Eroi dimenticati
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Eroi dimenticati - Paolo Fiorino
Lucchini.
1 (1° aprile 1940)
L’attendente del comandante fermò l’auto di servizio davanti all’ingresso dell’aeroporto militare di Gorizia. Il piantone si avvicinò e controllò rapidamente gli occupanti dell’automobile, poi fece un cenno di assenso e il veicolo poté proseguire.
«Scendiamo qui» disse uno dei passeggeri, il tenente Lucchini, un giovane pilota dal viso ovale con i capelli neri e le labbra sottili, rivolgendosi all’attendente pochi istanti dopo che l’auto aveva superato l’ingresso.
«Non volete che vi porti fino alla palazzina comando?» domandò il conducente.
«No, preferiamo dare un’occhiata in giro» rispose il giovane, sorridente. Essere finalmente tornato allo Stormo, dopo il brutto periodo di prigionia che aveva vissuto, lo rendeva felice, e non ne faceva mistero.
I due passeggeri scesero, poi l’auto ripartì e i due si avviarono lungo il vialetto centrale. Camminando con calma svoltarono a sinistra, passando tra l’aviorimessa Lancini e l’autorimessa, e raggiunsero la palazzina del comando di Stormo.
Si fermarono a dare un’occhiata alla pista di decollo, che era poco più di un vasto prato falciato stretto a sinistra dalla valle dell’Isonzo e a destra da una fila di basse costruzioni formata dall’officina III tipo
, dall’aviorimessa della ricognizione e dal magazzino dei Materiali Speciali Aeronautici.
«Non è cambiato niente in nostra assenza» disse Lucchini con il suo accento marcatamente romano, che faceva sempre sorridere il suo amico.
«Già, qui c’è la solita aria di famiglia» rispose Guiducci, che teneva disinvoltamente le mani in tasca.
Lucchini annuì. Il Quarto Stormo era la sua casa e il volo la sua passione oltre che la sua unica ragione di vita fin da quando, da bambino, era stato stregato dai racconti delle vicende di alcuni aviatori amici di suo padre, che lo avevano ispirato a entrare nella Regia Aeronautica e a proseguire la sua carriera fino all’avventura dell’Aviazione Legionaria nella guerra di Spagna.
Entrarono nella palazzina comando in perfetto silenzio come se, dopo la loro prolungata assenza, ritrovare quell’ambiente, un tempo familiare, li facesse sentire fuori posto, quasi come stranieri nella loro stessa casa.
«Ecco i nostri due magnifici eroi!» li accolse, allegro, Maggini, il comandante della Novantesima Squadriglia, alla quale erano stati assegnati, andando loro incontro nell’atrio della palazzina.
I due giovani sorrisero e l’iniziale imbarazzo scomparve all’istante davanti all’accoglienza spontanea e calorosa che avevano appena ricevuto. Dopo il duro periodo che avevano trascorso in Spagna, per loro era un enorme sollievo ritrovare luoghi, voci e volti familiari.
«Renzo, che piacere rivederti!» esclamò Lucchini.
«Il piacere è tutto mio» rispose Maggini, stringendo vigorosamente le mani di entrambi. «E così finalmente siete di nuovo tra noi.»
«La prigionia è stata lunga, ma abbiamo la pelle dura.»
«Poi mi racconterete tutta la storia, ma ora dobbiamo andare a fare un giro della squadriglia. Ci sono molti ragazzi nuovi che dovete conoscere.»
«Io però sono impaziente di rimettermi ai comandi» disse Lucchini. «Quando possiamo cominciare?»
«Domani. Farete un volo con Corsi, doppi comandi, tanto per togliere un po’ di ruggine.»
«Doppi comandi? Ci hai presi per du’ bischeri?» sbottò Guiducci, sinceramente risentito per quel trattamento inaspettato. «Franco è un asso, in Spagna ha abbattuto cinque repubblicani!»
