Parlava alle pietre
By Benny Arbore
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Parlava alle pietre - Benny Arbore
Parlava alle pietre
di Benny Arbore
Panda Edizioni
ISBN 9788893780230
© 2017 Panda Edizioni
www. pandaedizioni.it
info@pandaedizioni.it
Proprietà riservata. Nessuna parte del presente libro può essere riprodotta, memorizzata, fotocopiata o riprodotta altrimenti senza il consenso scritto dell'editore.
I fatti e i personaggi rappresentati nella seguente opera, nonché i nomi e i dialoghi ivi contenuti, sono unicamente frutto dell'immaginazione e della libera espressione artistica dell'Autore.
Ogni similitudine, riferimento o identificazione con fatti, persone, nomi o luoghi reali è puramente casuale e non intenzionale.
Le pietre non hanno confini, l'uomo se ne serve per erigerli nel bene, nel male.
Sono, dalle origini, testimonianza dell'evoluzione culturale dell'intera Umanità
Buongiorno!
Mi voltai. Un rassicurante signore, dall'aspetto un po' avanti negli anni mi disse:
"Non devi usare la sapa, zappa, per rimuovere questa terra, non vedi che ogni volta che l'affondi si sprigionano delle scintille? Evidentemente batte contro qualche pietra nascosta nel terreno, è meglio un piccone, che, se vuoi, te lo posso prestare. Dovrai cominciare a togliere lo strato di terra che la ricopre, cercare il punto in cui è possibile inserire la punta del piccone, solo così potrai tentare di rimuoverla se è possibile, altrimenti, spostati, riprova in un altro posto."
Mi prese il manico della zappa che stringevo tra le mani, mi mostrò come usarla, e rimasi stupito dalla precisione dei suoi movimenti, ritmici senza mai fermarsi, ogni tanto con la pala accantonava la terra smossa in un angolo della buca. Si fermò, mi guardò, forse si aspettava il mio compiacimento che non lesinai, anzi: elogiai la sua prestazione, soddisfatto riprese a parlarmi.
Le pietre rimosse, devi accatastarle in ordine di grandezza che ti serviranno per costruire una murella, non tanto alta, così potrai recintare il tuo orto, difendendolo dal vento e dalle foglie secche che, in autunno, cadono e invadono la campagna.
Lo interruppi, raccontandogli che anche nella lontana Puglia, nell'appennino delle murge, vi è un'antica usanza: delimitare le proprietà dei terreni con le pietre grandi e piccole che i contadini radunano, sparse nei terreni per erigere dei muretti, l'arte di arrangiarsi non ha confini. Si presentò senza che l'avessi invitato, ascoltai i suoi interessanti suggerimenti, lo ringraziai, subito dopo mi salutò. Avevo acquistato da poco parte di una collina deserta, sovrastata da un rudere di casa che si affacciava nella valle sottostante, non lontano dal lago di Garda, nella regione veneta contornata da rocce, al riparo dei venti. Ancora oggi non riesco a darmi una plausibile ragione per averla acquistata. La spiegazione potrebbe essere stata che, reduce da un viaggio in Africa in compagnia di quattro amici, volevamo scoprire il decantato fascino del deserto del Sahara. A bordo di due Land Rover attraversammo quello sconfinato territorio, riboccante di seduzione, inghiottiti da dune simili a sinuosi corpi di donna distesi al sole, avvolti in quell'impressionante paesaggio che la natura con orgoglio ci omaggiava in un rispettoso silenzio. Alla vista di quell'ampia valle che mi si presentava in quella particolare giornata di sole, ornata dal rilucente azzurro del lago di Garda, lontano dal frenetico e chiassoso ritmo che ogni giorno la città ci dispensa, ebbi la sensazione di rivivere le emozioni sahariane. Preso dal ricordo dell'Africa, avevo dimenticato di chiedere alle autorità competenti a che punto fossero le domande per gli allacciamenti alla rete elettrica e idrica; le domande erano sì state consegnate agli organi competenti da parte del venditore, ma senza il dovuto versamento. Era molto gravoso adattarsi alla mancanza di acqua e di elettricità. Non potevo nemmeno servirmi del frigorifero per i bisogni personali e altro, mi arrangiavo con acqua piovana, lasciavo la canna dell'acqua al sole, nel prato, che utilizzavo per innaffiare le piante. Una volta riscaldata, mi facevo la doccia nascosto in un angolo del giardino della casa. Zappare la terra, tra quelle pietre, era faticoso, quasi sempre mi rimproveravo, lavoravo sempre. In un giorno di forzato riposo, mi ricordai di quel signore che inaspettatamente si era presentato, e che forse avrebbe potuto aiutarmi ad attenuare almeno in parte la mia estenuante fatica. L'attesa non durò molto: nel corso della sua rituale passeggiata nel sentiero dietro casa mia lo scorsi,
Salve, signor...
saluto che ripetei per tre volte. Mi rispose:
Buongiorno. Scusami, ma ci sento poco. Vedo che stai lavorando molto.
Si accomodò, perlustrò casa, mi chiese di cosa avessi bisogno, gli risposi: Voglio recintare il terreno con una siepe di lauro.
