uno dei convegni³⁰ — quello dedicato appunto, nel 1994, a «la réception des formes ‘à l’antique’ au début de la Renaissance» — che regolarmente si svolgono a Tours, al Centre d’études supérieures de la Renaissance, nei cui Atti questioni formali e costruttive, temi, modelli sono posti a confronto e fatti reagire per cogliere reciproche influenze e specificità, in un panorama che ha per riferimento l’ambito europeo, mentre altri studi hanno ricondotto l’interesse alle vestigia della Gallia romana, certo note agli architetti francesi del XVI secolo³¹.

    All’idea del semplice influsso italiano e classico su di un’architettura sostanzialmente gotica, che avrebbe condotto all’apprendimento —dopo un iniziale e diretto placage di elementi antichi— del nuovo lessico, si è oramai sostituita la necessità di tracciare i modi dello scambio continuo, dell’individuare le ragioni delle scelte. Esigenza quest’ultima che, come indicava negli intenti un convegno svoltosi nel 2009 all’INHA di Parigi, sul tema «Le génie du lieu: la réception du langage classique en Europe», non può essere estranea allo studio dell’architettura di altri centri collocati lontano da Roma, per le considerazioni sul linguaggio classico come regola o invenzione³².

    La Francia e l’architettura italiana nel Seicento: alla ricerca di uno stile francese, alcuni episodi

    Nell’economia degli studi, il Seicento sembra offrire, in generale, un numero più limitato di spunti e dunque, conseguentemente, pare aver sollecitato un minor numero di ricerche dedicate alle relazioni tra Francia e Italia in merito all’architettura, quasi che la diffusione dei nuovi principi architettonici, compiutasi nel secolo precedente —per i motivi e nei modi qui sopra rapidamente tratteggiati— si fosse tradotta in una pratica ormai in grado di padroneggiare regole e linguaggio.

    Se ciò non costituisse un giudizio affrettato, discutibile da un punto di vista storiografico, si sarebbe tentati di definire una buona parte del XVII secolo quale periodo di ‘transizione’: prima di poter manifestare, per il contributo di figure quali Claude Perrault — l’architetto del celebre colonnato del Louvre, difensore dei principi determinati dall’uso e dunque dall’accoutumance, ovvero dall’abitudine, piuttosto che delle regole astratte — e grazie al dibattito intorno al primato di ‘antichi’ e ‘moderni’, un proprio carattere specifico, contraddistinto dalla grandiosità, costituito di scientismo e di un classicismo fondato sull’analisi critica dell’antico, come insegnerà Antoine Desgodets³³, l’architettura sembra impegnata nella piatta ripetizione di modelli sperimentati.

    Rari sono i viaggi in Italia, tant’è che alcuni fra i più importanti architetti francesi del XVII secolo, vale a dire Louis Le Vau, François Mansart o Pierre Le Muet, non ne avvertirono per nulla l’esigenza. Per contro, chi ebbe modo di compierlo dimostrò nei propri progetti un legame forse troppo evidente, come si vedrà qui, con i prototipi d’oltralpe, e tale dipendenza ha forse finito con lo scoraggiare la storiografia, così che solo in anni recenti è ripreso un lavoro di approfondimento e sondaggio, altrimenti piuttosto datato, seguendo in questo le sollecitazioni verso la riconsiderazione critica del periodo fornite da alcune trattazioni storiografiche generali³⁴.

    Può essere che la ricerca, per qualche tempo, abbia risentito di un modello interpretativo spiccatamente ‘nazionale’, che vorrebbe il classicismo francese dell’epoca di Louis XIV quale creatura autonoma —la vicenda del fallimentare soggiorno a Parigi di Gian Lorenzo Bernini, nel 1665, ne sarebbe l’esplicita dimostrazione— e che ciò non abbia fatto avvertire come necessario un diverso punto di vista. Negli ultimi anni, tuttavia, alcuni studi hanno arricchito il campo con nuovi approfondimenti sul tema delle relazioni fra le due culture, e pure i contributi riferibili esclusivamente all’architettura sono divenuti più numerosi. Alcune ricorrenze sono divenute occasione per rivedere il periodo che va dalla fine delle guerre di religione, intorno al 1598 (è questa data a segnare una vera soluzione di continuità, e si accettino comunque i riferimenti qui avanzati a una periodizzazione per secoli come una semplificazione pratica) al pieno Seicento, ricordo per esempio gli omaggi al mecenatismo della regina italiana Maria de Medici, le celebrazioni del cardinale Richelieu, le mostre e i convegni belloriani, nonché gli studi su Mazzarino³⁵, ove nei contributi è dato ritrovare più di una riflessione sugli edifici, i programmi di costruzione e autocelebrazione di prestigiosi committenti, come sulla traslazione dei modelli.