«Sì, lo so» replicò Maggini, che sapeva bene che quando la parlata di Guiducci si coloriva di espressioni toscane il suo amico era sul punto di perdere le staffe. «Ma non dimenticate che avete fatto sei mesi di prigionia. Un giorno in più non farà differenza e poi lo sapete anche voi che per quanto mi riguarda il volo con i doppi comandi è solo una formalità.»
«Va bene, va bene» sbuffò Lucchini. «Se proprio dobbiamo, vorrà dire che per questa volta faremo i cadetti.»
«I bischeri, Franco, i bischeri!» scherzò Guiducci, che in pochi minuti aveva superato l’iniziale irritazione.
Lucchini sorrise e disse, facendo il verso all’amico: «I du’ bischeri al vostro servizio, capitano!»
«Molto bene, vedrete che presto sarete di nuovo in linea.»
«I CR 42 non hanno segreti per noi» commentò Guiducci, sorridendo. Il suo innato ottimismo aveva già avuto la meglio sulla delusione.
«A proposito, dove li avete messi? Non ho visto aerei sulla pista» fece eco Lucchini.
«Li abbiamo decentrati quasi tutti. Nell’aviorimessa sono rimasti solo quelli in riparazione.»
«Ma perché? Siamo non belligeranti.»
«Forse è un eccesso di prudenza, ma il comandante preferisce non farsi trovare impreparato in caso di dichiarazione di guerra.»
«È nell’aria, vero?»
«Si dice che Mussolini morda il freno, staremo a vedere. Tornando a noi: a pranzo sarete ospiti della mensa degli ufficiali superiori.»
«Sarà un vero piacere, sono molto curioso di sapere tutto quello che è successo in nostra assenza» disse Lucchini.
«Ce ne sono di cose da raccontare! Ma ora basta parlare, vi accompagno all’ufficio matricola per la registrazione e l’assegnazione dei vostri alloggi.»
2 (2 aprile 1940)
La notte era trascorsa in un lampo e la mattina, la prima che li vedeva di nuovo impegnati allo Stormo, l’aveva rimpiazzata quasi senza che se ne rendessero conto. Il Fiat CR 30 biposto da addestramento li attendeva sulla pista, davanti all’aviorimessa Lancini. Era un biplano piuttosto piccolo ma era pur sempre un gran bell’aereo, compatto e robusto, una macchina che aveva fatto la storia dell’aviazione italiana.
Lucchini ammirò la linea pulita della fusoliera, formata da tubi di metallo rivestiti di tela, terminata a prua da una snella elica bipala, e la configurazione delle ali, anch’esse rivestite di tela, con le superiori più grandi delle inferiori.
Il sergente istruttore Corsi li attendeva vicino al biplano con due meccanici che stavano trafficando sotto il cofano del motore dodici cilindri.
Corsi era un ragazzo snello, alto quasi quanto Guiducci e biondo, estremamente riservato.
«Ciao Corsi, come va?» lo salutò Lucchini, tentando di far sentire a suo agio l’istruttore.
Il sergente sorrise timidamente, visibilmente imbarazzato per la confidenza con cui Lucchini lo aveva appena trattato. «Bene, grazie tenente. Vogliamo cominciare?»
«Non perdi tempo, vero?» rispose Guiducci.
«No, se posso evitarlo. Chi di voi sale per primo?»
«Vengo io» disse Lucchini, facendosi spavaldamente avanti. Il giovane tenente non vedeva l’ora di tornare a volare.
Guiducci, che era impaziente quanto lui, fece una smorfia ma, ben conoscendo la smania di Lucchini di riemettersi ai comandi, gli lasciò la precedenza senza fare commenti.
Il motore del biplano si avviò, attirando l’attenzione dei piloti con il suo rumore profondo che rimbombava nelle loro orecchie e che allo stesso tempo li rassicurava con la sua familiarità. Un meccanico richiuse il cofano e si sedette ai comandi nel posto anteriore poi fece salire lentamente i giri del dodici cilindri fino a fargli raggiungere il regime ottimale per il riscaldamento.
