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L'infelicità del gatto
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Ebook450 pages6 hours

L'infelicità del gatto

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About this ebook

Che cosa accade quando s’incontrano, soprapponendosi, le vite, assolutamente diverse, di un geniale ingegnere informatico, introverso ed enigmatico, una giovane e originale investigatrice privata e di un alto funzionario di Polizia, psicopatico e sanguinario?

Sacha è un ingegnere informatico, che di notte si trasforma in un temibile hacker. È tormentato da abitudini e pensieri autodistruttivi radicati nel profondo della sua anima solitaria. Le uniche persone della sua vita sono la madre e la nonna, da cui ha ricevuto l’amore e i migliori ricordi. Quelli che gli daranno la forza di cambiare e di affrontare importanti sfide per sé e per il suo mondo.

Aurora è un’investigatrice privata: anticonformista, single, ironica, politicamente impegnata, con complicate relazioni sentimentali, che ama il suo lavoro, ereditato dal padre. Vive con un gatto in una grande casa vuota e trascorre il suo tempo libero tra la passione per la lettura, il buon vino e la compagnia della sua unica, pazza amica.

Lo “Sceriffo” è un personaggio inquietante, con un passato oscuro e un presente di loschi affari, con legami e protezioni importanti nel mondo della politica e delle istituzioni. Dominato dal senso del possesso, è completamente in balia delle sue pulsioni morbose e violente.

Altri personaggi s’intersecano con i tre principali in un ritmo incalzante, ricco di flashback, creato da capitoli brevi e febbrili che costruiscono come un puzzle, il senso della storia. Le voci narranti si sottraggono vicendevolmente la scena, tanto sembra urgente il loro desiderio di raccontare.

“L’infelicità del gatto” è un noir, ma anche un racconto ironico, divertente, a tratti molto feroce, che affronta in un modo insolito l’animo umano e il nostro quotidiano. Narrando in prima persona, i protagonisti ci raccontano il nostro tempo, con le sue contraddizioni e i grandi cambiamenti culturali, sociali e politici che, attraverso la tecnologia applicata al quotidiano e i social network, stravolgeranno le loro vite prospettandoci una visione nuova dell’uomo e del suo imminente futuro.

Descrivendo le vicende convergenti dei personaggi si dipana un romanzo inconsueto dove viene sottolineato, estremizzato, il concetto del bene e del male. I loro sentimenti d’amicizia, d’amore, d’ironia, di tradimenti, di dolcezza, di solitudine e di violenza s’intrecciano tra il lago di Como ed il Canton Ticino per poi finire a Londra. Tutti i personaggi del racconto sono costretti, dagli eventi, a fare delle scelte importanti, e quindi a cambiare. Ed è proprio il cambiamento con i suoi traumi e le sue opportunità uno degli elementi portanti, sicuramente uno dei pilastri del romanzo.

Biografia

Giacomo La Franca ha cinquant’anni e vive a Milano. Lavora per una grande società di telecomunicazioni e si occupa di marketing. Ha pubblicato con la casa editrice Eclissi il suo primo romanzo dal titolo, “Pietre Cadute”.

“L’infelicità del gatto” è il suo secondo romanzo.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateJan 20, 2017
ISBN9788892647282
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    L'infelicità del gatto - Giacomo La Franca

    Indice

    Parte prima

    Sacha

    Aurora

    Fumo l’ultima sigaretta

    Io so perfettamente chi sono

    A Milano con Angela

    La solitudine non è vivere soli

    Dentro il Karma

    Il desiderio è un’ossessione oleosa

    Io Ballo da sola

    Lo sceriffo

    Suona la veglia

    L’incontro di pugilato

    La solitudine di Morpheus

    Maledetto il giorno

    La prima volta

    Una vita tutta mia

    Parte seconda

    Uno vale uno

    Diecimila passi

    Il Signore del dolore

    Le solitudini convergenti

    Mi chiamò Silvana

    In Libreria

    Fu in una notte di pioggia

    Fuori dalla libreria

    La vita degli altri

    L’incantesimo del male

    La seconda volta

    Per sempre

    I giorni a Como trascorrono sereni

    La verità è che non gli piaccio abbastanza

    Parte terza

    Il Midollo del bosco

    Tutta la città ne ha parlato

    Un chiodo fisso e non riesco a dormire

    L’ultimo pezzo del puzzle

    In fuga

    Herbert Von Kurzberg

    Mustafa Al Mashadani

    Ci siamo addormentati guardando il lago

    Quattro proiettili e un bacio

    Tanti sono i pensieri

    Zeus

    Guido piano

    Il tempo ritrovato e quello perduto

    Sotto falso nome

    Giacomo La Franca

    L'INFELICITÀ DEL GATTO

    Questo racconto è opera di pura fantasia.

