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Compagno T.:  Lettera a un comunista sardo
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Ebook162 pages2 hours

Compagno T.: Lettera a un comunista sardo

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La lingua, la storia, le basi e i poligoni militari, l’equivoco della modernità d’importazione, lo spopolamento, i luoghi comuni sui sardi e sulla loro presunta incapacità di emanciparsi, le laceranti ferite dovute ai disastri ambientali e lo smantellamento di ogni prospettiva economica non basata sulla dipendenza e sulla subalternità, ma anche una feroce autocritica sulle involuzioni della sinistra e la crisi profonda del pensiero politico alternativo al modello liberista in un fitto dialogo dell’autore con il misterioso “Compagno T”. Una raccolta di lettere scritte con linguaggio franco e crudo che ricompongono una storia di militanza e passione civile, in una terra condannata ad essere una periferia senza valore. Uno scambio senza esclusione di colpi tra due compagni oramai divisi da un vertiginoso rift culturale prima ancora che politico. Da una parte l’adesione acritica all’ideologia di Stato che gradualmente ma inesorabilmente trasforma i rivoluzionari rossi in tiepidi difensori dello status quo affetti da una vera e propria sindrome di Stoccolma verso l’oppressore. Dall’altra una ricerca continua e instancabile per strappare quel velo di Maya, frutto di una storia di alienazione ma diventato ormai norma e natura, che ha portato la maggioranza dei sardi a riprodurre automaticamente i medesimi meccanismi della subalternità. Una j’accuse diretta e graffiante ma mai distruttiva, sempre con lo sguardo rivolto al futuro e al progetto.
LanguageItaliano
PublisherCondaghes
Release dateApr 7, 2017
ISBN9788873569190
Compagno T.:  Lettera a un comunista sardo

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    Compagno T. - Cristiano Sabino

    Loddo

    Lettera_1

    Caro compagno, posso chiamarti ancora così o provi imbarazzo dopo tutto ciò che è accaduto al nostro movimento internazionale? A me piace ancora questo detto, stesso pane: esprime ciò che volevamo essere e la radice della società nuova che volevamo costruire.

    Te la ricordi la società per cui ci battevamo? Libertà, democrazia, giustizia sociale, uguaglianza, autodeterminazione, indipendenza dei popoli e pace.

    Mi ricordo quando, con la tua bella bandiera rossa, ti imbarcavi a Olbia per andare a manifestare a Roma. Cantavi risonanti canzoni partigiane ed eri un fremito perché scendevi in piazza contro il tiranno di Arcore, pieno di tutte quelle buone ragioni che leggevi sul Manifesto o su Liberazione.

    Spesso ci siamo incrociati nelle strade e incontrati alle assemblee. Mi sentivo così vicino ai tuoi ideali e ai colori che indossavi, ma appena iniziavamo a discutere mi accorgevo che una voragine impronunciabile ci separava. Usavamo le stesse parole ma il senso era profondamente diverso.

    Sembrava che nei tuoi racconti la Sardegna scomparisse o esistesse soltanto in funzione dell’Italia, come una sua regione. Tutto ciò che di importante animava le tue narrazioni accadeva a Roma, Milano o qualche altra città continentale e tu stesso ti collocavi alla periferia di ciò che avveniva di bello e mobilitante. Che tu fossi di Rifondazione, antagonista, pacifista, disobbediente, terzomondista, anarchico o chissà che altro, la Sardegna e le sue lacerazioni secolari scomparivano nelle tue belle e combattive parole.

    Quando il discorso si spostava sulle lotte dei popoli oppressi l’incomprensione aumentava. La Palestina, il Kurdistan, persino il Paese Basco e la Corsica erano lotte degne di nota, mentre la Sardegna era e restava una regione periferica nei tuoi pensieri. Andavi ai corsi di catalano organizzati dall’Università, ma quando ti davo un volantino scritto in sardo protestavi chiedendone uno in italiano. Mi parlavi della morte dell’identità e dell’internazionalismo proletario senza più frontiere, prendendomi in giro per il mio «passatismo indipendentista»; poi ti mettevi la maglia azzurro-savoia e andavi a festeggiare quando vinceva quella che tu continuavi a chiamare la Nazionale italiana. Dicevi di essere cittadino del mondo e in effetti lo eri, cittadino di un mondo diviso in stati che tu chiamavi nazioni, dove ai popoli veniva progressivamente proibito tutto per dominarli meglio: lingua, abitudini, cultura ed esercizio della memoria storica.

    No, il rosso della mia bandiera non era lo stesso rosso di cui tu coloravi la tua.

    Mi dicevi che il partito comunista deve essere grande e che non possiamo fare da soli e io non riuscivo a capire questo ragionamento, perché il partito comunista è nato come un’organizzazione internazionale per fare la rivoluzione e rovesciare lo stato di cose presente e non per fare il pilastro patriottico a uno Stato inventato dalla borghesia e dalle classi possidenti sue alleate.

