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Caldo amaro
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Caldo amaro

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About this ebook

La città di Pesaro viene sconvolta da un efferato crimine che ne mina l’apparente quiete. Il laboratorio in cui lavora Noelia, giovane biologa, viene chiamato a svolgere le necessarie ricerche nella speranza di fornire a Carabinieri e Polizia informazioni utili a risolvere il caso. La donna viene inoltre a sapere dai giornali che a essere stata uccisa è una sua vecchia compagna di liceo, sebbene non sua grande amica. Chi può aver voluto la sua morte? E perché usarle tanta violenza? Un’indagine complessa dalla quale, suo malgrado, Noelia sarà coinvolta non solo professionalmente, e che la costringerà a confrontarsi con i traumi di un passato che ancora la tormenta.
Con indiscussa competenza e maestria, Sara Ferri costruisce un romanzo incalzante, a metà strada tra un thriller e un giallo introspettivo, che scava nei meandri più torbidi di una città da molti considerata un’isola felice.
LanguageItaliano
Release dateMar 4, 2017
ISBN9788893330763
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    Caldo amaro - Sara Ferri

    © Alter Ego s.n.c., Viterbo, 2017

    Collana: Specchi

    I edizione digitale: marzo 2017

    ISBN: 978-88-9333-076-3

    Progetto grafico: Luca Verduchi

    www.alteregoedizioni.it

    "Si odiano gli altri perché si odia se stessi"

    Cesare Pavese

    Prologo

    Cammina, cammina più veloce, ancora più veloce, un passo dietro l’altro. Dai, forza, cammina… ora corri, corri, corri!

    È dietro, lo sento, lo vedo. Non ti girare.

    Forse è stata solo un’impressione, quella di aver visto un fantasma, eppure sembrava reale.

    Vòltati, non lo vedo più. Però non fermarti, svolta qui a destra, adesso. Ora rallenta e guarda indietro. Ascolta: tutto è silenzio. Non c’è più, sento che non c’è più. Respira, tranquilla. Ti eri proprio sbagliata. Era solo frutto della tua immaginazione.

    Cammina, cammina, non avere paura. Non c’è più nessuno, né davanti né dietro. Sei sola e puoi calmarti. Respira, respira, respira con calma.

    Provo ad aprire la bocca per incamerare ossigeno, ma non ci riesco. La vista si ottenebra, non vedo più niente. Mi manca il fiato e percepisco solo il mio respiro, che sta morendo nella trachea, dove qualcosa mi stringe, mi blocca, facendomi boccheggiare. Tanti piccoli aghi mi si conficcano in gola.

    È così caldo, un caldo che mi soffoca, che mi attanaglia. Mille goccioline di sudore mi strisciano lungo la schiena come un serpente velenoso.

    È così caldo che non riesco a respirare. Un caldo agonizzante. L’aria, resa rovente dalla temperatura esterna, quando per un attimo entra nei polmoni lascia un gusto amaro.

    Aiuto, aiuto! urla la mia voce muta, dentro la testa. È un sogno, un incubo. Aiuto, aiutatemi! Non riesco a emettere alcun suono.

    Tanto non cambierebbe niente. Non vedo nessuno, non sento nessuno. Sono sola.

    1.

    Pesaro, 14 luglio 2014

    Caldo. Il caldo agonizzante di metà estate. Quello che ti si incolla addosso come una zanzara spiaccicata sul palmo della mano.

    La città si muove con un andamento lento, quasi ipnotico, compressa nell’afa delle strade, del traffico, dello smog. L’estate è nel suo pieno vigore e già nello sguardo di tutti leggo la necessità di andare in ferie.

    Mi trattengo dall’urlare per il desiderio di una doccia gelata e proseguo, diretta al lavoro.

    Cammina, cammina, mi dico. Dai, muovi queste chiappe grasse, mi ripeto. Devo dimagrire. Devo perdere questi cazzo di cinque chili. Forse anche sette.

    E invece oggi mi mangio i cannelloni. Stasera passo in gastronomia e prendo due porzioni di cannelloni. No, anzi: chiamo la Chicca e la invito a casa a mangiare la pasta al forno. Merda! No, no, e no! Devo dimagrire!