    Se non ambiscono ad avere il largo respiro dei contributi ora ricordati, gli studi qui raccolti e dedicati ad alcuni momenti circoscritti della storia dell’architettura del Seicento francese —si tratti, come si vedrà, di una polemica, di un edificio, dell’edizione di un trattato, dell’inventario della biblioteca di un architetto, della fortuna di alcuni italiani in Francia e di alcuni francesi a Roma— possono aprire, a partire da uno sguardo ravvicinato, a una visione più complessa di quello scambio, che qui interessa. Pochi, anche se centrali, sono i personaggi citati —non tutti architetti, naturalmente— ma il ricorrere dei nomi e l’evidenza delle relazioni possono suggerire un disegno più ampio, pur se volutamente l’insieme del racconto è ricucito salvaguardando l’unicità degli episodi, secondo una struttura che certo riflette il modo in cui le mie ricerche si sono nel tempo sviluppate, e non potrebbe essere altrimenti.

    Nei primi capitoli, ricorre il nome dell’architetto Jacques Le Mercier, sull’opera del quale, qualche anno fa oramai, iniziai a lavorare, poiché interessata alla relazione, in Francia, fra la nascente cultura scientifica e il sapere pratico dei maçons, come già precisato. La prima constatazione, non senza sorpresa, fu che Jacques Le Mercier a tutti gli effetti era l’unico architetto francese ad aver raggiunto Roma nel primo Seicento. Insieme alle numerose citazioni attraverso cui nei suoi progetti mostra i debiti contratti verso l’architettura italiana tardo cinquecentesca, ciò mi iniziò al problema e al tema del trapasso dei modelli dall’una all’altra nazione o cultura, e delle modificazioni che quegli stessi modelli subiscono, «là où, loin de Rome, ils sont imités»³⁶.

    Si trattò innanzitutto, per me, di dover fare i conti, inizialmente, con una bibliografia decisamente datata —pur se lodevolmente documentata, data la sua matrice positivista— nella quale non sembrava trovare considerazione l’aspetto più affascinante della sua carriera, vale a dire la sua formazione italiana, alla luce della quale deve, credo, essere letta la sua successiva fortuna come architetto favorito del cardinale Richelieu e inoltre premier architecte di Louis XIII. Va riconosciuto che le ricerche su Le Mercier sono sempre state scoraggiate e ostacolate da alcune difficoltà concrete e insormontabili, quali la quasi totale assenza di scritti, il difetto di disegni di sua mano, come la distruzione di gran parte delle sue architetture. Lo stretto rapporto con Richelieu ha poi finito, paradossalmente, per rivelarsi un elemento a suo sfavore, poiché la personalità del cardinale e ministro ha spesso messo in ombra quella del suo architetto, ridotto a semplice esecutore delle volontà del suo committente: anche di recente, ci si è interrogati sull’esistenza di uno style Richelieu.

    Alcuni indizi, neppure troppo difficili da individuare, lasciavano supporre, tuttavia, che Le Mercier dovette essere una figura tutt’altro che secondaria nella cultura architettonica francese.

    «S’il n’etoit pas le Vitruve de son temps, du moins en-etoit-il le Palladio» scriveva di lui intorno alla metà del 1600 Henri Sauval³⁷, che proseguiva con l’elencarne le virtù morali e la capacità intellettuali, ricalcando definizioni vitruviane; un secolo più tardi Mariette, nel suo Abecedario³⁸, lo descrisse come «fort studieux et disinteressé»: per entrambi, il suo nome era legato a realizzazioni nelle quali aveva dato prova di conoscere a fondo le leggi del costruire, ma soprattutto «les ouvrages des anciens», considerazioni che possono trovare conferma, oggi, nell’osservazione di ciò che resta, pur se è davvero poco, della sua architettura.