Dopo qualche minuto il meccanico si rivolse a Corsi dall’abitacolo: «Sergente, l’aereo è pronto al decollo.»
«Grazie» rispose l’istruttore, facendo un rapido cenno a Lucchini.
Il meccanico scese dal velivolo e il pilota prese il suo posto ai comandi, poi Corsi si accomodò sul sedile posteriore.
Un altro meccanico si avvicinò e tolse rapidamente i tacchi di arresto dalle ruote dell’aereo.
«Bene, facciamo le verifiche di routine poi decolliamo e facciamo qualche passaggio sulla pista» disse Corsi, alzando la voce per sovrastare il rumore che proveniva dagli scarichi. «Vi ricordate i parametri del motore?»
«È passato un po’ di tempo dall’ultima volta che ho pilotato uno di questi, ma credo di ricordare ancora qualcosa» scherzò Lucchini, che, anche se non lo avrebbe mai ammesso, aveva trascorso gran parte del pomeriggio e della sera precedente a ripassare il manuale del velivolo per rinfrescarsi la memoria. Anche se cercava di non darlo a vedere, non era del tutto sicuro di aver superato gli eventi drammatici che suo malgrado aveva dovuto vivere. Nei giorni precedenti si era spesso domandato se dopo l’abbattimento e la prigionia avrebbe ancora avuto la serenità necessaria a pilotare un caccia o se l’esperienza vissuta in Spagna lo avesse privato del suo sangue freddo. Avrebbe convinto Corsi o avrebbe miseramente fallito? La domanda rimbalzava nella sua testa dalla chiacchierata con Maggini del giorno prima, e ora che si ritrovava ai comandi il dubbio era diventato ancora più pressante e angoscioso.
Il rombo del motore Fiat da seicento cavalli permeava l’aria e quel profondo brontolio metallico faceva crescere ancora di più in lui la voglia di tornare tra le nuvole, il luogo a cui sentiva di appartenere davvero, ma anche il timore per la prova che lo attendeva e che poteva decidere del suo futuro.
«Bene, allora, quando siete pronto, andiamo.»
Le parole di Corsi ebbero l’effetto di spazzare via in un solo attimo tutta l’ansia e l’incertezza accumulata. Nel momento stesso in cui il sergente aveva decretato che il momento di dare prova delle sue capacità era arrivato, ogni dubbio era sparito e Lucchini si era sentito improvvisamente tranquillo e perfettamente padrone della situazione. Il tenente alzò il pollice per comunicare all’istruttore che aveva capito. Diede una rapida occhiata al misuratore di pressione dell’olio, regolò il limitatore di alimentazione in posizione di rullaggio, poi tolse i freni e manovrò il biplano per portarlo sulla pista. La manetta del motore e la leva di comando gli trasmettevano una sensazione di profonda gioia mentre le accarezzava in quell’abitacolo stretto e scomodo, aperto e appena protetto dal basso parabrezza, nel quale ora si sentiva di nuovo come a casa. Adesso era certo che i sei mesi di prigionia non lo avessero minimamente scalfito e che presto lo avrebbe dimostrato.
Quando il biplano raggiunse la pista, senza attendere Lucchini frenò con decisione fino a fermarlo del tutto. Portò il limitatore di alimentazione in posizione di decollo poi afferrò la manetta e diede potenza al motore. Mise giù i flap di quindici gradi e tolse i freni.
Il velivolo accelerò, all’inizio dolcemente poi sempre più in fretta, sotto la spinta potente dell’elica, e si staccò agilmente da terra a metà pista.
Lucchini mise il limitatore di alimentazione in posizione di salita e portò a zero i flap. In pochi minuti il biplano raggiunse la quota prevista. Il pilota regolò il comando dell’aria dei tre carburatori, verificò la pressione dell’olio motore, poi impostò un’ampia e dolce virata a sinistra e si preparò a scendere per un passaggio a media quota sulla pista. La sensazione dell’aria che sferzava il suo viso cancellò in solo istante tutti i brutti ricordi che si portava dentro da quando era tornato dalla Spagna.
