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Sguardo inquieto
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Sguardo inquieto

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About this ebook

Il dottor Masselli è un pediatra di mezz’età, lavora all’ospedale infantile Regina Margherita di Torino, svolge la libera professione nel suo studio, è sindaco in un paese della cintura, è sposato e ha una figlia. La sua vita scorre come tante sino a quando la sua assistente lo trova morto, nello studio: evirato e finito con un bisturi nel cuore.
Il commissario Cantamessa è incaricato del caso e con l’ispettore Raimondi inizia a scavare nella vita del medico. Suppongono subito che l’omicidio sia stato commesso da una donna, non tanto gelosa, quanto infuriata.

Mentre il commissario Cantamessa indaga sull’omicidio del dottor Masselli, l’ispettore Raimondi cerca di far luce su un’esplosione in un centro commerciale che ha provocato quattro morti, molti feriti e portato alla luce un cadavere, murato anni prima nelle fondamenta dello stabile, originariamente adibito a fabbrica di biscotti e poi riqualificato.
Nell’esplosione è coinvolta anche Emma, la donna che il commissario frequenta da qualche tempo...

Donatella Garitta Saracino, vive a Torino.
Giornalista, dirige il periodico culturale Il Salotto degli Autori.
Collabora con la Federazione Malattie Rare e con l’associazione Prader Willi.
Ha pubblicato il romanzo storico IL RIO RACCONTA, una storia del ‘600.
LanguageItaliano
PublisherCarta e Penna
Release dateApr 30, 2017
ISBN9788869320286
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    Sguardo inquieto - Donatella Garitta Saracino

    Il Libro dei Racconti di Carta e Penna

    Tutti i diritti riservati - All rights reserved

    Copyright © by Donatella Garitta Saracino

    Realizzato da

    Associazione Culturale

    Carta e Penna

    10138 Torino - Via Susa, 37

    www.cartaepenna.it

    cartaepenna@cartaepenna.it

    Tel.: 011.434.68.13

    ISBN: 978-88-6932-028-6

    Prima edizione: marzo 2015

    Alla mia famiglia

    che mi ama

    così come sono

    Lo sai tu da chi sei nato?

    Non lo sai.

    E non sai che i tuoi genitori ti odiano, 

    chi è sotto terra, morto, e chi è sopra la terra, vivo;

    e che un giorno la Maledizione, come un’arma a due tagli, 

    la maledizione di tuo padre e di tua madre,

    t’inseguirà col suo piede tremendo e da questa terra ti scaccerà: 

    te che ora vedi chiaro e diritto, e dopo vedrai tenebra solamente…

    (Sofocle, Edipo Re)

    Ho ucciso. 

    In maniera premeditata, per odio e vendetta. 

    L’ho fatto con perizia, cercando di non lasciare nulla al caso; ho curato tutto nei minimi dettagli ma proprio un dettaglio, quasi insignificante, ha portato gli inquirenti ad arrestarmi e condannarmi.

    Presto lascerò la prigione, per sempre, e avrò quella libertà a lungo desiderata e che speravo di raggiungere eliminando la persona che mi aveva a lungo fatto soffrire.

    Quando la mia vittima ha esalato l’ultimo respiro e ho realizzato che tutto era terminato ho provato sollievo e poi… smarrimento.

    Ho lasciato la casa, con prudenza; era notte e non c’era molta gente in giro. Ho percorso un paio di isolati, sino alla mia auto e ho raggiunto casa mia, dall’altra parte della città. Ho fatto la massima attenzione, sarebbe stato il colmo farsi fermare dalla polizia o dai carabinieri dopo aver ucciso qualcuno. Avevo i brividi, la tensione nervosa si stava allentando e il mio corpo reagiva in modo diverso dal previsto, non riuscivo a controllarlo. 

    A casa tolsi gli abiti, la biancheria, le scarpe, le calze e misi tutto in un sacco nero dell’immondizia, di quelli spessi; indossai una tuta, scarpe da ginnastica e scesi in strada; misi il sacco nel bidone della spazzatura…, dopo qualche ora sarebbe passato il camion a raccoglierla e tutto sarebbe stato distrutto. 

    Tornai nel mio appartamento, due stanze in uno di quei palazzoni anonimi che ospitano tanta gente, senza per questo accoglierla. Conoscevo di vista qualche altro condomino ma schivavo intenzionalmente ogni contatto che potesse impegnarmi in conversazioni o incontri prolungati.