    Una ponderosa monografia, da ascrivere alla ripresa dell’interesse della storiografia francese per l’attività degli architetti operanti specie a Parigi tra la fine del Cinquecento e la prima metà del Seicento, ha infine rimediato all’oblio³⁹. Tuttavia, lo studio qui condotto (in momenti che precedono o coincidono con la redazione della monografia ricordata) su specifici momenti della sua biografia professionale —dal suo coinvolgimento in alcune polemiche del tempo, alle sue relazioni personali, alla ricostruzione del suo profilo intellettuale condotta attraverso l’analisi della sua ricca biblioteca— non ha, spero, perso significato, per gli interrogativi che propone, specie nella prospettiva di uno sguardo gettato, letteralmente, dall’Italia alla Francia.

    Il racconto e l’episodio dal quale qui, nel primo capitolo, si prende avvio — la querelle sulla facciata della chiesa gesuita di Saint-Louis a Parigi — è stato a lungo considerato un esempio, in considerevole anticipo sui tempi, del conflitto fra Baroque e Classicisme, e perciò di una precoce affermazione dello stile francese, in contrapposizione alle sregolatezze d’oltralpe. L’episodio si presta perfettamente a fungere da introduzione al complesso insieme di problemi allora presenti in ambito architettonico, a partire dalle note in italiano che di esso lasciò Étienne Martellange, che ne fu principale interprete.

    Già a Roma alla fine del Cinquecento, frère gesuita divenuto poi l’architetto più importante dell’Ordine in Francia, Martellange si rimette al giudizio, come egli scrive, de «i più periti architetti di Parigi», tra i quali vi era certo anche Le Mercier: considerare le sue prese di posizione, il suo modo di intendere il riferimento all’antico e di interpretare la tradizione architettonica francese, è certo di aiuto per potersi avvicinare al pensiero del suo ‘collega’, Le Mercier, appunto.

    Il secondo capitolo è dedicato ai voyages d’Italie di Étienne Martellange e di Jacques Le Mercier, episodio nel caso di quest’ultimo mai analizzato in modo sistematico e qui affrontato utilizzando materiali editi e inediti, il che ha di seguito permesso di approfondire il problema della sua formazione e di attribuire il giusto peso alla sua conoscenza diretta dell’architettura italiana.

    E’ nel rapporto di Le Mercier, rientrato in Francia, con il cardinale Richelieu, che a mio parere dovevano essere ricercati gli esiti più interessanti del problema cui si accennava della ‘traslazione dei modelli’: collezionista di antichità e opere d’arte, erudito, fondatore di istituzioni celebri quali l’Acadèmie française, mecenate di letterati e artisti, Richelieu dette inizio ad un programma di autocelebrazione all’altezza del suo rango di ecclesiastico e di uomo di stato, in cui l’architettura fu chiamata a svolgere un ruolo fondamentale, in continuità, è spontaneo pensare, con un processo di emulazione di quanto accadeva nelle corti italiane e nella corte papale.

    Del rapporto fra Richelieu e Le Mercier, cui fa da premessa un sintetico resoconto della situazione architettonica e urbanistica della Parigi del primo Seicento, dal regno di Henri IV alla reggenza di Maria de Medici, fornisco qui, nel terzo capitolo, soltanto alcune notizie fondamentali, fatti i conti con la citata recente monografia, per insistere poi soprattutto su di un edificio, vale a dire la chiesa della Sorbona, oggi unica parte esistente del collegio disegnato per il proviseur, Richelieu, appunto. Mausoleo del cardinale, considerata semplice imitazione della chiesa del tipo della Controriforma, troppo ‘romana’ nell’aspetto per destare qualche curiosità fra quanti, per il Seicento, ricercano declinazioni originali e interessanti del classicismo francese, la chiesa è qui stata restituita al significato che assunse quando fu realizzata. Se oggi non pare molto diversa dall’architettura religiosa ripetitiva e uniforme del secondo Cinquecento italiano, acquistò al contrario in Francia il valore di esempio da imitare —è forse un caso se la chiesa di Val-de-Grâce, il cui progetto iniziale è di François Mansart, il Collège des Quatre-Nations di Louis Le Vau e la chiesa degli Invalides di Jules Hardouin Mansart la ricordano così tanto?— di modello di architettura ‘all’antica’.