Spinse in avanti la cloche e diede motore, facendo scendere il biplano in una brusca picchiata che gli fece guadagnare velocità, poi tirò la cloche e fece impennare il velivolo facendogli compiere un mezza gran volta che concluse con un mezzo tonneau a sinistra.
Al termine della manovra l’aereo volava a qualche centinaio di metri di quota in più e in direzione opposta rispetto all’inizio della picchiata.
«Congratulazioni, signori» dichiarò Maggini. «Corsi è stato molto soddisfatto della vostra prova e vi ha dichiarati entrambi idonei al servizio. Domani comincerete un ciclo intensivo di voli in solitaria sui CR 42.»
«Non avevo dubbi» commentò Guiducci, sorridendo. «Una volta che ti sono spuntate le ali, non le perdi più.»
«Adesso vedi di non vantarti troppo solo perché non siete più bischeri!» lo rimbrottò scherzosamente Maggini, rievocando la discussione del giorno prima.
«Di’ pure che mezzo stormo se ne stava con il naso all’insù ad ammirare le nostre acrobazie» insistette Guiducci.
«È vero. La virata Immelmann di Franco è stata perfetta. Magari un po’ eccessiva per un primo volo di riscaldamento, ma pur sempre perfetta.»
Lucchini tirò un sospiro di sollievo. I complimenti del comandante di squadra gli facevano piacere, ovviamente, ma la cosa che contava di più in quel momento era l’aver superato in un solo giorno la paura di non poter tornare a volare. Con qualche ora di allenamento sarebbe stato alla pari di tutti gli altri piloti, pronto a tornare in azione al servizio della patria. Quella era l’unica cosa che contasse per lui in quel momento.
3 (Aprile 1940)
Era un tiepido sabato mattina di primavera e la luce ancora pallida del sole illuminava a stento la piccola sala da pranzo. In quell’ambiente familiare Manzini se ne stava seduto di fronte alla giovane moglie che rigirava nervosamente tra le mani la cartolina precetto.
Per la donna quel pezzo di carta, quel piccolo pezzo di carta su cui spiccava il nome del marito, scribacchiato di fretta, assieme probabilmente ad altre centinaia, da un anonimo furiere, era la concretizzazione dei suoi peggiori incubi. Zelmira guardava la cartolina come se questa portasse con sé la rovina della vita che si stavano costruendo con infinita pazienza e grande fatica.
«Prima o poi doveva succedere» disse Franco. «Lo sapevamo da quando mi hanno fatto abile alla visita di leva.»
Zelmira annuì, trattenendo a stento una lacrima. «Sì, però speravo lo stesso che non ti richiamassero.»
«Non piangere, sono sicuro che andrà tutto bene.»
«Ma starai via per un anno e io come farò da sola?» singhiozzò Zelmira, ormai incapace di trattenere le lacrime. «Siamo sposati da così poco tempo e già devo fare a meno di te.»
«Un anno passa presto» rispose Franco. «Tornerò a casa ogni volta che portò e ti manderò tutti i soldi che riuscirò a risparmiare. Vedrai che ce la faremo.»
Zelmira, che si sentiva schiacciata dall’apprensione che la tormentava, si asciugò una lacrima e sospirò. «E come faremo con il tuo lavoro? Quanto potremo tirare avanti con i tre giorni di paga del risarcimento?»
«Non preoccuparti, quando ho fatto la visita di leva il principale mi ha detto che gli piace come lavoro. Ha detto che operai specializzati come me non se ne trovano tanti in giro e che quando finirò il servizio militare mi riprenderà subito con lui.»
«Davvero? Non me lo avevi detto. È proprio una brava persona» disse piano Zelmira, abbassando lo sguardo per non far vedere al marito le lacrime che stentava a trattenere e delle quali si vergognava.
«Sì, lo è davvero. Non te ne avevo parlato prima perché non volevo farti pensare alla mia partenza. Andrà tutto bene, te lo prometto.»