    Passo di fronte a un bar. La gente si accalca al bancone per prendere l’ultima brioche.

    Guardali! Probabilmente stanno facendo la seconda colazione. Sono solo dei nullafacenti affamati. Mamma che fame! Vado da Pino, mi mangio un bombolone e fanculo la dieta!

    Devio in via Cavour. Giro l’angolo e mi ritrovo davanti all’insegna della pasticceria. Lungo il piano del bar, la distesa di dolci e salati mi fa lacrimare gli occhi. Sono commossa.

    «Pino!» chiamo appena entro.

    «Tesoro! È un po’ che non ti fai vedere! Mi sei mancata!» mi saluta col sorriso languido che mi riserva ogni volta.

    «Sono stata a dieta, ecco perché non mi hai più vista. Non volevo cadere in tentazione» mento.

    «Con me?» domanda.

    Mi viene da vomitare, penso. «Con te si può solo cadere in basso e non in tentazione» sussurro. «Per favore, evita le battutine oscene e dammi un bombolone».

    «Noto che la tua acidità ti tiene sempre compagnia!» commenta contrito. «Perché non prendi una Rossini? Per cambiare un po’». Così dicendo, indica la pizzetta in vetrina, del diametro di un CD, ammiccando con gli occhi, tentandomi. In effetti, sono sempre molto combattuta tra il cilindro zuccheroso imbottito di crema e la sfiziosa pizzetta con uovo sodo e maionese.

    Di tutte le città d’Italia, solo Pesaro può vantare l’autenticità della pizza Rossini. È chiamata così in onore dell’omonimo musicista, nato proprio qui. Una volta, durante la mia unica vacanza in famiglia, sono stata in Trentino. Ero bambina e, abituata a casa, in una pizzeria avevo ordinato una Rossini. Quando il cameriere mi aveva guardata come se avessi bestemmiato, mio padre si era lanciato in una descrizione dettagliata della farcitura. Ricordo di averlo ascoltato estasiata mentre diceva che, sopra una tradizionale margherita, la pizza andava farcita con fette di uovo sodo e maionese. Il cameriere aveva annuito, poco convinto, e alla fine mi aveva portato una Bismark. Avevo guardato schifata quella pozza semiliquida d’uovo al centro della pizza, maledicendo il cameriere per la sua stupidità. Negli ultimi anni, però, questi malintesi capitano sempre meno di frequente. La famosa pizzetta pesarese sta prendendo piede anche fuori. Il motivo di questa fama dilagante è semplice: ogni volta che un turista o un forestiero assaggia una Rossini, nei suoi occhi socchiusi vedo tutto lo smarrimento e l’estasi del gusto prelibato dell’uovo, mischiato alla maionese, sopra una croccante margherita.

    Presa dalla voglia momentanea rimango indecisa sulla scelta per qualche istante, ma poi il desiderio di zucchero ha la meglio:

    «Pino, perché non proponi la tua famosa pizzetta ai turisti che neanche sanno cosa sia una Rossini? Ho voglia di dolce».

    «Allora sono io quello di cui hai bisogno».

    «Che schifo!» commento a bassa voce, dandogli le spalle.

    Addento il soffice cilindro zuccherato e sento il sapore del ripieno che si spande in bocca. Vaniglia, zucchero, latte e uova. Un trionfo di sensazioni racchiuso in un solo assaggio di crema. Guardo Pino e gli sorrido. Almeno il suo lavoro lo sa fare bene. Se non fosse che è abbondantemente in sovrappeso e ha qualche capello in meno della media maschile mondiale, non sarebbe brutto. E a dire il vero io sono così carente di sesso, in questo periodo, che non potrei proprio dire di no a nessuno, nemmeno a lui.

    Bevo un cappuccino seguito da un caffè, poi mi appoggio una sigaretta fra le labbra.

    «Ti pago domani» gli dico uscendo.

    «Sulla porta c’è scritto che non facciamo credito a nessuno… nemmeno alle belle ragazze con il vizio dell’acidità latente!» mi urla dietro. Alzo la mano con il dito medio puntato in alto e mi dileguo.