    Mi dicevi che bisognava salvare il nostro paese dalle grinfie di Berlusconi e che bisognava far fronte comune, ma io faticavo il doppio a capirti. Da una parte non riuscivo a sentire mio quello Stato nato con una rivoluzione passiva a rimorchio di equilibri internazionali reazionari – Gramsci lo leggevo anche io, anche se mi davi del nazionalista provinciale – e poi non capivo come facessi a confidare in quella massa di funzionari e burocrati che avevano distrutto il movimento comunista sciogliendolo in una cosa che odorava di ultraliberismo guerrafondaio a chilometri di distanza.

    Abbiamo preso strade diverse io e te. Io ricostruivo con pazienza la storia di quello che era stato il tentativo del Partito Comunista Sardo, tu intanto assumevi posizioni sempre più moderate, ingoiando rospi su rospi pur di «battere le destre». Oggi ci incrociamo per strada e quasi manco ci salutiamo con un cenno.

    Le nostre diversità sono venute fuori come ferite a cielo aperto. Tu non usi più la bandiera rossa. Nel frattempo hai fatto carriera, oppure sei passato al qualunquismo organizzato, o ti sei dato all’associazionismo per non sentire il peso della tua coscienza in fiamme. A volte ci ritenti come quando hai aderito da poco all’ennesima rifondazione dell’ennesimo partito comunista in cui la Sardegna, i sardi e la lotta alla colonizzazione non hanno alcuno spazio e nessuna importanza, anzi semplicemente spariscono sotto al tricolore, bello in vista, che continua a campeggiare nel simbolo.

    Io sono orfano del tentativo di costruire un partito comunista sardo o – per lo meno – un partito dei lavoratori sardi, come spesso usavamo chiamarlo all’orientale.

    È vero, neanche il mio indipendentismo sta tanto bene. Da movimento di critica al sistema e alla radice stessa dello sciovinismo italiano è diventato altro. Paradossalmente ha preso le stesse brutte malattie della sinistra italiana: opportunismo, clientelismo, trasformismo, leaderismo, tutti sintomi di una malattia contratta nei salotti televisivi e negli spazi a cinque colonne dei giornali di proprietà dei possidenti.

    Ma no, non ho cambiato bandiera. Liberazione nazionale e liberazione sociale sono sempre la mia bandiera, la mia unica bandiera, perché penso che si tratti di due facce della stessa medaglia. La pace, la giustizia, la libertà e l’eguaglianza rimarranno miraggi se non partiamo da qui, se non mettiamo in cima ai nostri pensieri la Sardegna e i sardi, riconoscendone l’oppressione che subiscono da secoli e la necessità di fare pulizia in questa terra di tutto ciò che la ammorba e la opprime, a iniziare dal clientelismo e dalla corruzione che ne rendono irrespirabile l’aria.

    Ma senza il rosso vivo della nostra bandiera le cose prenderanno una brutta piega. Il trasformismo sarà eretto a sistema e i sardi si lasceranno andare al razzismo più bieco – magari vestendolo con vellutino e cusinzos – convinti che i loro nemici e la causa dei loro problemi siano i quattro disperati che arrivano in cerca di lavoro e speranza, anziché le multinazionali senza scrupoli che hanno occupato e sfruttato fino al midollo la loro terra, usando loro come bracciantato a poco prezzo finché ne avevano bisogno e la Sardegna come discarica a cielo aperto per fare profitto o semplicemente per incassare facili commesse o incentivi statali.

    No, non ti sto proponendo di entrare in nessun partito, non c’è un partito comunista e indipendentista sardo. In real­tà non ti sto proponendo nulla, perché non credo di avere nulla da proporre a nessuno. Sto solo ragionando a voce alta, perché nel farlo continuo a vedere quella società di libertà, democrazia, giustizia sociale, uguaglianza, autodeterminazione, indipendenza e pace che prima o poi – ne sono certo – tante braccia e tante teste costruiranno in questa terra, liberandola da seicento anni di schiavitù e dimenticanza.

    Lettera_2

    Lo ammetto, non mi aspettavo una tua risposta e per questa ti ringrazio. Avevo l’impressione che non avessimo più nulla da dirci e ho rotto il ghiaccio più per ragioni terapeutiche che per riavviare una dialettica fra noi. Mi sbagliavo. Ho ricevuto la tua lettera e l’ho scartata avidamente come si fa con un regalo.