    Ogni riferimento a fatti o persone realmente esistite o esistenti è puramente casuale.

    ISBN | 9788892647282

    Prima edizione digitale: 2017

    © Tutti i diritti riservati all’Autore

    Youcanprint Self-Publishing

    Via Roma 73 - 73039 Tricase (LE)

    info@youcanprint.it

    www.youcanprint.it

    Questo eBook non potrà formare oggetto di scambio, commercio, prestito e rivendita e non potrà essere in alcun modo diffuso senza il previo consenso scritto dell’autore.

    Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata costituisce violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla legge 633/1941.

    Quella che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla.

    Lao Tzu

    Non c’è nulla di immutabile, tranne l’esigenza di cambiare.

    Eraclito

    La vita è una meravigliosa occasione fugace da acciuffare al volo tuffandosi dentro in allegra libertà.

    Dario Fo 

    Parte prima

    Sacha

    È trascorso un po’di tempo da quando ho seppellito mio padre. Mi capita ancora di rivivere i momenti di quel giorno come se fossero accaduti a un altro, come se qualcuno mi avesse raccontato la storia di un uomo, trovato privo di vita e con i pantaloni abbassati, in un anfratto di una spiaggia nei pressi di Cernobbio. Infarto, dissero i carabinieri, e dentro le loro divise nascondevano a malapena grasse risate.

    Io sono un’anima divisa in due, il risultato vigliacco dell’unione di due persone che, per quell’assurda paura del vivere da soli, ha deciso di condividere l’esistenza pur essendo assolutamente estranei l’uno all’altra. Io sono questo frutto anarchico e sterile, la conseguenza di un matrimonio sbagliato tra un commercialista pugliese al soldo dell’industria comasca e di un’erborista ticinese stregata dall’alchimia delle pozioni e delle erbe aromatiche.

    Oggi ho pensieri ombrosi e le mura del mio appartamento mi opprimono. Vago in rete alla ricerca di qualcosa, di qualcuno, di una risposta che non c’è, anche perché la domanda comincia a non avere più senso, logica, contorno. Mi lavo la faccia e mi vesto, infilo «La versione di Barney» nello zaino e vado. Pedalo e pedalo, poi incateno la bicicletta a un palo che guarda il lago e inizio la mia passeggiata verso Villa Olmo. M’imbatto in un’opulenza malcelata e in una povertà tenuta a fatica sotto i livelli di guardia. Da queste parti non essere ricchi è fonte d’imbarazzo. Mi siedo su di una panchina e guardo la gente passare, la cupola del Duomo, la funicolare che sale su fino a Brunate. Vivo praticamente da solo in questa città che non offre nulla se non una falsa cultura incanalata e socialità controllata e stagna: stare qui significa il vuoto. Eppure Milano è così vicina, dicono che sia il centro del mondo. Se il lago e le montagne non fossero così belli, me ne sarei già andato, ma rimango qui, passeggio e penso. Lancio nel lago piccoli sassi a formare cerchi d’acqua: causa ed effetto, amo la limpidezza di questo principio.

    Anche oggi è un altro giorno di libertà, una settimana fa, dopo undici anni, mi sono licenziato. Provo, a correnti alterne, sensazioni di sollievo e paura per il futuro, insieme a un violento senso di colpa, come se avessi trasgredito profondi e religiosi doveri verso il mio datore di lavoro che negli anni si è arricchito sfruttandomi, usando il mio tempo, la mia fantasia, il mio intelletto e la mia grande capacità di costruire programmi veloci e ben architettati che si rivendeva a caro prezzo, riconoscendomi in cambio uno stipendio da fame. Non è stato facile liberarmi di lui, uno schiavo non può semplicemente alzarsi e andarsene. Ci sono orpelli legali da rispettare, clienti da soddisfare, passaggi di consegne e carte da firmare. Quando la mia pazienza arrivò al limite della sopportazione, gli rivelai che avevo un tumore al cervello e che mi avevano diagnosticato circa tre mesi di vita. Questa bugia mi salvò da ulteriori inutili spiegazioni accorciando le trafile burocratiche. La morte fa orrore anche al più avido e avere in azienda un futuro cadavere convinse Marco a liberarsi di me prima possibile. Mentendo, tutto divenne più semplice, e in poco tempo, firmai il licenziamento e ottenni la liquidazione. Ero ormai merce di scarto, in ogni caso ero stato sempre qualcosa di simile a un morto vivente, capace di programmare meglio di tutti, ma impossibilitato a vivere, ad avere una qualsiasi relazione umana.