    Erano le tre del mattino e decisi di prendere delle gocce di Lexotan per calmarmi e dormire qualche ora, prima di cominciare una nuova giornata. Non fecero subito effetto, stentai a piombare in quel sonno profondo che, per qualche ora, sgancia la mente dalla realtà.

    Al risveglio il primo pensiero, come tutte le mattine da tanto tempo ormai, era per la persona che  mi aveva rovinato la vita e, per conseguenza, il sentimento di odio e vendetta che si univano a quell’individuo. Poi, appena ripresi contatto con la realtà, ricordai che non c’era più, era morto, l’avevo ucciso… non provai sollievo ma panico: e adesso? 

    Avevo trascorso tanto tempo a progettare la mia vendetta, nutrendomi di odio e rancore… e adesso? Sentivo un vuoto, una perdita inaspettata, quasi come se la sera prima con quell’uomo se ne fosse andata una parte di me. 

    Il piacere che pensavo potesse darmi il compimento della vendetta non c’era più, era durato pochi attimi; la soddisfazione di aver posto fine a una vita che giudicavo inutile, il pensiero che avevo giustiziato un boia, non erano sufficienti a colmare il vuoto che sentivo. 

    Mesi a progettare, modificare, pianificare il mio intento e poi… tutto finito… e adesso?

    L’odio e il risentimento, nutrendo la mia anima, l’avevano anche resa sterile; scomparso l’oggetto su cui avevo focalizzato tutte le mie attenzioni non restava nulla: amici, parenti, anche solo conoscenti… non ne avevo quasi più perché tutta la mia esistenza, per tanto tempo, era stata organizzata per raggiungere lo scopo che ora avevo raggiunto e, con grande sorpresa, si rivelava vuoto, senza quell’appagamento a lungo cercato. E adesso?

    Martedì, 9 febbraio 2010

    Vedendo il numero sul display del telefono, Veronica decise di non rispondere.

    Al terzo squillo partì la segreteria telefonica: Non posso rispondere, lasciate un messaggio, vi richiamerò. Dopo il breve segnale acustico una voce maschile disse: – Sono il dottor Albertini, il direttore sanitario della casa di riposo Stelle d’argento. Avrei bisogno di parlarle, ma i miei precedenti messaggi non hanno avuto esito. Questa è l’ultima telefonata; purtroppo qualche ora fa sua madre è deceduta. Se non avremo disposizioni provvederemo a organizzare la sepoltura nel cimitero comunale. –

    La comunicazione fu interrotta e la spia luminosa della segreteria iniziò a lampeggiare.

    Veronica pigiò il tasto per riascoltare il messaggio; lo riascoltò due, tre, quattro volte. Il tono di voce del dottore era formale, ma si sentiva, verso la fine, una nota di disappunto. 

    Aveva ascoltato, nell’ultima settimana, i messaggi che il medico aveva lasciato sulla segreteria ma non aveva mai richiamato e anche ora non aveva voglia di comporre il numero, di parlare con qualcuno, di sentire parole inutili, vuote, false.

    Sua madre era morta, un ciclo era finito, finalmente.

    Riascoltò ancora una volta il messaggio; la voce sintetica che lo precedeva enunciava giorno, data, ora dell’incisione. Avrebbe aspettato ancora un po’, una mezz’ora almeno, prima di richiamare. 

    Stava pensando a che cosa fosse meglio fare: darle sepoltura in quel cimitero, alla fine, era la soluzione migliore.

    Mentre poggiava la mano sul cordless, per richiamare la casa di riposo, inaspettatamente l’apparecchio squillò. 

    Veronica fece un balzo, istintivamente si ritrasse e al terzo squillo la sua voce riprese a dire: Non posso rispondere, lasciate un messaggio, vi richiamerò. 

    Dopo il breve segnale acustico un’altra voce maschile disse: 

    – Ciao Veronica, sono tuo padre. Mi hanno telefonato dalla casa di riposo, tua madre è morta qualche ora fa. Chiamami appena senti questo messaggio, dobbiamo organizzare il funerale. – 

    L’interruzione della comunicazione fece nuovamente lampeggiare la spia luminosa della segreteria telefonica.

    Veronica cancellò subito il messaggio, non aveva bisogno di riascoltarlo e non voleva sentire quella voce.

