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Insegnami ad amare
Insegnami ad amare
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Insegnami ad amare

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Romance - romanzo (195 pagine) - Gentile, simpatico, educato. Mi torturava senza sfiorarmi, mi confondeva le idee senza parlarmi, mi chiedevo in che modo fosse riuscito a impossessarsi di me...


Langhe, fine agosto 2010. La vita scorre fin troppo tranquilla nella cascina di Bossolasco dove la giovane Annita trascorre le sue giornate ad aiutare la famiglia nei campi e a rimuginare sul suo futuro, faticando a liberarsi da un’infanzia segnata dal dolore per la perdita di sua nonna, unica persona che le ha dato il suo affetto. L’impasse esistenziale di Annita viene sconvolta dall’arrivo inaspettato di David, giunto dall’Inghilterra come volontario del w.w.o.o.f. nelle attività agricole della cascina e appassionato lettore di poesie con cui lei, a poco a poco, scopre di avere una profonda sintonia. Qualcosa cambia per sempre, Annita scopre l’amore e si trasforma in donna insieme a David che, giunto al termine della sua permanenza in Italia, dovrà separarsi da lei. Restare o raggiungerlo? Cambiare vita per sempre o rinunciare alla felicità? Solo il cuore potrà deciderlo e darle il coraggio di compiere la svolta definitiva.


Stefania Fabrizi nasce a Roma il 18 giugno del 1977 e vive a Genova da molti anni, insieme al marito e ai loro due bambini. È laureata in Lingua e Letteratura Inglese e attualmente lavora come impiegata presso 3 Italia. Nel 2008 ha pubblicato un romanzo sentimentale e dopo una lunga pausa ha voluto provare a rimettersi in gioco con Insegnami ad amare. Questo romanzo è quindi il suo secondo lavoro ed è scritto in prima persona. Sebbene non sia autobiografico, include in sé aspetti che le appartengono come l’amore per la letteratura e per la musica, specialmente quelle inglesi, che vengono citate in più punti attraverso le opere e le canzoni dei suoi autori e dei suoi cantanti preferiti. Scrive le sue storie immaginandole come se fossero dei film proiettati nella sua mente e prende ispirazione da attori realmente esistenti su cui modellare i suoi personaggi. Tutto ciò la induce a coltivare il sogno di veder vivere sul grande schermo i suoi romanzi, un giorno.

LanguageItaliano
PublisherDelos Digital
Release dateJan 17, 2017
ISBN9788825400670
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    Insegnami ad amare - Stefania Fabrizi

    giorno.

    I.

    L’ultimo tratto di pennarello, sulle curve intrecciate del mio mandala, completò il disegno dopo venti minuti di concentrazione. Avevo preso quel foglio bianco e mi ero lasciata andare con la fantasia senza sapere ancora dove mi avrebbero portato matita e compasso. L’unica cosa che avevo deciso fin da subito erano stati i colori, il blu e il giallo, perché erano quelli che più di altri mi ricordavano l’estate.

    Erano circa le tre del pomeriggio e io ero seduta alla scrivania della mia camera da letto, approfittando di un momento di tranquillità per dedicarmi a quello che era diventato già da tempo il mio unico hobby, in compagnia della musica di Bowie che ascoltavo dal lettore cd appoggiato sulla scrivania alla mia destra.

    Capovolsi il foglio, come facevo d’abitudine quando il disegno era finito, e nell’angolo in basso a destra scrissi la data: 29/08/2010. Poi, in piccolo, lasciai la mia firma: Annita G..

    Lo sollevai stendendo le braccia davanti a me per studiare i dettagli dei decori, pensando soddisfatta che anche questo mi era venuto proprio bene. Mi guardai le mani colorate di blu che strofinai, sapendo già che sarebbe stato inutile provare a pulirle senza acqua calda e sapone. Mi stiracchiai allungando i muscoli intorpiditi e rilasciai un profondo respiro, vibrando per tutto il corpo. Sfilai l’elastico per sciogliere la treccia bruna, canticchiando una strofa di Starman¹ e sistemando i capelli che mi solleticarono le spalle, cadendo e oscillando come un sipario sulla schiena.

    Dalla finestra aperta sentii il rumore di una macchina in arrivo sulla strada alla sinistra di casa mia, gli pneumatici striderono sui ciottoli schiacciati sull’asfalto e quando mi affacciai vidi una piccola utilitaria scura giungere di fronte al cancello. Notai un angolo del cofano scorticato e dallo sportello vidi scendere una donna che mi era sconosciuta, ma di cui sapevo già nome, cognome ed età.