    «L’hai mai visto ridere? Poi sempre vestito di nero e così grasso, un tipo strano, poverino però…» Non l’ho ancora detto a mia madre, anche perché da un po’ di tempo la sento lontana e diversa, sono molto preoccupato per lei. A volte la vedo uscire a tarda sera per ritornare all’alba accompagnata sempre dalla stessa enorme auto, lucida e scura. Il suo passo incerto lungo il vialetto di casa mi stringe il cuore.

    In questi giorni ho imparato a godermi il momento, i ritmi lenti, il «fantastico nulla» così l’ho chiamato. Mi sveglio tardi e con calma metto piede in me stesso, faccio colazione e poi vado in giro in bicicletta ammirando il lago, visitando le librerie di Como per perdermi tra i romanzi, portandomene a casa sempre qualcuno. Mangio con gusto e m’impongo di farlo lentamente riscoprendo i sapori in una città che s’ingozza velocemente per ritornare prima possibile a produrre merda, scorie, immondizia, plastica e gas tossici.

    Solo Herbert, tra le poche persone che contano nella mia vita, sa della mia ritrovata libertà. Mi ha scritto scherzandoci sopra:

    «Finalmente! Adesso possiamo lavorare insieme per mettere in ginocchio il sistema informatico americano?»

    Herbert odia gli Stati Uniti più della sua malattia, della quale non mi ha mai parlato, ma so che esiste, ne ho la netta sensazione, ed è un ostacolo insormontabile tra noi. La nostra amicizia è nata ed è rimasta all’interno dei confini del web e ho sempre rispettato silenziosamente questa sua decisione. So poche cose di lui, ma molto probabilmente, come me, ha una doppia identità: una grigia e squallida esistenza nel mondo reale contro una misteriosa ed esaltante realtà virtuale.

    Ho conosciuto Herbert quando ha tentato di penetrare e prendere il controllo dei server nell’azienda in cui lavoravo. Lui attacca quasi esclusivamente le società di software nella speranza di trovare qualcuno degno con cui confrontarsi. Credo che in diverse occasioni sia stato la disperazione di molte banche e associazioni politiche ed ho fondati sospetti che Solaris, uno dei peggiori virus della storia dell’informatica, sia stato una sua creatura ma ovviamente non ne avrò mai la certezza.

    Lascio i miei pensieri e cerco dentro di me, una motivazione, la forza d’alzarmi e ritornare a casa, dove non ho nessuno che mi aspetta, dove molto probabilmente non ci sarà mai nessuno. È una consapevolezza che oscilla tra la rassegnazione e una strana forma di sollievo. Ho smesso ormai di cercare, d’illudermi di poter piacere a una ragazza, e avendo elaborato questa sorta di lutto di una persona che non è mai esistita, mi trovo a volte a compiacermi della mia solitudine, a gustarmi una sorta d’amara infelicità di cui comincio ad apprezzarne il sapore.

    Dovrei andare a trovare mia madre, ma non ho voglia di spiegarle perché non sono al lavoro, forse non me lo chiederebbe, lei conosce già le risposte, le raccoglie dai miei silenzi, è sempre stato così tra noi. Sono tante le domande che vorrei fare a lei, ma dovrei trovarne il coraggio che per adesso mi manca.

    La mia mansarda ha un ingresso indipendente, così da non essere costretto a passare da casa. È stato difficile farmela cedere da mio padre, lui voleva che continuassi a vivere con loro, nella mia stanza da ragazzo. Solo quando ho detto a mia madre che sarei andato via, perché avevo bisogno di uno spazio mio, ha imposto a mio padre di lasciarmela. Ho fatto abbattere le mura interne prima di andarci ad abitare, trasformandolo in uno spazio totalmente aperto. Entrando si vede un grande tavolo in vetro, dove tre computer, circondati da libri, riviste d’informatica, posaceneri, lattine e bottiglie di plastica, sono perennemente collegati a internet. Attaccato alla parete, troneggia uno schermo piatto da cinquantacinque pollici, la mia grande finestra sul web.

    Mia madre definisce «osceno» il mio appartamento, con il letto dalle lenzuola nere e un disordine, dove è difficile trovare qualsiasi cosa senza avere una memoria di ferro. Altri lo definirebbero macabro, ma lei no, lei è diversa.

    «Perché osceno?»

    «Perché offende il pudore degli occhi.»

    Sorrisi, la trovai una definizione perfetta, inattaccabile.

    Sorrise anche lei.

    Herbert che ha visto la mia mansarda in video chat ne è rimasto entusiasta, naturalmente non ha acceso la sua webcam, non conosco neanche la sua voce.

    «Non ho mai visto l’astrattismo applicato all’arredamento.»

    «Mi stai prendendo per il culo?»

    «No, è veramente bella … da un senso di libertà.»

    «Ti posso garantire che è un’espressione artistica assolutamente involontaria.»