    La chiesa della Sorbona riconduce indirettamente, però, anche a un altro aspetto della cultura degli architetti francesi del ‘600, vale a dire alla componente scientifica e alle conoscenze matematiche, che forse ne costituiranno di lì a poco l’aspetto più specifico e innovativo: tra gli appareilleurs dell’edificio (tutto in pietra) alle dipendenze di Jacques Le Mercier, vi fu infatti Jacques Curabelle, il quale scatenò in quegli stessi anni una violenta polemica contro Girard Desargues e la sua Manière universelle touchant la praticque du trait à preuues pour la coupe des pierres en l’Architecture.

    Cultura pratica di un maçon contro il sapere dell’architetto? La mia ricerca, che pure si è aperta con il racconto di una querelle sullo ‘stile’, poteva estendersi a una polemica di tutt’altro segno, e che fu la premessa di importanti mutamenti, ma quest’ultima è stata infine solo accennata e, chissà, potrà forse costituire l’inizio di lavori futuri. E’ sembrato importante ricordarla, tuttavia, perché lo stesso Le Mercier, ora se ne può essere certi, condivise tali problemi e, si può dire, la sua figura e la sua opera sembrano porsi in un punto chiave, posto tra gli ultimi esiti della cultura architettonica rinascimentale e gli inizi di un atteggiamento di tipo nuovo, che prelude tanto allo scientismo e allo scetticismo di Perrault, quanto al sapere sistematico degli accademici.

    Ne ha fornito la prova un documento conservato a Parigi presso gli Archives Nationales, individuato, ritrovato e qui analizzato in modo sistematico: si tratta dell’ inventaire après déces stilato nel 1654 dopo la morte di Anne Marigny, moglie di Jacques Le Mercier, ma che in realtà comprende tutti i beni di proprietà del marito, scomparso soltanto qualche settimana prima. Forse noto a qualche studioso, ma mai sottoposto a uno studio approfondito né citato o utilizzato, l’inventaire in questione ha costantemente accompagnato la ricerca: la vasta collezione di dipinti, disegni e stampe, di frammenti di marmi antichi e, soprattutto, il numero di libri sulle antichità romane, di trattati d’architettura italiani del XVI secolo e di commenti a Vitruvio, di volumi en italian come di volumi che lasciano intuire interessi da erudito, hanno confermato le ipotesi relative alla sua formazione e alle sue conoscenze, come pure quelle relative al suo ruolo di architetto del re e di interprete dei programmi del cardinale-bâtisseur. La collezione di strumenti scientifici, i libri sull’arte militare e le fortificazioni, i testi di autori classici di matematica e geometria hanno però riproposto costantemente all’attenzione altri aspetti della sua cultura ed, evidentemente, hanno fatto pensare con rammarico a quali e quante parti del suo lavoro non c’era tempo di prendere in considerazione. Gli spunti forniti, naturalmente, non si fermano a questo, e comprendono ipotesi, ora possibili, sulle sue posizioni nel campo del pensiero filosofico e religioso, oppure ipotesi sui rapporti che potrebbe aver intrattenuto con alcuni influenti personaggi del tempo.

    Nel quarto capitolo ritornano i nomi di Jacques Le Mercier e di Étienne Martellange, così come il riferimento ai due edifici che più godettero all’epoca la fama di modelli francesi della nuova architettura: la cappella della Sorbona, già citata, e la chiesa del Noviciat dei Gesuiti, in considerazione anche degli scritti pubblicati in onore, più che degli architetti, di coloro che ne avevano promosso la costruzione. L’attenzione non poteva che andare, per i legami diretti con Richelieu, e per essere stato il committente e finanziatore del Noviciat stesso, al ruolo svolto da François Sublet de Noyers, dopo che egli, già segretario alla guerra e fedele dello stesso cardinale Richelieu, per il quale seguì alcuni cantieri, nel 1638 fu chiamato a ricoprire la carica di sovrintendente alle costruzioni reali.

    Non mancano gli studi sulla ‘politica culturale’ del regno di Louis XIII⁴⁰, e la stessa biografia di Sublet ha conosciuto un recente aggiornamento⁴¹. Il suo nome è piuttosto noto agli storici dell’arte, poiché ricorre quando vengono ricordati i suoi cugini, nonché suoi segretari e assistenti Roland Fréart de Chambray e Paul Fréart de Chantelou⁴², cultori d’arte e di architettura i cui nomi si intrecciano — nelle ricerche che hanno per oggetto le arti della metà del Seicento — con quelli di Nicolas Poussin e di Cassiano dal Pozzo, nonché degli ‘amici’ della Francia presenti a Roma.

