Tennis in love
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Tennis in love - Giovanni Franceschi
l’inizio.
I
Era stata una bambina fortunata. Era nata in Sardegna, da babbo sardo, un commercialista e giocatore professionista di basket, un quattro di quasi due metri, e da madre fiorentina, un medico che, se si esclude un po’ di tennis fino a quattordici, quindici anni, non aveva mai praticato alcuna attività sportiva ad alto livello. Vittoria Orsetti aveva avuto anche la fortuna di nascere in una casa proprio sul mare, con un parco grandissimo, un aranceto e tanto spazio per correre e saltare. La famiglia del padre Marcello, che di origine era lombarda, aveva una lunga tradizione sportiva che andava da una bisnonna che aveva partecipato alle Olimpiadi di Berlino a un nonno campione italiano e nazionale di basket. La nonna paterna non era invece mai stata una sportiva, ma era una bella donna che aveva, fra le altre bellezze, una bell’altezza. I nonni materni, invece, non avevano tradizioni sportive se si esclude la passione per il tennis del nonno, peraltro mal ripagata dalle scarse qualità tecniche.
Nei suoi primi anni di vita Vittoria Orsetti, oltre che dai genitori, imparò molto, nonostante la distanza, dai nonni che vivevano a Firenze, due insegnanti di Lettere; imparò soprattutto a parlare bene in italiano e questo la distinse sempre dalle amiche e compagne sarde che non riuscivano a capire come mai lei non sbagliasse mai l’apertura della E e della O. E la distinse anche dalle due sorelline gemelle, Maria e Chiara, che nacquero quando Vittoria aveva solo un anno e mezzo di vita, due belle bambine molto, molto sarde, piene di vita, di gioia e di vocali aperte che riempivano letteralmente le loro delicate boccucce.
Vittoria era una bimba vivace e curiosa, alta fin da subito in relazione alla propria età, magra, capelli neri che portava lunghissimi, due orecchi grandi e due occhi bellissimi, di un azzurro che si avvicinava a quello intensissimo della mamma che, nonostante i molteplici impegni di lavoro, la iscrisse, già a quattro anni, chissà perché, ad un corso di tennis. Il corso fu ripetuto anche a cinque anni ma Vittoria era tropo alta e doveva stare nel gruppo delle bimbe più grandi senza ancora possedere la coordinazione motoria necessaria per il tennis, e fu per questo che a sei anni lasciò quello sport e si iscrisse ad atletica leggera, una attività più ricreativa che sportiva in senso stretto, che comunque la aiutò molto a trovare la coordinazione dei movimenti che, con la velocità della sua crescita, doveva continuamente essere riconquistata.
Ma a quel tempo ogni sport era un gioco e quello che contava erano i giocattoli, era la scuola, erano le amicizie, le sorelline, e naturalmente i genitori e i nonni.
Il carattere era dolcissimo e non lasciava intravedere alcun tipo di grinta sportiva, ma certo nessuno si preoccupava per questo. Nella famiglia di sportivi ce n’erano e ce n’erano stati già anche troppi, ripeteva spesso mamma Elisa.
Quella mattina era un giorno speciale, Vittoria incominciava la scuola elementare. A dire il vero non era il primo giorno di scuola, ma una sorta di anticipazione che doveva servire, nelle intenzioni dell’istituto scolastico, a formare le classi in maniera equilibrata: si trattava di far svolgere a cinquanta bambini e bambine una specie di test d’ingresso attraverso il quale suddividerli poi in maniera razionale. Nessuno dei ragazzi era preoccupato. Anche Vittoria era tranquilla e, nell’attesa dell’ingresso, si mise a correre e giocare con un’ex compagna della scuola per l’infanzia, o asilo, come lei lo aveva sempre chiamato. Non era potuta venire ad accompagnarla la mamma, che doveva andare al lavoro lontano e molto presto, sostituita dal nonno di Firenze, Luigi, che era ancora in Sardegna, in settembre, perché quello, insieme all’ottobre, era il periodo migliore per soggiornare nell’isola…almeno così sosteneva lui. Con nonno Gino Vittoria si sentiva tranquilla, per lei era quasi come un padre e non per caso spesso, sovrappensiero, lo chiamava babbo anziché nonno. In agosto era stata col nonno e la nonna Pina in vacanza sul continente, come correttamente dicono i Sardi, ma non ancora Vittoria, e i due docenti in pensione le avevano insegnato a scrivere alla meglio, usando metodi poco ortodossi, in verità, perché non erano maestri ma insegnanti di scuola superiore, che comunque avevano avuto qualche effetto positivo se Vittoria si sentiva così tranquilla. Il test andò benissimo, ma Vittoria era un po’ delusa dalla banalità
, lei adorava questa parola, di quello che le avevano richiesto di fare. Dopo qualche giorno la scuola incominciò davvero e quella mattina fu accompagnata dalla mamma adorata. Ma era ancora estate in Sardegna e la novità più interessante di quei giorni ancora caldi e assolati sembrava essere più il corso di atletica cui partecipavano anche le sorelline, la mamma e Paoletta, la sua amica del cuore, che non la scuola nella quale non succedeva quasi nulla di interessante.