    Allungò nuovamente la mano verso il cordless e riuscì ad alzarlo dalla base, compose il numero della casa di riposo e chiese del dottor Albertini. 

    – Pronto… –

    – Sono Veronica Lerro, ho sentito il suo messaggio, che cosa devo fare? –

    – Buona sera signora, condoglianze. – La voce del medico risuonò piuttosto ostile alle orecchie di Veronica – Dovrebbe prendere contatto con un’agenzia di pompe funebri, organizzare il funerale; si potrà fare da domani, trascorso il tempo di osservazione previsto. –

    – Capisco – disse Veronica – domani mattina, verso le nove sarò lì, può andare bene? –

    – Sì, può andar bene, a domani. –

    – A domani. – ripeté Veronica.

    Appoggiò il cordless sulla base del telefono e si stese sul divano.

    Sua madre era morta, suo padre l’aveva chiamata, rovinandole quel momento di libertà che aveva iniziato ad assaporare, peccato. 

    Chiuse gli occhi e respirò profondamente. 

    Si allungò meglio sul divano, stese le gambe, alzò le braccia, cercò di allungarsi come le aveva spiegato l’istruttrice di fitness, per stendere muscoli e tendini; provò un sollievo piacevole nel distendere il corpo, allentando le tensioni che la portavano a contrarre, senza nemmeno accorgersene, gli arti e il collo. 

    Respirò di nuovo profondamente alcune volte e, come le accadeva sempre, quando respirava profondamente per qualche minuto, iniziò a sbadigliare. 

    Si sistemò meglio tra i morbidi cuscini del divano, aggiustò quello di piume sotto il capo e svuotò la mente da ogni pensiero. Restò stesa sul divano sino a che giunse il sonno.

    *****

    Piccoli cristalli di neve si posavano sulla bara di Maria; il funerale fu brevissimo: Veronica decise che non fosse necessaria alcuna funzione religiosa; l’insistenza del padre l’aveva costretta a far benedire la bara, prima di calarla nella fossa. 

    Quattro persone erano presenti, oltre alla figlia e all’ex marito: il prete, accompagnato da una delle donne che frequentavano abitualmente la chiesa e che faceva eco alle preghiere, un uomo che, dalla somiglianza poteva essere il fratello dell’ex marito, e l’infermiera che si era occupata negli ultimi tempi di Maria. Era una donna robusta, dipendente della casa di riposo da molti anni; aveva accompagnato altre volte i suoi pazienti nell’ultimo viaggio e non era la prima volta che si trovava vicino a una bara, sola, con i parenti.

    Più l’età della paziente era avanzata, meno gente era presente al funerale; Maria, però, aveva poco più di cinquant’anni e aveva pensato che, almeno al funerale, ci sarebbe stata qualche persona in più. Nei cinque anni di permanenza alla casa di riposo aveva visto raramente sia la figlia, sia l’ex marito. 

    Era stata ricoverata dopo un tentato suicidio, che l’aveva ridotta in fin di vita e poi inferma. Quando la figlia, forse una volta o due l’anno, si recava al capezzale della madre, restava immobile ai piedi del letto, non le sfiorava nemmeno la mano, non le dava una carezza. L’infermiera pensava che fosse a causa del fatto che Maria aveva tentato di suicidarsi e che, nel suo cuore, la figlia non glielo avesse perdonato. Come può una madre abbandonare una figlia? si chiedeva l’infermiera che avrebbe tanto voluto avere una famiglia numerosa, ma, purtroppo, non era riuscita ad avere nemmeno un figlio.

    Immaginava che una madre fosse disposta a tutto pur di far star bene la sua creatura, pur di renderla felice e un suicidio non poteva che lasciare una ferita profonda nella personalità del figlio.

    Il filo dei pensieri fu interrotto dagli operai che calavano la bara nella fossa. L’infermiera si fece il segno della croce, si avvicinò ai parenti, porse la mano per salutare e presentare le condoglianze. L’ex marito corrispose la stretta, la figlia finse di non vedere la mano e rispose a malapena al saluto. Il padre le rivolse uno sguardo di rimprovero e farfugliò delle scuse. L’infermiera fece un cenno col capo e se ne andò, seguita dal prete e dalla donna che lo accompagnava.

    – Non puoi comportarti con educazione, almeno in un momento come questo! – esclamò il padre con tono esasperato.