    Prima di andare in laboratorio faccio una puntatina nel negozietto di corso XI Settembre che mi piace tanto, proprio sotto l’Arco dei Cornuti. Non so quale sia il motivo di un nome così buffo. So solo che quelle due piccole arcate nell’angolo tra via Mazza e il Corso vengono chiamate così da che ho memoria. Ogni volta che ci passavo sotto, da bambina, immaginavo qualcuno dall’altra parte della strada che mi additava dicendomi: Cornuta!. Altre volte fantasticavo sull’origine di questo nomignolo, sognando a occhi aperti una scenetta medievale, in cui uno sprovveduto marito passava sotto i due archi già esistenti, circondato da persone che ridacchiavano, parlottando delle avventure amorose della moglie fedifraga.

    Quando arrivo davanti al negozio, rimango in contemplazione di quello che vedo. La vetrina mostra infatti un manichino asessuato e anoressico vestito in maniera divina. Le mie forme voluminose difficilmente riusciranno a entrare in quella taglia trentotto, ma decido di tentare comunque. È qui che ho visto anche una meravigliosa maglietta con la stampa floreale. Ha le maniche corte, con un piccolo risvolto, così da lasciare scoperta una parte sostanziosa di pelle, o meglio, nel mio caso, di adipe.

    Intorno a me, sotto i portici, una marea di gente si muove, si agita e si dibatte. L’insegna della farmacia vicino cui sono passata qualche minuto fa segnava ventotto gradi. Il caldo mi rende ancor più insopportabile la folla, quindi decido di entrare in negozio. Questa maglietta me la voglio proprio provare; sono sicura che mi starà un sogno.

    Non faccio in tempo a varcare la soglia che la commessa mi è subito addosso, piazzandosi di fronte a me con le mani dietro la schiena.

    «Salve, vorrei provare quella maglietta che c’è in vetrina» esordisco.

    Lei mi guarda, anzi mi squadra. E io ricambio lo sguardo: gambe lunghe, scheletriche, braccia come bacchette cinesi e capelli freschi di piastra. Lei mi studia ancor più nel dettaglio. Dalle unghie dei piedi alle doppie punte dei capelli. Che cosa vorrà? Una foto? Si deciderà a farmi provare questa maglietta o no?

    «Ha capito cosa le ho detto?» la punzecchio acida.

    «Sì, scusi. Stavo meditando sulla taglia». Ci pensa su un po’, poi continua: «Quello è un modello che calza un po’… pochino» spiega sorridendo.

    Che cazzo significa che calza … pochino?

    «Pochino quanto?» chiedo cercando di essere … gentile.

    «Beh, significa che una M calza in realtà come una S. Per lei penso che ci vorrà la L, ma considerando che calza come una M...».

    Datemi un accendino! Vi prego, datemi un accendino!, penso. Non per accendermi una sigaretta, ma per darle fuoco.

    «E quindi? Interpelliamo il Capo dello Stato per risolvere questo dilemma o crede di riuscire a farcela da sola?» domando con un sorriso sarcastico.

    «Sì... ehm, credo che la L andrà bene» mi dice un attimo prima di fuggire nel ripostiglio.

    Una ragazza di fianco a me si sta provando un paio di pantaloni neri. Ha due gambe mozzafiato e un culo da paura. Tale e quale la sottoscritta, proprio!

    Si gira e mi sorride. Sorride e basta. Non con l’aria strafottente che hanno molte belle donne, ma in modo semplice, sincero.

    «Hai sentito la storia di quella ragazza della notte scorsa?» chiede un’altra commessa alla stangona di fianco a me. Sembrano conoscersi perché le si accosta e la sfiora con aria familiare.

    «Sì, ho sentito. Anche se non conosco i particolari. Ancora non sono riuscita a comprare i giornali» risponde Miss Gamba Lunga.

    «Ho letto che è stata trovata nuda. Pare l’abbiano violentata. L’ha trovata un cacciatore. Che schifo!» fa la commessa, con la voce ora ridotta a un bisbiglio. Io ascolto incuriosita.