    Mi scrivi rivendicando il tuo internazionalismo. Lo capisco. Non pretendevo di esaurire tutta la complessità della questione in poche righe. Ma non credi che ci sia un vizio di sostanza nelle tue argomentazioni? Perché le nazioni nella tua narrazione coincidono con gli stati? Va bene, non è detto che una nazione debba sempre avere uno Stato proprio e anche sulla forma dello Stato potremmo avere da discutere, visto che esistono storicamente diverse modalità di organizzare la società e forse lo Stato di tipo europeo, uscito fuori dalla modernità, centralista e omologante, non è certo da annoverare tra i migliori esempi. Il modo in cui batti sull’internazionalismo mi sembra però inconcludente e anche sospetto, compagno. Infatti prima dichiari che sia inutile mettersi a costruire nuovi stati – e per stati intendi ovviamente nuove frontiere – perché, argomenti, il mondo ha bisogno di spazi geopolitici sempre più grandi e non di «nuovi reticolati di filo spinato». Poi passi, forse senza accorgertene, a un altro argomento, ovvero al tuo sentirti «italiano, europeo e cittadino del mondo, oltreché sardo». Questo passaggio mi incuriosisce perché rappresenta un salto logico ingiustificato che è forse la voragine in cui il pensiero comunista spesso è precipitato a proposito della questione sarda. Come è potuto accadere che ti identificassi nelle costruzioni statocratiche delle classi dominanti? Neppure il pensiero socialdemocratico classico, con tutte le sue storture e i suoi abbagli storici, era mai arrivato a tanto. I socialdemocratici ne facevano una questione di opportunità e di riforme, non di appartenenza acritica alla forma-stato della borghesia dominante. Persino il signor Bernstein, che pure abbiamo criticato tanto duramente prendendo calorosamente le parti di Rosa Luxemburg nel famoso Bernstein-Debatte, non metteva in discussione l’orizzonte del superamento dello Stato così come lo conosciamo, bensì sosteneva che gradualmente e senza bisogno di strappi rivoluzionari, il capitalismo si sarebbe liquefatto sotto il peso della democrazia operaia in ascesa. Crollo del capitalismo con stato borghese a seguito ovviamente, visto che nel modo di vedere dei socialisti pre riformisti in generale, i due aspetti sono indissolubilmente legati.

    Cosa è rimasto di quella prospettiva nel tuo sentirti italiano ed europeo, compagno? Ripeto, forse non te ne sei accorto neppure, ma il tuo ragionamento passa da una considerazione di opportunità pratica a una adesione di fede che non spieghi e che non puoi spiegare perché la fede è per l’appunto un presupposto non soggetto ad argomentazioni. Ma si tratta di fede o subalternità ideologica a interessi altrui? Sì caro compagno, perché l’adesione a una concezione di Stato come quello italiano o di un superstato come lo è (o aspira a essere) l’Unione Europea, non può essere neutrale, ma obbedisce a delle logiche di interesse ben precise che sarebbe nostro dovere studiare e smascherare invece di esaltare fideisticamente. Questo è il metodo che abbiamo imparato leggendo La critica all’economia politica di Marx, cosa ben diversa dall’andare dietro alle chimere altrui spacciandole per verità astoriche.

    A questo punto te lo devo chiedere. Perché ti senti italiano ed europeo? Perché parli l’italiano e sai sostenere una conversazione in inglese? Perché ancora vivacchi nutrendoti del mito della resistenza antifascista e sei ancora abbindolato dalle frottole di matrice liberale e neoidealistica sul valore etico dell’unificazione italiana? Perché ti piace viaggiare senza dover rinnovare il passaporto? Non sto provocando, solo non capisco. Te lo ricordi il dibattito sulla costituzione europea e le sue radici cristiane? Ci siamo arrabbiati moltissimo entrambi e abbiamo tirato un sospiro di sollievo quando è stata affossata dai cittadini francesi. Ora però capisco che anche lì avevamo ragioni diverse, tu facevi leva sul principio del laicismo, a me questo non bastava. Concordavo certo, ma ci vedevo anche questioni più importanti come per esempio il fatto che ero e resto contrario a una unione di stati in cui vige la fredda logica della supremazia dell’economia capitalistica e della negazione dei popoli, come già aveva compreso in maniera lungimirante Antoni Simon Mossa in tempi non sospetti. No, non sono accenti diversi sullo stesso ritmo di pensiero ed è per questo che tu vai in giro a esaltare la costituzione italiana come «la più bella del mondo» e io continuo a puntare il dito sull’articolo 5 che nega non solo il diritto all’autodeterminazione del mio popolo, ma ne cancella perfino l’esistenza. Sì, perché c’è una contraddizione anche in questo, sentirti italiano ed europeo non annega la tua identità di sardo ma la relega a una mera dimensione folk, cancellando di fatto ogni discorso di diritto sulla cittadinanza sarda. Anche su questo sragioni e, forse senza nemmeno accorgertene, utilizzi categorie importate dal pensiero dei vincitori e dei dominatori alle quali ti pieghi servizievolmente: l’essere sardo non può riguardare solo la dimensione di una non meglio precisata identità, ma implica il riconoscimento di precisi diritti politici, umani e civili che lo Stato italiano, invece, ha sistematicamente vilipeso, anche avvalendosi del tuo prezioso aiuto progressista filorepubblicano.

    Inoltre il linguaggio che usi non aiuta di certo e anzi genera confusione. Ti senti italiano o cittadino italiano? Dovresti arrivare a capire che una cosa è l’appartenere a una nazione, altra cosa è appartenere a uno Stato. Nelle tue parole invece non emerge il

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