Al tramonto, dalla terrazza in riva al mare, Vittoria scattava fotografie con la macchinetta regalatale dai nonni e ogni serata era incantevole: un giorno non c’era nessuno in mare e si vedeva il sole sparire lentamente dietro il profilo confuso di Casteddu, una sera il cielo era tutto rosa, un’altra, rosso fuoco, sembrava volersi incendiare, certe sere d’estate si vedeva qualche barchetta vicina a riva, in qualche giornata tutto era grigio e a stento si distinguevano il Poetto e la città sullo sfondo, e poi si poteva inquadrare anche un po’ del suo giardino o solo qualche canna in primo piano… insomma era buffo, diceva proprio così, che una cosa sempre uguale potesse essere ogni giorno così diversa.
Un ruolo importante negli anni dell’infanzia di Vittoria, lo ebbero anche Alfredo e Maria, i genitori dell’amica del cuore Paoletta. Alfredo era un medico appassionato di musica classica, amante della natura e del tennis che praticava a livello amatoriale, ma con discreto profitto. Maria, anch’essa medico, era la donna più dolce del mondo: affettuosa, premurosa e gentile fu quasi una seconda mamma per Vittoria. Da loro Vittoria imparò, fra le altre cose, ad amare la musica e a rispettare la natura e gli animali, ma, per merito di Alfredo, continuò anche a giocare a tennis. Alfredo non voleva che passando all’atletica, perché ovviamente anche Paoletta era andata a fare atletica, la figlia non imparasse a giocare a tennis perché era convinto che quello sport, come già accadeva per lui stesso, l’avrebbe potuta accompagnare, come svago ricreativo e salutare, per tutta la vita. Per questo il sabato o la domenica portava Paoletta a lezione, ma non era proprio concepibile che Paoletta facesse qualcosa senza Vittoria e fu così che anche Vittoria non lasciò mai completamente il tennis.
Le due famiglie e quindi le bambine vivevano su due terreni contigui che portavano dalla strada statale al mare, due strisce di terra scaldate dal sole e frustate dal vento, un vero paradiso per chi, come Alfredo, si dedicava anche al lavoro agricolo; un’ossessione per Elisa che non aveva mai tempo per tenere in ordine piante, fiori, prato siepi e tutto quello che cresceva rigoglioso in quel terreno. La contiguità dei terreni, separati, si fa per dire, da un filare scomposto di eucalipti e da una piccola rugginosa rete metallica, lacerata in più punti, consentiva però alle due bambine, e in seguito alle quattro, quando le due gemelle furono più grandicelle, di vivere una vita in simbiosi nella quale si separavano solo al momento di andare a scuola.
Col passare degli anni, quando anche le due gemelle furono mandate in classi diverse, per ragioni pedagogiche e non certo per comodità, il gruppetto delle quattro cominciò lentamente a sfaldarsi. Paola e Vittoria avevano nuove amiche a scuola e così pure le due gemelle e la prima volta che Paoletta rifiutò un tradizionale invito del venerdì sera a venire a mangiare e dormire da Vittoria, alla sorpresa iniziale seguì una vera e propria crisi di gelosia perché di certo l’amica andava da qualche nuova compagna della quale, qualche volta, Paoletta le aveva parlato.
Gli anni della scuola elementare volarono nella felicità dell’infanzia, nel sole abbagliante e nel mare sempre diverso che accompagnava col suo rumore ora leggero, ora sommesso, ora furioso, ogni momento della vita in quella casa. Ma il mare che più piaceva a Vittoria era quello silenzioso del tramonto, quello da fotografare, quello in cui pareva un lago e la vista del promontorio della Sella del Diavolo, che quasi al centro interrompe le lisce spiagge del golfo di Cagliari, le faceva sempre ricordare il racconto del nonno sulla battaglia fra angeli e demoni per conquistare quel meraviglioso angolo di mondo. Gli angeli avevano vinto, e non per caso quel tratto di mare si chiama Golfo degli Angeli, ma un grande scoglio, la sella del cavallo di Satana , o Sella del Diavolo, non era mai affondato del tutto e sembrava voler ammonire che tutto può sempre cambiare.
Frequenti furono in quegli anni i suoi viaggi a Firenze, dagli adorati nonni, e fu in queste occasioni che nacque in Vittoria una passione profonda per l’arte in generale e per l’architettura in particolare. Spesso voleva tornare sul campanile di Giotto o sulla Cupola del Brunelleschi e per i nonni quelle interminabili scale, così alte e strette, divenivano ogni volta più faticose. Vittoria invece volava su quei gradini alti e si divertiva ad aspettare i nonni, per sorprenderli o spaventarli, dietro qualche angolo più riparato. Dall’alto, poi, la sua gioia esplodeva in grida di entusiasmo nel riconoscere chiese e monumenti