    – Rita Paolucci – mormorai sicura. Una donna di cinquant’anni, che da Roma era arrivata come volontaria del W.W.O.O.F..²

    Io stessa avevo confermato telefonicamente la prenotazione per lei e sua figlia Nausica, per darci una mano nella vendemmia dello Chardonnay. Da quello che mi avevano accennato nessuna delle due aveva avuto altre esperienze in aziende agricole come la nostra e avevano intenzione, un po’ come la maggior parte dei volontari che ci contattavano attraverso il W.W.O.O.F., di immergersi nella natura e di provare uno stile di vita diverso.

    Vidi Rita chiudere lo sportello e attendere di fronte alle sbarre del cancello, oltre il quale Oliver stava abbaiando. Mia cognata Gabriella uscì nel cortile dopo aver spinto il pulsante per aprire il cancello automatico, prese Oliver per il collare e insieme a lui si mise da parte facendo un cenno a Rita di entrare con la macchina.

    Io me ne tornai verso la scrivania e mi spostai lentamente i capelli sulla spalla destra, li divisi in tre ciocche che intrecciai per poi fermarle con l’elastico di spugna che mi ero sfilata dal polso usando i denti. Presi l’astuccio senza fretta, infilai i pennarelli, la matita, la gomma per cancellare e il compasso. Infilai il mio disegno nell’album insieme agli altri e pulii con le mani le briciole delle cancellature che avevo fatto all’inizio, perché non mi piaceva vedere la mia scrivania in disordine.

    – Benvenute! Michele Giordano, piacere.

    La voce di mio fratello risuonò nel cortile e sotto la mia finestra. Avevo già spento la musica e mi affacciai di nuovo, vedendo tutti e quattro scambiarsi le classiche cordialità tra sconosciuti. Studiai l’abbigliamento di Rita, lei indossava un paio di pantaloncini jeans come me, aveva una maglietta di viscosa a fiori annodata sulla pancia e ai piedi indossava degli stivaletti bassi da cowboy. Era attenta ad ascoltare il fiume di parole che mia cognata riversava su di lei e sulla figlia, limitandosi semplicemente ad annuire di continuo col capo.

    E poi eccola, Nausica. Mi ero fatta un’idea diversa di lei, me l’ero immaginata con i capelli rossi e ricci e invece erano castani e lisci, lunghi fino alle spalle. Era in carne, su questo non mi ero sbagliata, non so perché ma l’avevo già intuito dal suono della sua voce al telefono.

    Michele interruppe Gabriella perché stavano parlando in pieno sole e il caldo nel cortile stava diventando insopportabile. S’incamminarono verso la veranda per entrare in casa e a quel punto sapevo che avrei dovuto entrare in scena. Scesi le scale con tutta calma, ascoltando le solite domande di rito di Gabriella: Avete trovato traffico? oppure Com’è andato il viaggio?. Come voleva che fosse andato? Ovviamente bene, se erano arrivate lì sane e salve e poi che cosa le importava del traffico?

    Rita le rispose che da Roma a Ceva era filato tutto liscio, ma dopo l’uscita dall’autostrada e lungo il tragitto per arrivare da noi a Bossolasco, sua figlia aveva iniziato a soffrire il mal d’auto. Gabriella esclamò che avevano preso l’uscita sbagliata e che per trovare una strada migliore sarebbero dovute uscire a Millesimo e lo diceva con cognizione di causa, come se lei quella strada la percorresse tutti i giorni.

    Arrivai in fondo alla scala e li trovai tutti nel disimpegno, una stanza quadrata tra la cucina, il salone e il sottoscala. Vidi Nausica per prima, lei era di spalle e sosteneva il peso del corpo con la mano appoggiata sul bordo della credenza, vicino alla porta di casa, aveva un pugno sul fianco e un piede era piegato sulla punta, accavallato sull’altro che invece era ben piantato sul pavimento. La sua maglietta era fucsia e stretta, i pantaloni invece erano neri e larghi e svolazzanti e ai piedi indossava un paio di Converse nere con degli strass. Lei si girò sentendomi arrivare alle sue spalle e fu allora che io vidi la scritta sulla sua maglietta: "No boyfriend, no problem".³

    Come primo impatto mi piacque molto, pensai subito che noi due saremmo andate d’accordo ancora prima di parlarci e quando tesi la mano per presentarmi, lei mi afferrò le braccia e mi baciò le guance con vigore. Io salutai anche sua mamma e poi tornai su di lei che, dopo essersi guardata intorno, mi rivolse nuovamente la parola con voce squillante.