    Tra gli episodi più citati, vi è la ‘missione’ a Roma, nel 1640, affidata da Sublet ai Fréart: i fatti sono noti, poiché essa ebbe per esito il ritorno a Parigi di Nicolas Poussin. Scopo precipuo della ‘missione’, tuttavia, oltre allo «ouvrir le chemin de France à tous les plus rares vertueux de l’Italie» — cosa che ai Fréart riuscì solo in parte — fu quello di portare in patria calchi, copie e, se il costo lo avesse permesso, gli originali «des plus excellents antiques, tant d’architecture que de sculpture»⁴³: calchi e originali avrebbero dovuto ornare le residenze reali, in particolare la Grande galerie del Louvre, la cui decorazione era stata affidata appunto a Nicolas Poussin, mentre a Roma ebbero modo di saldarsi i legami — le lettere inviate per l’occasione ad Antonio Barberini, cardinale ‘protettore’ della Francia, lo indicano chiaramente⁴⁴ — con i fedeli alla corte francese.

    Verso la fine del Seicento: un milieu filoitaliano a Parigi, nuovi episodi

    Tra gli esiti neppure troppo indiretti del rinnovato scambio con l’Italia e degli interessi artistici che esso implicava vi fu la pubblicazione — trascurando il già ricordato Trattato vinciano nonché alcune altre opere edite dall’Imprimerie Royale, anch’essa una ‘creatura’ di François Sublet de Noyers — di due volumi di architettura, editi entrambi a Parigi nel 1650: si tratta di Les Quatre Livres de l’architecture⁴⁵, ovvero della traduzione francese del trattato di Andrea Palladio, e del Parallèle de l’architecture antique avec la moderne⁴⁶. Com’è indicato nelle epistole dedicatorie di entrambi, essi sono da considerarsi il risultato della preoccupazione condivisa da Sublet con i Fréart di «faire connaître […] la noblesse de l’architecture regulière», di cui Le Mercier e Martellange erano considerati precoci paladini, e sono messi in relazione con il ruolo svolto dal sovrintendente nei grandi cantieri delle residenze reali, innanzitutto in quello del Louvre.

    A una lettura attenta, non sfugge però che le epistres dedicatorie sono venate di nostalgia: al momento della loro pubblicazione, nel 1650, Sublet era scomparso già da cinque anni e, in seguito, i Fréart non riuscirono ad ottenere una posizione di rilievo nella gestione degli affari artistici presso la corte di Louis XIV; la traduzione di Palladio, aggiungiamo, fu materia e base delle prime discussioni in seno all’Accademia reale di architettura, nata nel 1671⁴⁷, ma scarso o perlomeno contraddittorio fu il seguito del palladianesimo in Francia⁴⁸.

    Nell’intento di valutare e di verificare ancor più a fondo, nell’ambito dell’architettura, la consistenza del ‘lascito’ di Sublet e le conseguenze delle teorie artistiche dei Fréart, l’attenzione non poteva che cadere su Charles Errard — non rientra però nei nostri fini riscriverne la biografia artistica, intento già assolto dall’ampio e approfondito lavoro di Emmanuel Coquery⁴⁹ — che a pieno titolo va inserito, accanto ai Fréart, nella cerchia di Sublet e tra gli ‘intelligenti’ di architettura raccolti intorno al sovrintendente. Pittore, decoratore, presente a Roma a più riprese, fino alla nomina di primo direttore dell’Accademia di Francia, carica che lo occupò quasi senza interruzioni dal 1666 al 1683, Charles Errard aveva accompagnato i Fréart nelle ‘missioni’ romane, impegnato nel ridisegno di sculture e frammenti di antichità, attività di cui non solo il Parallèle — fu Errard a disegnarne le tavole — reca tracce significative, ma di cui restano importanti testimonianze nei recueils conservati oggi presso l’école Nationale Supérieure des Beaux-Arts⁵⁰ e la Bibliothèque de l’Institut⁵¹, nonché

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