    Tra me e lui fu una dura lotta di altissimo livello informatico, a tratti sperimentale, di grande tensione intellettuale che mi coinvolse totalmente. Per giorni vidi i suoi tentativi d’intrusione, prima banali poi sempre più sofisticati, tentò di tutto e devo dire che nessuno fino ad allora mi aveva messo in difficoltà come aveva fatto lui. Lo immaginavo incazzato davanti al suo schermo perché non gli permettevo di superare il perimetro di protezione che avevo creato per salvaguardare la mia rete di computer da aggressioni esterne. Alla fine decisi di attaccarlo io e fargli paura e gli lanciai contro l’esploratore, un software di mia invenzione, per tentare di risalire alla sua fonte. Ci misi più di un’ora per trovarlo, quando con un utente normalmente anonimo mi sarebbero bastati un paio di minuti. Fui anche fortunato e quando tentò l’ennesima intrusione, l’esploratore lo agganciò e gli si attaccò alle palle come un mastino napoletano. Allegai una foto di Serena Roccaforte e gliela spedii con un messaggio: «Invece di rompere i coglioni agli altri, fatti una sega con una pinzetta brutto stronzo!»

    Avevo vinto e lui riconoscendolo diede termine al suo attacco.

    Durante il duello avevo però imparato a conoscerlo e chiaramente non era uno dei soliti sbarbatelli presuntuosi che si trovano in giro nel web, era uno tosto, uno che masticava informatica a colazione, uno che poteva prendere una rete dati, una piattaforma di un’azienda e non farla lavorare più, bloccandone le fatturazioni, i processi produttivi, lo scambio d’informazione e gli approvvigionamenti. Poteva fare impazzire un magazzino e gettare nel panico assoluto qualsiasi responsabile del Ced e prendersi gioco di ogni fighetto che si dava arie da It Manager e che si sentiva sicuro solo perché aveva comprato un paio di firewall d’ultima generazione ma assolutamente indifeso davanti a un demonio come Herbert. Lui non si accontentava di distruggere i server di un’azienda, di una banca, di una testata giornalistica, vi entrava e ne assumeva il comando facendo il bello e il cattivo tempo, mettendola nei guai.

    Rimase impressionato dal fatto che fossi riuscito a individuarlo. Trovare un hacker in rete è quasi impossibile, poiché se viene scoperto passa un bel po’ di guai e quindi tutela la propria identità ai massimi livelli. Ero curioso di conoscerlo e gli proposi d’incontrarci in un terreno neutro, in un luogo virtuale dove entrambi avremmo potuto proteggere il nostro anonimato, accettò e così diventammo amici.

    Salgo sulla bilancia che ormai m’insulta. Fino ad oggi ho sfogato le mie frustrazioni, nell’alcool e nelle canne, nel cibo spazzatura, quello dei grassi cattivi e degli oli mortali, nelle sigarette fumate di fretta, in continuazione e senza alcun gusto solo per nascondere dietro ad una cortina di fumo lo squallore della mia vita provinciale e solitaria. Sono grasso e altissimo con una forma a pera che rende il mio corpo sgraziato; neanche il nero dei miei vestiti riesce a nascondere la deficienza dei miei gesti impacciati, del mio aspetto imbarazzante. Il pensiero romantico, mentre mi verso due dita di whisky, è quello di iniziare una sorta di purificazione. Mi conforta il fatto d’avere eliminato il lavoro che stava irrimediabilmente avvelenando la mia vita, in fondo è facile demolire, costruire invece mi spaventa. Abbattere un vecchio muro è adrenalinico, ma portare le macerie in discarica mi appare come un’impresa faticosissima e noiosa, ed io sono complice della mia pigrizia.

    Dovrei vestirmi e uscire di nuovo, andare a comprare qualcosa da mangiare e un po’ di sacchi per l’immondizia. Non ho ancora il coraggio d’iniziare a ricostruire me stesso, ma almeno le macerie oggi devo cominciare a toglierle.

    Dopo esserci incontrati in una chat room neutrale, io e Herbert abbiamo deciso di creare una birreria virtuale dove ci troviamo con i nostri avatar. È un luogo ideale, che abbiamo costruito insieme, in cui abbiamo messo tutto ciò che ci piace: la musica che amiamo, i poster dei nostri gruppi preferiti, i quadri, un po’ di ragazze virtuali e le migliori marche di birra. La barista l’ho disegnata io con delle grandi tette, un culo da urlo e una voce molto calda e arrapante. Mi sono divertito da matti nelle vesti del dottor Frankenstein, e tutte le volte che entriamo ci fa dei grandi sorrisi civettuoli, servendoci, da scollature vertiginose, grandi boccali di birra schiumosa. È lì che Herbert mi ha detto:

    «C’è una cosa che non riesco a capire nella morte di tuo padre, lui era un uomo facoltoso e avrebbe potuto permettersi una puttana d’alto bordo: perché andarsene a raccattare una per strada?»