    – Bello qui, ancora più bello delle foto che mi ha fatto vedere Raffaella, me l'aveva detto, infatti, che era un posto carino.

    – Come sta la Raffi? Ha ripreso bene a lavorare?

    – Sì, beh, oddio, dopo che era stata qui per un mese, poi tornare a Roma a lavorare è stato un po’ uno choc per lei. Mi ha fatto una testa così su come si era trovata bene che alla fine mi ha convinta a provare. Poi mi ha detto che se il prossimo anno riuscirà ancora a venire, lo farà volentieri perché voi siete gentilissimi. Mi ha parlato pure di Oliver, dei giri che ha fatto, del cibo, del vino…

    Parlò a raffica sparando tutte le parole in fila strette strette e riuscendo a non mangiarsele. La sua voce era a prova di sordità e per assicurarsi che io stessi ascoltando mi appoggiava continuamente la mano sul braccio, ma senza essere troppo invadente.

    Io e lei eravamo rimaste da sole nel disimpegno a parlare, per me era molto difficile interromperla. Ci pensò mio fratello dopo un po’, quando si affacciò dall’arco di entrata del salone per guardarci con quell’espressione impaziente e sollecita che io conoscevo bene, così non persi altro tempo e le dissi di seguirmi.

    Gabriella e io occupammo le sedie spostandole dal tavolo nell’angolo di fronte all’entrata e facemmo accomodare Nausica e sua madre sul divano, dalla parte opposta.

    Michele era rimasto in piedi ed era in attesa che ci fossimo sistemate per poter iniziare il suo piccolo discorso di benvenuto nelle vesti di host, cioè da padrone di casa nel linguaggio del W.W.O.O.F

    Appoggiai i piedi sul piolo della sedia e assunsi un’aria attenta. In realtà stavo fingendo di ascoltare, tanto nel caso in cui mi avessero interpellato non avrei corso il pericolo di farmi trovare impreparata, visto che quel discorso lo sapevo a memoria. L’unica cosa che facevo per non farmi rompere le scatole era quella di non abbassare lo sguardo o voltarmi altrove perché, finché Michele mi avesse vista presente anche solo con gli occhi, non mi avrebbe detto nulla.

    Mio fratello gesticolava per sottolineare le parole e parlava con un basso tono di voce. Quella mattina si era alzato molto presto, lo capivo dalle occhiaie segnate dalle rughe e dal viso stanco, coperto dalla barba sale e pepe che non si faceva da almeno due giorni. Non era trascorsa nemmeno una settimana da quando aveva soffiato sulle sue quarantatré candeline che io e Gabriella avevamo infilzato sul tiramisù, il suo dolce preferito.

    Si impegnava a spiegare cosa fosse il W.W.O.O.F. e le dinamiche che ne erano alla base sforzandosi di essere più carismatico e interessante possibile. Gabriella lo ascoltava pronta a intervenire per correggerlo nel caso in cui lui avesse detto delle inesattezze, tirando fuori la voce con tono alto e stridulo. Mi girai a guardarla durante il suo ennesimo intervento, mia cognata era una piccola donna, fisicamente minuta ma scattante e forte. Una donnina di quarant’anni col viso un po’ infantile, con gli zigomi tondi e gli occhi vispi incorniciati dalla frangetta troppo lunga che lei spostava sui lati con le dita di continuo. I suoi capelli castani erano scuri, lisci e luminosi e il sorriso era quello di una donna convinta di far sempre del bene al resto del mondo. La madonnina che teneva appesa al collo aveva un gran da fare quel giorno a dondolare, spinta dal fervore con cui lei spiegava le cose a Rita e Nausica.

    La noia si stava impossessando di me ma cercai di tenere duro con la speranza di ritrovare la libertà entro breve. Pensavo già che avrei voluto bere volentieri qualcosa di fresco e che me ne sarei andata volentieri in camera mia per riposarmi un po’ sul letto, prima che mia cognata mi coinvolgesse in qualche faccenda.