    La Miss si gira a guardarla.

    «Che schifo? Da cosa sei schifata, in particolare? Dal fatto che sia stato un poveruomo a trovarla o da ciò che le hanno fatto, cioè spogliata, probabilmente violentata e uccisa?» mentre parla si sporge in avanti. Il suo petto si alza e si abbassa rapidamente nello sforzo di trattenere la rabbia.

    «Ehi, Mari, perché te la prendi tanto? Non ho detto niente di male!» si difende quella mentre retrocede.

    «Hai ragione, scusami, ma questa notizia mi ha scioccata. È sulla bocca di tutti, oggi. Qui a Pesaro non succede mai nulla di eclatante, e all’improvviso una ragazza viene assassinata. Dove andremo a finire?! E poi, quella ragazza aveva la mia età. Scusami…» si toglie la canotta al volo e si incammina verso il camerino. Che fisico! Sto diventando lesbica o è solo l’effetto del caldo a darmi alla testa?

    «Sarà stato di sicuro uno straniero. Ce ne sono sempre di più, in giro per la città».

    Il commento della venditrice mi arriva nitido alle orecchie, mentre si avvicina al camerino dove la ragazza si sta rivestendo. E io, che sono figlia di una straniera, mi sento colpita nel profondo.

    In parte rientro anch’io nel grande gruppo dei forestieri, dato che sono nata e vissuta in una città chiusa e provinciale, dove puoi definirti pesarese solo se le tue origini risalgono ad almeno un bisnonno nato qui.

    In quel momento, distogliendomi dai miei pensieri, la simpatica commessa ricompare di fianco a me con la maglietta incriminata. Mi guarda impaurita, come se da un momento all’altro dovessi aprire la bocca e divorarla.

    «La L non c’è più. Se vuole le ho portato una M… da provare».

    I suoi occhi incontrano i miei per poi sfiorare la maglia, che tiene posata sul braccio.

    «No, grazie, credo che la M che calza come S non mi entri nemmeno in un braccio. Fa niente».

    Le strizzo l’occhio e me ne vado. Ne ho avuto abbastanza.

    Fuori la temperatura sembra essere aumentata ancora, oppure è solo l’effetto del divario tra l’interno e l’esterno: aria condizionata contro phon acceso. Da paura. Credo di avere una paralisi facciale.

    Mi avvicino a un bar ed entro. Guardo i bomboloni distesi sul bancone che sudano grasso da tutti i pori. Mi sento una merda. Come ho fatto a mangiare una cosa simile con questo caldo? Se ci penso vomito.

    Chiedo una limonata. «Con molti cubetti di ghiaccio», specifico. Tuttavia non è per bere che sono entrata. Vedo il giornale, posato su un tavolino, ma un uomo, più rapido di me, lo agguanta. Rimango ad aspettare dieci lunghissimi minuti, in piedi, con la testa inclinata a sbirciare il quotidiano. Sorseggio rumorosamente la mia bevanda. L’uomo di fianco a me mi squadra, innervosito. Alla fine si allontana rimettendo l’oggetto della contesa al suo posto. Lo prendo, girandolo fino ad arrivare alla sezione locale.

    In prima pagina scorgo la notizia della ragazza trovata morta, di cui parlavano prima nel negozio:

    "… è stato trovato alle prime luci dell’alba. La zona boschiva dov’è stato rinvenuto il corpo della donna fa parte del comprensorio del Monte San Bartolo. Un residente, che si trovava in quella zona per far allenare il proprio cane da caccia, ha scoperto il corpo della vittima in una radura circondata dalla vegetazione. Il cane che lo accompagnava ha fiutato una traccia e l’uomo, pensando si trattasse di una volpe, ha seguito inconsapevole l’animale. Una volta accortosi del corpo, ha immediatamente chiamato le forze dell’ordine, che sono sopraggiunte in pochi minuti. Sul caso sono stati chiamati a indagare anche i Carabinieri di Bologna, che collaborano con i colleghi della Polizia locale. Proprio in queste ore sono in corso le indagini atte a verificare la causa della morte. La ragazza è risultata essere priva di vestiti e riversa in posizione supina. Si è cercato, per quanto possibile, di proteggere il corpo dallo sguardo indiscreto degli abitanti della zona. La vittima, Arianna Berardi…".