    Veronica lo fissò e non disse nulla.

    – Non hai rispetto per nessuno, non sei una persona, sei un mostro, hai rovinato le nostre vite, sono tuo padre ma vorrei che tu sparissi subito, che non fossi mai nata!

    Veronica avrebbe voluto ribattere, urlare che lui era un mostro, che non bastava fornire uno spermatozoo per diventare padre, ma resistette e continuò a non dire nulla, fissandolo negli occhi. Le venne in mente una frase: Il silenzio è la più perfetta espressione del disprezzo¹ e un mezzo sorriso le tirò le labbra, col risultato di irritare ancor più il padre che prese la smorfia per un ulteriore segno di spregio nei suoi confronti.

    – Non osare, non osare ridermi in faccia, maledetta… – e così dicendo le si avvicinò con fare minaccioso, alzando un braccio per schiaffeggiarla.

    Soltanto la prontezza del fratello gli impedì di colpirla, gli fermò il braccio e lo esortò a calmarsi dicendo: 

    – Enzo, no, non qui, dai, vieni andiamo a casa, lascia stare, lo sai com’è fatta, lascia stare… – e così dicendo lo costrinse ad allontanarsi dalla figlia e si avviarono verso l’uscita del cimitero.

    Veronica restò sola, vicino al cumulo di terra che gli operai avevano messo sulla bara della madre. 

    I piccoli fiocchi di neve continuavano a cadere ornando le lapidi, i mazzi di fiori, il vialetto.

    Veronica si guardò attorno, attese qualche attimo, il tempo perché padre e zio fossero lontani e s’incamminò, lentamente, verso l’uscita.

    Lunedì, 28  marzo 2011

    Isabella parcheggiò la sua utilitaria a pochi passi dallo studio e pensò: Sono fortunata, almeno ho trovato un posto vicino... sono già in ritardo; speriamo che lo sia anche il capo.

    La nebbia aveva avvolto le strade e raggiungere Torino dalla seconda cintura non era stato semplice, complice anche l’intenso traffico del mattino, sia in tangenziale, sia nei corsi cittadini.

    Le sue speranze però furono subito disilluse quando passò davanti all’ingresso carraio dello stabile dove aveva sede lo studio medico del dottor Masselli: nel cortile troneggiava la Porsche Cayenne color argento a indicare la presenza del boss di Isabella.

    Accidenti, pensò Isabella, proprio questa mattina che sono in ritardo questo doveva arrivare prima. Speriamo che sia di buon umore sennò chi lo sente!

    Svoltò l’angolo cercando le chiavi nella borsa e, arrivata all’ingresso del 37bis, aprì velocemente il pesante portone e superò i quattro gradini, di corsa, mentre ruotava tra le mani le chiavi per trovare quella giusta per aprire la porta.

    Girò la chiave e si trovò inaspettatamente immersa nel buio. Sovrappensiero pigiò l’interruttore e i neon iniziarono a lampeggiare velocemente per illuminare a giorno l’ingresso. 

    Andò nello spogliatoio, si tolse le scarpe, indossò il camice da infermiera e le calzature bianche e iniziò a far sollevare le tapparelle motorizzate. Aprì la finestra della sala d’aspetto e, soltanto in quel momento si rese conto di aver fatto parecchio rumore ma di non aver sentito né un cenno di saluto da parte del dottor Masselli né segni della sua presenza.

    Continuò nelle operazioni che eseguiva tutte le mattine finché arrivò alla porta dello studio privato del dottore; era chiusa e Isabella pensò che il dottore si stesse godendo gli ultimi minuti di tranquillità: entro un quarto d’ora la sala d’aspetto si sarebbe affollata di bambini di tutte le età accompagnati da mamme apprensive o babysitter annoiate, il vociare e i pianti sarebbero durati tutta la mattina.

    Bussò alla porta ma non ricevette risposta; proseguì oltre e aprì l’ultima finestra, quella che dava verso il cortile. Nuovamente bussò alla porta dello studio privato ma non ricevette risposta; le venne spontaneo chiamare e disse: – Dottor Masselli... tutto bene? Ha bisogno di qualche cosa? – e, automaticamente, mise la mano sulla maniglia e aprì la porta. 

    Lo studio era al buio ma la luce dell’ingresso le fece intravedere la figura del dottore seduto

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