«Lo spero, ma ho paura» rispose Zelmira. «Se andrai in guerra ne morirò.»
Franco fece un passo avanti e abbracciò la moglie. Respirò piano per qualche secondo, rapito dal suo profumo, poi disse, nel tentativo di rassicurarla: «Vedrai che non succederà niente, il Duce vuole restare neutrale. Farò il mio anno di leva e me ne tornerò a casa e nel frattempo la guerra in Europa sarà già finita da un pezzo.»
«Ne sei sicuro?» chiese Zelmira, speranzosa.
«Sì» mentì Franco. Non poteva certo dire alla giovane moglie ciò che pensava davvero: che il Patto d’Acciaio che Mussolini aveva stipulato con Hitler sanciva un obbligo, che la non belligeranza dichiarata dal Duce non poteva durare ancora a lungo e che il conflitto che stava infiammando l’Europa presto avrebbe travolto anche l’Italia.
«Speriamo che tu abbia ragione» commentò Zelmira, con una voce incerta che tradiva tutta la sua emozione. Voleva disperatamente credere alle parole del marito anche se, in cuor suo, sapeva con certezza che per loro nulla sarebbe mai più stato come prima.
4 (8 maggio 1940)
Il sole era ancora basso nel cielo e l’aria fredda e pungente del mattino faceva rabbrividire i soldati mentre il colonnello Migani passava metodicamente in rassegna la compagnia schierata nel piazzale per la cerimonia dell’alzabandiera.
L’ufficiale comandante camminava con lentezza davanti alle file di soldati e osservava con attenzione ogni uomo mentre Manzini cercava di restare immobile, in una delle file centrali, reggendo con la mano destra il moschetto poggiato con il calcio a terra. A un mese dall’inizio del suo servizio di leva la sua maggior preoccupazione era ancora quella di evitarsi inutili problemi: farsi sorprendere dal colonnello con la camicia sgualcita o con la barba mal fatta avrebbe potuto fargli perdere la possibilità di ottenere i giorni di licenza che desiderava e quella, per lui che contava le ore che lo separavano dalla prossima volta che avrebbe rivisto Zelmira, sarebbe stata una delusione troppo grande.
Il colonnello raggiunse la fila nella quale era inquadrato Franco, esaminò con attenzione maniacale ogni singolo uomo e, dopo qualche interminabile minuto, passò oltre. Il soldato rilassò i muscoli, stando ben attento a non muoversi dalla sua posizione. Il colonnello uscì dallo schieramento e diede ordine a un tenente, che lo seguiva a un passo di distanza, di far rompere le righe. Il tenente strillò l’ordine e i soldati furono lasciati liberi di andare alla mensa per la colazione.
Franco si incamminò in fretta, perché sapeva che, se avesse tardato troppo, avrebbe mangiato solo gli avanzi dei suoi commilitoni. Attraversò il piazzale di corsa fino all’armeria, dove riconsegnò il moschetto e poi, a passi veloci, si diresse verso la mensa. Dopo qualche secondo si trovò in fila con tanti altri soldati, giovani come lui, che avevano dovuto lasciare tutto ciò che avevano per il servizio di leva. Quasi tutti avevano una famiglia che si sarebbe trovata in difficoltà, ma questo alla patria non interessava. Con la guerra che pareva in procinto di travolgere da un momento all’altro anche l’Italia, ogni singolo uomo era necessario e nessun sacrificio poteva essere considerato eccessivo. Il brusio delle chiacchiere dei soldati era un sottofondo quasi ipnotico.
Davanti a lui c’era un ragazzo di Pavia, un tipo simpatico e chiacchierone, che era stato assegnato al suo stesso plotone e in camerata aveva occupato la branda sopra la sua. Non appena lo vide, il ragazzo, che teneva in mano una busta, lo salutò: «Ciao Franco».
«Ciao Italo. Cos’hai lì? Hai ricevuto la posta?»