    Il bicchiere mi sfugge di mano e si disintegra ai miei piedi, riversando il contenuto sul pavimento. Il barista allunga il collo per capire cosa stia succedendo e mi rivolge uno sguardo contrariato:

    «Ma cosa caz…».

    Prima che concluda la frase appoggio due euro sul bancone ed esco. Gli sguardi dei presenti sono tutti rivolti verso di me. Appena fuori mi guardo intorno alla ricerca di un’edicola. Ne trovo una poco distante. Attraverso la strada incurante delle macchine che passano fracassandomi i timpani col suono dei clacson. Davanti all’edicola, le locandine riportano tutte la stessa immagine: quella della ragazzina boriosa e sprezzante che per cinque anni mi ha tenuto compagnia sui banchi di scuola. Non nel senso letterale del termine. Non eravamo certo quelle che si possono definire amiche del cuore. Forse nemmeno simpatizzanti, vista la differenza oceanica che ci separava: io grassottella e volgare, lei un concentrato di finezza e classe già all’età di quattordici anni.

    Nella locandina, l’immagine del suo viso è però quella del presente. Nonostante il lasso di tempo trascorso, riconosco nel suo volto la stessa sfrontatezza. Gli occhi ridenti, allegri, ma anche arroganti. Sono passati nove anni da quando ci siamo parlate per l’ultima volta, ma io ricordo come fosse ieri quanto fosse bella e stronza, nello splendore dell’adolescenza; con le sue labbra carnose, gli occhi leggermente a mandorla e un fisico da atleta, toglieva il fiato a molti coetanei e non solo. Lei e il suo gruppetto di amiche simil-barbie guardavano, anzi, squadravano con disprezzo chiunque superasse la taglia 40 e fosse più bassa di un metro e sessanta. Durante le lezioni si atteneva all’immagine della studentessa modello, ascoltando i professori e mostrandosi interessata. Poi, in corridoio, durante la ricreazione, lei e le sue amichette si mettevano in posa, appoggiate allo stipite della porta, in attesa che le altre compagne passassero loro davanti. A ognuna di noi riservavano un trattamento diverso. Io ero la straniera grassona, a suo dire, ma le altre avevano escogitato nomignoli ancora peggiori. Dopo aver mortificato ogni ragazza, si chiudevano sempre in bagno a truccarsi vicendevolmente e a raccontarsi pettegolezzi.

    Io ero tonda, brufolosa e antipatica, e mi chiudevo da sola, nel bagno di casa, a stuzzicare le infinite terminazioni nervose del mio corpo. Al posto suo non avrei fatto la preziosa per riuscire a conquistare gli sguardi di tutti e mi sarei donata solo a Marco Angeli, il più bello della scuola, il più bello della Terra. Arianna però non considerava nessuno degno di lei e proprio per questo era desiderata da tutti.

    Io, invece, semplicemente, passavo inosservata. D’altronde, ero figlia di un operaio e di una yemenita che aveva deciso di fuggire all’età di diciotto anni per non essere costretta a mettere il niqab e a perdere la verginità con un marito che le era stato imposto.

    Mia madre Samia era venuta in Italia all’inizio degli anni Ottanta. Nel suo Paese, la culla del regime islamico, la supremazia dell’estremismo musulmano iniziava a farsi sentire già con prepotenza, mentre qui in Italia l’economia volava. A casa, era costretta a coprire ogni parte del suo corpo, tranne gli occhi, e sognava un Paese in cui poter andare al mare senza vestiti, indossando un costume, godendosi la sensazione della sabbia calda sulla pelle. Era giunta a piedi fino alla costa più vicina al suo villaggio, accompagnata dal cugino. Arrivati al porto di Al-Hudaydah, si erano imbarcati entrambi su un mercantile diretto in Grecia. Anni dopo, mia madre mi disse che la traversata le era costata molto cara. Non mi spiegò mai se in termini monetari o umani. Quando finalmente arrivarono in Grecia, suo cugino si era già assicurato un aggancio che le avrebbe permesso di lavorare come lavapiatti in un ristorante sulla costa. Ci rimase per tre anni, fino a quando quella vita non iniziò a starle stretta. I guadagni erano ridicoli, e lei era infelice, per questo si era lasciata convincere da una delle quattro ragazze con cui divideva l’appartamento ad andare con lei in Italia. Fu così che si incontrarono, lei e mio padre. Un giorno, in un bar del centro, lui aveva chiesto un caffè ed era stata proprio lei a portarglielo, conquistandolo all’istante. Non so come fosse finita qui a Pesaro. Tra le tante città d’Italia aveva scelto di fermarsi qui, e qui era rimasta.