    Il suono del citofono mi risvegliò improvvisamente dal torpore. Gabriella tacque con la mano sollevata a mezz’aria e mio fratello si girò d’istinto verso la porta. Tutti e tre eravamo certi di non aspettare nessun altro, quindi tutt’al più poteva trattarsi di un errore. Dopo un primo momento di incertezza, Gabriella scattò dalla sedia per raggiungere la finestra. Spostò la tenda con fare circospetto e ancora più perplessa di prima aprì la porta, senza spingere il tasto del cancello. Si affacciò di fuori e uscì poco dopo, mentre noi altri eravamo rimasti in silenzio, in attesa. Io ero tranquilla mentre mio fratello aveva l’aria guardinga, sembrava uno di quei gatti che si mettono in ascolto con lo sguardo fisso nel vuoto.

    Gabriella ricomparve dopo un paio di minuti, chissà che cosa era successo là fuori per dipingere sul suo volto quell’espressione così spaurita. Lei si era affacciata sul salone e stava guardando Michele come a volergli chiedere aiuto. Quando lui la raggiunse, lei gli parlò sottovoce e poi buttò l’occhio verso il disimpegno tendendo un braccio per incoraggiare qualcuno ad avvicinarsi. Sotto l’arco dell’entrata del salone comparve un uomo alto e magro, dall’aspetto indubbiamente straniero. Come lo vidi drizzai la schiena per guardarlo meglio, lui indossava una maglietta nera e dei pantaloni scuri con le tasche ed aveva dipinta sul volto un’espressione tranquilla e sicura di sé. Si avvicinò a mio fratello dopo aver appoggiato per terra il suo zaino, uno di quelli grossi e pesanti da escursione.

    – Sono io Michele Giordano. Lei chi è?

    – David Knight, buongiorno – rispose stringendogli la mano.

    – Buongiorno a lei. Ma è venuto qui per il W.W.O.O.F, ho capito bene?

    – Sì, esattamente.

    – Va bene. Si accomodi.

    Quell’uomo ringraziò mio fratello e si avvicinò verso l’unica sedia rimasta libera vicino al tavolo. Con la treccia sulla bocca, afferrai tra le labbra il ciuffetto di capelli vicino all’elastico, riflettendo sulle poche parole che lui aveva pronunciato. Pensai che fosse inglese o americano, non saprei fare la distinzione tra i due accenti. Lui ci guardava con aria incuriosita, Nausica fu la prima a presentarsi alzandosi dal divano e allungando la mano verso di lui mentre Rita gli aveva rivolto un sorriso cordiale. Io ero rimasta immobile come a voler fingere di essere invisibile, finché i suoi occhi celesti non si soffermarono su di me, incisivi e severi. Sembrava che mi stesse perscrutando e io distolsi subito lo sguardo, lasciando andare la treccia che penzolò al lato del collo. Mi appoggiai sullo schienale della sedia per assumere un atteggiamento composto mentre Michele aveva ricominciato a parlare.

    – Ognuno di noi solitamente affianca un volontario durante le diverse attività e io quest’usanza la definisco abbinamento. Non è frequente nel W.W.O.O.F, o almeno credo, perché non so come lavorano gli altri. Noi abbiamo sperimentato gli abbinamenti nel tempo e devo dire che ci hanno portato dei buoni risultati. Di solito gli abbinamenti sono tra due persone, però può capitare di lavorare anche in gruppo o da soli. Tutto dipende da cosa c'è da fare, poi lo vedremo di volta in volta. Ecco, sul foglio che vi sta consegnando mia moglie, ho scritto una piccola introduzione sulla nostra azienda e poi in basso ho inserito degli spazi, dove voi potrete indicare le vostre esigenze, nel caso in cui ne aveste. Infine, sul retro, ci sono delle caselle riguardanti le varie attività che svolgiamo qui e voi potete barrare quelle in cui avete già esperienza o meno. Ovviamente non dovrete compilarlo ora, ci sarà tutto il tempo più tardi. L'unica informazione che mi preme di sapere è la conferma di quante settimane pensavate di fermarvi, perché devo organizzarmi con le diverse richieste che mi arrivano dal sito. So che lo avete già scritto nella e-mail della prenotazione, ma vi chiederei la gentilezza di riconfermarlo sul foglio, nella riga in calce.

    – Michele, scusami se t’interrompo, ti posso dare del tu?

    – Certo, Rita, ci mancherebbe, dimmi pure.