    Rimasi in silenzio continuando a bere birra a piccoli sorsi e non risposi alla sua domanda. In fondo neanche lui risponde a tutte le mie domande.

    Aurora

    Lo Sceriffo è venuto a cercarmi, l’ho visto dalla telecamera dell’ufficio e non gli ho aperto. Lo Sceriffo non avvisa mai, crede che il mondo sia sempre lì ai suoi piedi, ad attendere un suo comando. Il soprannome gliel’ha messo mio padre e gli sta proprio a pennello, gli manca solo la stella e poi sembrerebbe proprio quel fascista John Wayne. Da quando papà è venuto a mancare, mi ha dato qualche lavoretto, che io ho accettato controvoglia e solo per pura necessità economica. Quest’uomo mi fa paura e la sua gentilezza sembra più una minaccia. Quando veniva a trovarci un velo scuro calava sul volto di mio padre e non mi permetteva d’ascoltare ciò che si dicevano. Chiudeva la porta del suo ufficio che confinava con il mio, non lo faceva mai con gli altri clienti. Quando lo Sceriffo se ne andava, si accendeva una sigaretta e usciva a fare una passeggiata solitaria, giù fino a raggiungere il lago.

    Mi sono arrivate le mestruazioni e sono dolorose come sempre.

    Ho le ovaie policistiche. «Una specie di tempesta ormonale», mi ha detto la ginecologa.

    «È l’unica tempesta che ho là dentro da un anno a questa parte.»

    Mi ha dato la pillola e mi è venuto da ridere.

    «È solo per tenerle a riposo e non farle lavorare troppo», e ha sorriso anche lei. Dovrei davvero cominciare a prenderla. Magari mi porta un po’ di fortuna. L’ultimo uomo che ho avuto era così stupido e inaffidabile che avrei dovuto piantargli una pallottola in fronte per sottrarlo alla sua imperdonabile idiozia, come si fa con i cavalli quando si azzoppano: per pietà. Allora però non portavo la pistola, c’era ancora mio padre, adesso non esco mai senza la sua 98 FS ed è come se lui fosse ancora con me, come se questo pezzo di ferro violento che gli apparteneva me ne facesse sentire ancora la solidità, la presenza reale che mi manca fino al dolore e alla nostalgia più profonda.

    Fumo l’ultima sigaretta

    Fumo l’ultima sigaretta, di un pacchetto finito velocemente, quella che mi convincerà a uscire. Vago per questa mansarda evitando lo specchio che mostrerebbe lo sfacelo del mio corpo obeso, della mia trippa ballerina, del mio seno peloso e ridicolo in un uomo con addosso solo un paio di mutandoni. Il mio armadio è una macchia scura; prendo a caso un paio di pantaloni e una camicia nera. Non so quale scienziato, forse Einstein, o forse l’ho visto in un film, aveva un guardaroba di vestiti tutti uguali, per non perdere tempo in inutili accostamenti. Finisco di fumare guardando dalla finestra, la mia dirimpettaia sta pulendo i vetri del soggiorno. Ha un vestitino leggero, a fiori, ed io la guardo riempire la stoffa quando si abbassa a sciacquare il panno. Queste visioni rubate, che mi eccitano moltissimo, alimentano le mie fantasie erotiche portandomi poi a amarmi anche due volte al giorno quando i miei ormoni non mi danno pace e urlano vendetta. Naturalmente ho un archivio pressoché infinito di film porno che non guardo quasi più ad eccezione di quelli in cui la protagonista è Serena Roccaforte, la mia porno star preferita. Anche la mia vicina non è male, conserverò nella memoria questo suo sali e scendi per la prossima seduta d’autoerotismo. Faccio una doccia e mi preparo un caffè. Da qualche giorno mi tengo lontano dal web, sto cercando di disintossicarmi ma non riesco a resistere ed essendo molto accondiscendente con me stesso mi concedo una sbirciata nella mail che uso per le comunicazioni convenzionali.

    Ciao!

    Mi fa molto piacere che ti ho trovato.

    Sarebbe molto bello se ci conosciamo meglio.

    Voglio dirvi molto su me stesso.

    Ma ora voglio solo parlare un po' su te stesso!

    Il mio nome Zemfira io vivo nel paese di Azerbaigian. La mia città si chiama Askeran. Non e grande…

    Sorrido della traduzione balorda di un traduttore gratuito, sogno però una fidanzata, una ragazza con cui scrivermi e chattare, da andare a trovare e con cui passeggiare, ridere, fare l’amore, corteggiare e che mi guardi con passione. Un desiderio irrealizzabile per me che mi devo accontentare dei surrogati, dell’arido paradigma causa-effetto, denaro-sesso. In passato m’intrigava moltissimo lo spiare la vita e le passioni delle ragazze che incontravo per caso sul treno o in un bar. Stava diventando però un’ossessione molto pericolosa che avrebbe potuto causarmi guai molto seri.