    Quando era ancora in vita, mi spronava a studiare, lei che non aveva mai potuto farlo, a impormi come donna e a far valere le mie capacità. Da lei avevo ereditato gli occhi profondi e neri come la notte, con le ciglia lunghe. Sue erano anche le gambe, muscolose e massicce, e i fianchi larghi. Quando mi lamentavo a tal proposito, mi ripeteva che i fianchi larghi sono sintomo di fertilità e io le rispondevo che erano caratteristici dei pachidermi.

    «Mamma, io voglio le gambe magre e slanciate come quelle delle mie compagne di classe!» le dicevo sempre con la voce cantilenante.

    Lei mi appoggiava il dito indice sulla tempia e rispondeva: «Tu hai tutto quello che ti serve per essere bellissima agli occhi degli altri, amore mio. Qui dentro c’è tutta la bellezza del mondo».

    Poi mi baciava sulla fronte e mi guardava in quel suo modo speciale, come se volesse farmi sentire unica e superiore a tutti, perché per lei era così. Mi amava immensamente, come amava quel piccolo uomo che aveva sposato e che l’aveva accettata com’era: con i suoi misteri e le sue strane abitudini. Mi aveva amato anche dal letto di morte, quando invece io l’avevo odiata perché se ne stava andando e stava lasciando da soli me e il babbo.

    «La mamma non se ne vuole andare, non vuole lasciarci. È un male cattivo che se la sta portando via».

    Mio padre mi aveva spiegato che si trattava di cancro, un nome che nella mia mente evocava una strana bestia, un incrocio tra un cane e un ramarro. Le si era attaccato allo stomaco e la stava mangiando da dentro. L’immagine di un piccolo cane coi denti più grandi del corpo e la coda lunga come tutto l’intestino di mia madre mi aveva perseguitato per anni, anche dopo la sua morte.

    Un urlo mi riporta al mondo dei vivi. Mi giro di scatto e mi guardo intorno, alla ricerca di un maniaco omicida con qualche attrezzo infernale in mano, ma il mio è solo un trip mentale. Poco distante una donna sta salutando un’amica che non vede probabilmente da due giorni come fosse appena sbarcata dalla Luna. Tra me e me maledico tutte le donne e le loro vocine stridule.

    Torno al giornale:

    "Il ritrovamento è avvenuto ieri, alle prime luci dell’alba. Sul luogo sono subito accorsi Polizia, Carabinieri e Vigili del Fuoco. Il cadavere è stato trasportato ieri in tarda mattinata all’ospedale San Salvatore per l’autopsia. Ora è aperta la caccia al mostro. Si indaga nella cerchia ristretta di parenti e amici della vittima, alla ricerca di indizi che possano portare nuova luce su quanto accaduto".

    Scorro velocemente il resto della notizia. Per lo più dettagli irrilevanti. Nulla sul possibile movente o su eventuali persone indagate. Nulla di nulla.

    Riprendo a camminare, dirigendomi verso il laboratorio. Sono in ritardo di qualche minuto. La Manfuso, la direttrice, riesce a sapere ciò che faccio ancora prima che io decida di farlo. So già che appena varcherò la soglia dell’ufficio, lei sarà lì, con il dito indice puntato sull’orologio.