    – Ecco… ti volevo chiedere una cosa: se non avessi nessuna esperienza in assoluto, cosa dovrei barrare qui?

    – Puoi barrare la casella che dice senza esperienza.

    – Ah già, l'ho vista ora. Scusa per l'interruzione.

    – Mamma tira fuori gli occhiali che è meglio! – scherzò Nausica facendomi sorridere per la sua calata romana.

    Raccolsi il foglio che mi era scivolato dalle mani e buttai l'occhio sulla sigla che ormai conoscevo a memoria: World Wide Opportunities on Organic Farms , a cui mio fratello aveva voluto aggiungere una didascalia: "volontariato, collaborazione, natura". Mi girai verso quell’uomo, lui aveva appena chiesto un bicchiere d'acqua a mia cognata, comprensibile che avesse sete visto il caldo che faceva.

    Poi era tornato ad ascoltare Michele e io approfittai della sua distrazione per osservarlo meglio. Aveva un braccio piegato sulla gamba, il foglio nell’altra mano e alternava un’occhiata a mio fratello e una sul modulo da compilare che gli era stato consegnato. Mi sforzai di indovinare la sua età, notai il candore particolare della sua carnagione, i capelli biondo cenere un po’ arruffati e un velo di barba che disegnava i suoi lineamenti squadrati ma ben proporzionati. Gabriella ritornò con un bicchiere che gli consegnò con entrambe le mani come se fosse qualcosa di molto prezioso e lui la ringraziò con educazione. Bevve un sorso e si girò a sorpresa verso di me. Stesi il foglio con uno scatto della mano, facendo finta di leggere, e poco dopo tornai di soppiatto su di lui che aveva appena trovato un posto dove riporre il bicchiere. I nostri occhi s’incrociarono ancora, diretti e fermi, scappai altrove, sulle piastrelle del pavimento sotto i miei piedi.

    Il discorso introduttivo era finito, Gabriella mostrò ai nostri wwoofer un vassoio con brutti ma buoni e baci di dama, che servì loro con un bicchierino di liquore. Si erano alzati in piedi tutti tranne me. Nausica mi offrì i biscotti e insistette perché ne prendessi uno, agitando il vassoio mentre mi rimproverava bonariamente che non dovevo fare quella che stava a dieta. Le dissi che proprio non ne avevo voglia e subito dopo incontrai lo sguardo di Rita che con il bicchiere di liquore in mano si aggirava tra di noi con aria serena. Lei e Nausica avevano gli stessi zigomi alti e gli stessi occhi marrone scuro luminosi e sorridenti. A differenza della figlia, Rita era magra e aveva i capelli corti e mossi, scuri nelle radici e più chiari sulle punte, che donavano vivacità al suo viso rotondo. Notai la collana che indossava, adornata con dei fiori di metallo cesellati, simili ai rosoni che ci sono nelle chiese. Era molto bella e glielo dissi, lei mi ringraziò svelandomi che quella era uno degli articoli in vendita nel suo negozio di arte e bigiotteria a Roma. Le raccontai della mia passione di disegnare i mandala perché la sua collana me li aveva ricordati e lei reagì illuminandosi in volto, dicendomi che i mandala erano simboli spirituali molto utili per la meditazione che lei praticava spesso, come insegnante di yoga.

    – Ah, ecco, non avevo idea di questo legame – le dissi infilando le mani in tasca.

    – Sì, proprio per la forma tonda del mandala, no? È un cerchio e come tale è il simbolo sacro per eccellenza. È utile per la meditazione perché è come un viaggio introspettivo. Per esempio, ti sarai accorta che mentre colori gli spazi senti i muscoli più rilassati e il battito cardiaco più rallentato, no? Ecco, tutto questo fa sì che la depressione e lo stress vengano allontanati. Non fa anche a te questo effetto?

    – Beh, in effetti nei miei mandala concentro le mie emozioni e quando finisco di colorare mi sento meglio.

    La nostra conversazione stava diventando interessante, ma Gabriella ci interruppe per dire a Rita di seguire lei e Nausica al piano di sopra, dove avrebbe mostrato loro la stanza che dove avrebbero dormito.

    Mi accorsi di essere rimasta da sola con quell’uomo. Lo vidi che era in piedi vicino alla portafinestra, impegnato a rileggere il foglio che gli avevamo dato. Vidi il suo zaino appoggiato per terra a due passi da me e una targhetta attaccata

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