    ***

    Devo assolutamente uscire a comprare qualcosa. È ormai una settimana che uso la carta igienica al posto dei tovaglioli e vedermela a tavola mi da un senso di sconforto che solo una buona dose d’ironia riesce a strapparmi un sorriso sulla disastrosa condizione in cui versa la mia vita e il mio appartamento. Bevo un caffè e penso che dovrei fare qualcosa anche per i miei capelli, qualsiasi cosa tranne andare dal parrucchiere. Scegliere un taglio in questo momento mi sarebbe impossibile, a malapena riesco a decidere che birra mettere nel carrello, figuriamoci il panico davanti alla domanda: «Allora signorina come li facciamo?» Potrei alzarmi e scappare via con tutto il telo addosso. Però qualcosa bisogna proprio fare per questo enorme cespuglio che ormai vive di vita propria con indomabili e imbarazzanti iniziative mattutine. E ormai anche la carta igienica è finita. È deciso, passo prima dalla mia amica erborista e poi andrò a fare la spesa.

    ***

    Per abitudine, per comodità, ma soprattutto per pigrizia frequento ancora i supermercati. Quando entro, la cassiera va subito in apprensione vedendo quest’omone tutto vestito di nero con un passo da elefante ubriaco. Mi segue con lo sguardo e istintivamente avvicina la mano verso il pulsante dell’allarme. Ormai ci ho fatto l’abitudine, la guardo e le faccio un candido sorriso mai ricambiato. Essere tra migliaia di prodotti mi confonde, la troppa quantità mi lascia smarrito e spesso esco dimenticandomi qualcosa di essenziale, portandomi invece a casa l’inutile e il superfluo, la loro strategia di marketing fa breccia nella mia mente disordinata. Oggi però voglio tenere la barra dritta: compro un rotolo di sacchetti viola e uno di quelli neri. Non posso fare a meno di passare davanti al bancone dei liquori e prendo una bottiglia di rum e vagando: patatine, noccioline una confezione di toast, melanzane sott’olio, sottilette e alla fine una catena a maglie grosse: ormai vendono di tutto nei supermercati. I lucchetti con il temporizzatore mi sono arrivati ieri, la mia barra ha sbandato sugli alcolici e le patatine ma tutto sommato è andata bene. La cassiera guarda la grossa catena, poi guarda me. Le sorrido ancora: nessuna reazione, meglio non insistere.

    Dovrei avvisare mia madre prima di andarmene a Brunate. Non riesco ancora a raccontarle del mio licenziamento, le dirò che non avevo voglia d’andare al lavoro e che mi sono preso un giorno per me, per riposare un po’. Lei sorriderà dicendomi che dovrei farlo più spesso.

    È raro che mia madre venga a trovarmi nel mio appartamento e solo recentemente ho pienamente compreso il suo rispetto per la libertà altrui che per molti anni ho interpretato come una forma di noncuranza. Ha un carattere piuttosto particolare e crede a tutto ciò le si dica, rifiuta ogni forma di sospetto che è alieno al suo modo d’essere. Ho capito che Il bene e il male, per lei, non esistono, che riesce a perdonare ogni cosa, che c’è solo un principio: stare bene ed essere felici, il resto non conta nulla. Non sono, però, mai riuscito a capire perché un essere così gioioso e allegro che ama la vita nelle sue forme più colorate si sia legata a mio padre che era la quintessenza del possesso che l’asfissiava con la sua gelosia con contorno di allucinanti scenate solo perché lei era curiosa e senza filtri nell’esprimere le proprie opinioni. Una scelta sentimentale incomprensibile, determinata forse da una fragilità e da un’infanzia cresciuta all’ombra di una madre forte come un uomo e cattiva come il diavolo che di mestiere, da ragazza, aveva anche fatto lo spallone, contrabbandando sigarette dalla Svizzera all’Italia. Lo dico al maschile perché meglio si addice al suo essere stata una donna davvero vigorosa, con un carattere molto duro.

    ***

    Al liceo erano tutti convinti che fossi lesbica solo perché portavo gli anfibi e non ho mai messo una gonna in cinque anni. Di truccarmi non se ne parlava proprio, ancora oggi non sopporto il fondotinta, mi sembra d’avere una maschera in faccia. Solo all’università, in onore di un ragazzo che mi piaceva moltissimo, ho scoperto le meraviglie del rossetto e della matita per gli occhi. Al primo appuntamento misi anche i tacchi per rendere la nostra differenza d’altezza po’ meno disperata. Mi sentivo una strafiga con i tacchi e un maquillage che, guardandomi allo specchio, mi faceva sentire veramente bene, ma, vista la condizione monacale da cui partivo, anche un po’ troia e contenta di esserlo.