    Passando davanti ai cartelloni dei necrologi rivedo la foto di Arianna. Mi fermo un istante ancora. Questa foto è diversa da quella del giornale: qui è seria, vestita elegantemente in giacca e camicia, e sorride felice. Non ci sono date per il funerale. Dovendo effettuare l’autopsia presumo che passerà molto tempo prima che sia possibile organizzarlo. In basso però scorgo una scritta: "Per chi volesse commemorare il ricordo di Arianna, una messa in suo onore si terrà martedì 15 luglio alle ore 18:00 presso il Duomo".

    Cazzo, domani.

    Riprendo a camminare, questa volta ripassando mentalmente i nomi dei miei ex compagni di classe.

    2.

    Pesaro, 15 e 16 luglio 2014

    Fuori dal Duomo il termometro della farmacia comunale poco distante segna 32 gradi. Il porfido sotto i miei piedi sembra friggere. Mi sto letteralmente squagliando. La carta della sigaretta mi rimane attaccata alle dita sudate. Aspiro il fumo anche con il naso, fino a quando non sento il bruciante sapore del catrame lungo le vie aeree, giù in gola, fino agli alveoli polmonari.

    Mi guardo intorno. Le donne, al mio fianco, strette nei tubini neri aderenti adatti all’occasione, chiacchierano sommessamente. I loro occhietti indagatori corrono da una persona all’altra. Sembrano indifferenti al caldo, troppo prese a bisbigliarsi commenti su quanto accaduto.

    Guardo la facciata di pietra del Duomo, il grigio rosato dei mattoni sfuma nei toni del cenere e del nero, degli abiti delle persone e del mio umore.

    Sbircio dentro, scorgendo la madre di Arianna seduta in prima fila. Anche da qui, riesco a vedere la sua schiena curva e un nugolo di persone che le girano attorno. Mentre sono ancora ferma sulla soglia, il sagrato della chiesa si affolla all’improvviso di gente di tutte le età e di tutti i tipi. Guardando chi mi circonda cerco di farmi un’idea delle frequentazioni di Arianna in questi anni. Mi sento un po’ invadente, in questo momento. In fin dei conti non le rivolgevo più la parola da nove anni.

    Ieri, dopo aver visto la locandina con la sua foto, andando al lavoro, ho contato mentalmente gli alunni della mia vecchia classe. Una volta in laboratorio ho scritto su un foglio quella lista di nomi, per evitare di dimenticarla. La sera stessa poi, a casa, ho chiamato tutti quelli che ero riuscita a rintracciare, sperando di non essere sola, sperando che qualcuno avesse piacere di essere presente qui, oggi. Risultato? Tra le tante false amiche e compagne di scuola io sono l’unica a esserci. Ripensando alle parole scontrose delle persone a cui ho telefonato, un rigurgito acido mi sale in gola.

    Primo tentativo:

    «Ciao Betta, sono Noelia Basetti. Ti ricordi? Siamo state a scuola insieme alle superiori!».

    Tu… tu… tu…

    «Stronza! Che cazzo ti costava fare due chiacchiere con una tua ex compagna di scuola?».

    Secondo tentativo:

    «Ciao Elena, sono la Basetti delle superiori. Ti ricordi?».

    «Sinceramente no!».

    «Mmm, bene!».

    Terzo tentativo:

    «Ciao Omar, sono Noelia, la tua compagna di banco delle superiori».

    «Ah, ciao. Cosa vuoi?».

    «Ehi, a volte la gente chiama anche solo per fare due parole!».

    «Sì, come no! Dai, dimmi che cazzo vuoi!».

    Dopo ben ventidue telefonate, alcune delle quali senza risposta, solo un paio di persone mi hanno risposto con un incerto. Non so perché, ma una vocina mi dice che oggi non si presenterà nessuno. Medito con amarezza su ciò che è accaduto. Forse che la ragazza più desiderata della scuola, Miss Scientifico per ben tre anni, sia morta e nessuno si faccia vivo per ricordarla? Evidentemente a nessuno importa un granché della tua fama quando sei sottoterra. In momenti come questo, i pensieri più sconclusionati si affacciano alla nostra mente: e infatti poco dopo mi chiedo se al mio funerale si presenteranno in tanti. Guardandomi intorno non

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