«Sì, è arrivata stamattina presto con un camion, ma ancora non è stata distribuita.»
«E tu allora come fai ad averla già?»
«Ho un amico in fureria che me la tiene da parte.»
«Al solito! Voi di Pavia... tutti furbi!»
«Ma quale furbo! Se fossi furbo adesso me ne starei a casa invece che qui con te! Sono solo un po’ impaziente. La mia Carla mi scrive ogni giorno!»
«Sei fortunato.»
«Puoi dirlo forte! Quando la naia sarà finita, la sposerò.»
«Fai bene, se no quando ne trovi un’altra?»
«Voi milanesi... tutti comici, come Macario!»
«Bamba, guarda che Macario è torinese!»
«Fa lo stesso!»
La fila verso la mensa avanzava lentamente, l’aria mattutina era fresca e Manzini rabbrividiva per la leggera brezza. Nella sua mente si affollavano i pensieri più disparati, ma su tutti svettava quello della moglie che lo attendeva a casa. Era passato solo un mese, che gli era pesato quasi quanto un anno intero, e almeno altri undici ne sarebbero dovuti trascorrere prima che potesse tornare una volta per tutte da lei. Non si capacitava di quanto gli mancasse la sua vita di tutti i giorni, di quanto si sentisse irrazionalmente in colpa verso Zelmira per il fatto di essere lontano, anche se sapeva che tutto quello che stava facendo non dipendeva da lui e non poteva essere evitato.
Consumò rapidamente la colazione, poi tornò in fretta verso la camerata dove trovò il caporale di giornata che aveva iniziato a distribuire la posta.
Dopo aver atteso pazientemente il suo turno, ritirò una lettera e si diresse verso la sua branda. Si sedette e dalla busta, lasciata aperta per la censura, tirò fuori un foglio vergato con la calligrafia minuta e precisa della giovane moglie.
Iniziò a leggere con un pizzico di curiosità e proseguì con emozione crescente fino alla fine della pagina, poi, incredulo, riprese dalla prima parola e rilesse tutto quanto, per essere sicuro di aver capito bene.
Alla fine della seconda lettura, ancora stordito dalla sorpresa, si alzò. Sdraiato sulla branda sopra la sua c’era il suo amico. Franco lo strattonò e gli disse, travolto dall’entusiasmo: «Italo! Sto per diventare padre!»
Il ragazzo si mise svogliatamente a sedere sul bordo della branda e lo fissò. «Che bella notizia, congratulazioni!»
«Grazie» rispose Franco, che ancora non aveva compreso del tutto la portata di ciò che gli stava accadendo.
«Ragazzi, Manzini ha ricevuto la notizia che diventerà padre!» disse il giovane, rivolgendosi ad alta voce agli altri compagni di camerata.
La mente di Franco era altrove e così il giovane soldato quasi non si accorse degli altri uomini che si avvicinavano per fargli le loro congratulazioni. La nascita di un figlio era una notizia bellissima ed entusiasmante ma dopo il primo momento di euforia la sua mente aveva cominciato a considerare la questione da un punto di vista più razionale e la sua contentezza era rapidamente stata offuscata dalla preoccupazione. La guerra, anche se al momento era solo una minaccia, stendeva già la sua lunga ombra sulla sua esistenza. Cosa ne sarebbe stato della sua famiglia se il conflitto si fosse allargato anche all’Italia? Come se la sarebbero cavata durante la sua permanenza al fronte? In quel momento non poteva fare molto e preoccuparsi ulteriormente non avrebbe giovato. L’unica cosa che poteva fare era godersi la felicità scacciando, per quanto poteva, i pensieri nefasti.
Si riscosse dal limbo in cui le sue riflessioni lo stavano spingendo e si lasciò andare alle strette di mano e alle pacche sulle spalle che i suoi compagni di camerata gli stavano elargendo senza parsimonia.
5 (6 giugno 1940)
Gli ultimi due mesi al Quarto Stormo, tra voli ed esercitazioni, erano stati intensi per Lucchini