    Alla seconda uscita e dopo avergliela data con somma soddisfazione, mi confessò d’essere fidanzatissimo e scomparve come il Conte di Montecristo dalla prigione. Mai più visto. Mi rimase però il rossetto e la matita e da allora non me ne sono più separata apprezzando il fatto di quanto possa fare bene a una ragazza uno strato di grasso colorato sulle labbra e una passata di nero intorno agli occhi.

    Con questi ricordi raggiungo il centro di Como. È improvvisa la vista del lago, un piccolo tuffo al cuore, una sorpresa ogni volta diversa nei colori e nelle forme. Viaggio leggera tra la gente, oggi il cielo è terso dopo quasi una settimana di pioggia. Andrò prima in erboristeria, la proprietaria è veramente simpatica ed ha un meraviglioso magnetismo negli occhi e nel sorriso che m’incanta, una di quelle donne senza età con un fisico atletico e ben curato e una piccola, quasi invisibile, ragnatela di rughe intorno agli occhi che la rendono ancora più affascinante.

    ***

    C’è un miscuglio di profumi dentro il negozio di mia madre che non ho mai saputo definire, una combinazione di aromi che hanno sempre tenuto sospeso il mio giudizio. Ma il sorriso che lei regala a chi entra non lascia dubbi sulla bontà di quelle quattro mura colorate e odorose, con gli scaffali pieni di vasetti dai nomi strani e una tenda rossa che nasconde uno sgabuzzino da alchimista.

    «Che sorpresa! Il figliol prodigo in visita dalla mamma.»

    «Diciamo piuttosto un pellegrino in cerca di alchimie.»

    «Oggi però solo code di rospo e lingua di serpente.»

    «Una doppia razione di lasagna no?»

    «Per quella c’è il ristorante all’angolo.»

    «Lo sai che potrei chiamare il telefono azzurro?»

    «Per cosa?»

    «Per abbandono di minorato.»

    Mi piace la sua risata argentina. Mi da un bacio ed io scappo dal suo abbraccio perché m’imbarazzano un po’, le sue carezze mi fanno sentire ancora un ragazzino. Vado un po’ in giro per il negozio rovistando con lo sguardo tra gli scaffali.

    «Ma’, posso prendere un po’ di tè verde?»

    «Tè verde tu? Devi fare un regalo?»

    «Spiritosa.»

    «Prendi il Lung Ching, è la scatola sopra i semi di zucca, è arrivato ieri ed è il migliore.»

    Apro la scatola e odoro la leggera fragranza di un’erba che viene da lontano, da un Paese che non vedrò probabilmente mai, raccolto da persone che non conoscerò, che hanno scambiato parole, sguardi, sorrisi e pensieri mentre lo raccoglievano, lo lavoravano per inviarlo in Italia dove un trentenne metà italiano e metà svizzero se ne riempirà un mezzo sacchetto di carta nella speranza che gli possa fare bene, nell’illusione che lo possa aiuterà a scacciare l’autodistruzione.

    «Sacha, prendi anche un po’ di foglie di carciofo, ho notato che hai lo stomaco un po’ gonfio.»

    «Non ho lo stomaco gonfio sono proprio grasso, il carciofo dovrei ficcarmelo in bocca per non mangiare più.»

    Entra una ragazza, la guardo da dietro la tenda avendo di lei una visione a strisce, ma sufficiente per mettere in moto la macchina del giudizio che la valuta come non degna di nota: troppo bassa, con una massa di capelli esagerata che mi ricorda Napo orso capo, un cartone che vedevo da bambino. Giro le spalle e ritorno a curiosare tra i barattoli e le ampolle, i mortai e un enorme alambicco per creare e produrre oli essenziali e unguenti miracolosi contro rughe, smagliature e sbalzi d’umore che le signore comasche, piene di speranza, vengono a comprare da mia madre. Lei regala consigli e sorrisi comprensivi per il tempo che scorre inesorabile sul volto e sul corpo delle madame lacustri affamate di suggerimenti per nascondere, rallentare, esaltare, ridisegnare, illuminare e spendere per la giusta causa della loro beltà. Tra le tante erbe, droghe e spezie trovo un contenitore con su scritto «radice di Altea» della quale mia madre aveva vivamente consigliato l’infuso a mio padre per dargli sollievo dalla sua gastrite cronica. La sua risposta fu: «tutte minchiate» e continuò a imbottirsi di farmaci. Non vedeva di buon occhio questa passione per le erbe, insisteva spesso perché chiudesse il negozio, incassando sempre categorici rifiuti.

    Dopo il funerale non abbiamo mai più parlato di lui, non lo so perché, forse è ancora presto, forse non c’è niente da dire, forse c’è solo da portare fiori e memorie a una foto che con il tempo scolorirà, forse c’è solo da guardare una lapide che nasconde una bara con dentro più nulla, solo il pensiero e il rimpianto di un uomo che è stato qui e che avresti voluto conoscere meglio, amare, se solo ci fosse stata la possibilità di scavalcare il muro del suo egoismo.

    Ho un ricordo sfuocato di quel giorno, la casa piena di parenti dalla Puglia e dalla Svizzera. Gente con cui parlare, da dover ascoltare, l’auto nera, la bara, i fiori e le mie lacrime e quelle di mia madre: lacrime di ricordi, di sentimenti dimenticati, di occasioni mancate, di cose non dette che mai più potranno essere recuperate.

    Sento un rumore, un barattolo che cade e mi giro a guardare, nascosto dalla tenda. La ragazza si abbassa e raccogliendolo fa apparire da dietro la schiena il calcio di una pistola e alzandosi anche un bel culo, regalandomi un sorriso ormonale. Sento mia madre dire di non preoccuparsi e la ragazza scusarsi: parlottano ancora un po’ e poi si salutano permettendomi d’uscire dal mio nascondiglio.

    «Ho visto che sbirciavi, se non fossi così burbero, ti avrei presentato, si chiama Aurora: è carina vero?»

    «Troppo bassa e troppi capelli.»

    «Fai il difficile? Fossi in te, non starei tanto a guardare i centimetri, dato che i tuoi ti stanno così bene in verticale e molto meno in orizzontale.»

    «Faccio finta di non aver sentito, altrimenti dovrei ricordarti che mi hai tolto l’allattamento al seno prematuramente, è tutto qui il mio problema, me l’ha detto nonna.»

    Sorride. «A parte il fatto che tua nonna ormai direbbe qualsiasi cosa, sono comunque passati trent’anni e dovresti provare a fartene una ragione.»

    «Una ragione? Ma se solo con la Nutella riesco ad alleviare il ricordo doloroso del prematuro distacco.»

    «Comunque se continui a ingozzarti di Nutella presto potrai allattarti da solo e avrai risolto il problema.»

    Rido fingendomi offeso, mi piace moltissimo il suo modo di prendermi in giro.

    «Dopo questa me ne vado, ero passato per dirti che domani mattino andrò su a Brunate, penso di rimanere su fino a domenica.»

    «Allora dammi un bacio, anch’io non ci sono questo fine settimana. Però appena torno vorrei che cenassimo insieme.»

    «Okay, ma niente intrugli salutari, ti porto in un ristorante a Gravedona dove si esce sempre soddisfatti e con un colesterolo alle stelle.»

    Ci abbracciamo salutandoci e non le chiedo con chi trascorrerà il week end. Mi sembra contenta e questo mi basta, potessi esserlo anch’io.

    ***

    L’erborista è veramente carina, sono tornata a comprare un impacco per i capelli che miracolosamente riesce a dare forma e luce a questa massa satanica che mi porto in testa. Piacerebbe anche a me avere quell’aria serafica, quel sorriso pulito, si capisce subito, parlandole, che è una donna intelligente e dolce. Chissà come sarò io alla sua età. Le ho accennato che vorrei provare i fiori di Bach senza subire però un interrogatorio, poiché in un’altra erboristeria mi hanno detto che per essere consigliata al meglio bisogna che racconti quali sono i malesseri di cui soffro, di quali malinconie sono afflitta. Mi ha regalato un opuscolo dicendomi di leggerlo e di fare un test che come risultato mi porterà a selezionare i cinque fiori di Bach che più mi saranno utili e lei mi preparerà le gocce da mettere sotto la lingua quattro volte al giorno. Sono sempre stata scettica sulle brodaglie che preparano gli erboristi, mi sembravano parenti stretti di maghi imbroglioni e imbonitrici televisive che prima o poi trovi nei telegiornali in mezzo a un paio di carabinieri; ma l’unguento che ha domato i miei capelli mi ha fatto guadagnare fiducia nella bontà delle erbe e dei rimedi naturali che la signora prepara nel suo negozio.

    Dovrei vedermi con Paolo per delle foto da consegnare a una cliente, ma non ho voglia di tornare subito in ufficio, mi prenderò un gelato fermandomi a guardare il lago, a raccogliere i pensieri maltrattati dalla prospettiva di un fine settimana vuoto, da anziana zitella. Di pulire casa non se ne parla proprio, credo che passerò in libreria sperando che

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