Non mi fece terminare: mi offrì la sua più ampia disponibilità. Inoltre, gli chiesi se potesse costruirmi dei piccoli terrazzamenti intorno alle rocce, riempite con della buona terra per piantare i fiori. Mi osservò con attenzione e rispose:
Desidero innanzi tutto presentarmi: mi chiamo Santin, abito non molto lontano, in una piccola contrada. Siamo circa una ventina di abitanti, quasi tutti parenti, la maggior parte di noi lavora la campagna. Sono nato e vivo in questo luogo, non mi sono mai allontanato, non sono mai stato a Verona che dista pochi chilometri, non ho mai visto il mare. La campagna che ci circonda, così rigogliosa di piante, di filari di viti, durante la guerra e anche prima era una desolazione, si tagliavano le piccole piante per recuperare la legna necessaria per riscaldarci, per cucinare mangiavamo quello che la campagna ci offriva. D'inverno il freddo non è eccessivo, siamo fortunati per la vicinanza del lago, la temperatura è mite, il sole non ci abbandona mai, piove di rado. Le strade fino a pochi decenni fa erano sterrate, ricoperte di terra mista a residui di marmo provenienti dalle cave.
Risoluto, continuò a percorrere i sentieri selvaggi, "non posseggo l'automobile, camminare mi fa star bene. Desidero ringraziarti per il lavoro che mi hai commissionato, sono pronto a farlo, per la paga ci metteremo d'accordo. Se me lo concedi, desidero raccontarti piccoli ricordi della mia vita. Da bambino, accompagnavo mio nonno al lavoro, seduto su un blocco di pietra per ore, lo ammiravo costruire dei muretti a secco. La gente del luogo lo chiamava maestro, avevo solo cinque anni, mi sembrava di essere già grande, avrei voluto sempre stare con lui, mia madre insisteva che mi recassi al catechismo. Non appena potevo, in compagnia di amici, andavo a giocare in un campo poco distante dalla mia casa, con una palla fatta di stracci tenuta assieme da un corda sottile. Quando non riuscivo a sottrarmi alle pressioni di mia madre per rispetto dei suoi desideri, anche perché mi preparava una buona torta, di mele, che raccoglievo di nascosto dall'albero del vicino di casa, andavo in Chiesa, rimanevo il tempo necessario per assistere alla Messa. Dopo la benedizione, mi precipitavo fuori scorrazzando per la campagna: il profumo dei fiori, l'odore della terra mi avvolgevano, riacquistavo forza, davo sfogo al mio corpo assopito per essere stato seduto su uno scanno, ad ascoltare anche il Monsignore in sacrestia che ci parlava della vita di Gesù. Quando uscivo dalla Chiesa, mi rattristavo nel vedere i bambini che uscivano dal vicino asilo, si precipitavano ad abbracciare i genitori, per poi correre felici urlando per le strade. Avrei voluto essere uno di loro, ma non mi era possibile frequentare l'asilo: i miei genitori non erano abbastanza benestanti, era un privilegio riservato solo alla gente facoltosa, i miei possedevano una dignitosa casa in un piccolo campo, dove ancora oggi vivo. I giorni di pioggia erano ideali per trovare rifugio, con i miei amici, nella sacrestia della Chiesa, eravamo sempre bene accolti dal Monsignore, una buona e brava persona. I miei genitori portavano del buon vino, da noi prodotto, a Monsignore perché mi stesse più vicino a causa del mio carattere un po' ribelle. Lui pretendeva che lo ascoltassimo con la dovuta attenzione. Ancora oggi ricordo i racconti dei vangeli. La dentiera del Monsignore, che un vecchio dentista gli aveva preparato, non aderiva bene alle sue gengive, e spesso gli cadeva, ero costretto a raccoglierla perché ero il più piccolo dei miei amici, mi toccava di farlo, questione di semplice gerarchia. Con velocità la ripuliva con un panno di lino bianco, la ricollocava al suo posto, rimanevo in attesa della successiva caduta. Lo avevo raccontato a mia madre, che mi aveva subito confezionato da un vecchio e bucherellato lenzuolo dei piccoli fazzoletti, che avrei dovuto utilizzare per l'occasione, purtroppo quasi sempre li dimenticavo nella cartella che usavo per andare a scuola. Ti chiedo scusa, forse ti sto annoiando?"
No,
gli risposi, continua pure, ti ascolto volentieri.
E lui ricominciò: "La prima volta che costruii una piccola marogna ero entusiasta..."
Lo interruppi perché mi spiegasse cosa fosse la marogna, e mi rispose: È semplicemente un muretto senza cemento, in dialetto la chiamiamo così.
E riprese: La pioggia in una settimana la fece crollare, non mi arresi, la ricostruii; ancora oggi, dopo tanti anni rimane la testimonianza del mio primo lavoro. Situata nel terreno vicino casa, tutti i giorni quando esco la saluto convinto che mi risponda, forse sarà la vecchiaia.
Continuò a parlare, non lasciandomi spazio, stringevo tra le mani con forza il manico della zappa.
La terra che stai sottraendo alle pietre con tanta fatica, per preparare l'orto, darà all'insalata un sapore più intenso. Questa terra non è mai stata coltivata,
e smise di parlare, attendendo la mia risposta.
Gli chiesi: Come hai saputo che vengo da Milano?
Ho letto la targa della tua auto. Il nostro paese è piccolo, al tramonto, quando andiamo a bere qualche bicchiere di bianco, il barista che sa tutto, ci intrattiene e ci racconta tutte le novità. La sera mia moglie a cena vuole che l'aggiorni, così potrà riportare le notizie alle amiche, al mercato del paese vicino, che si tiene tutte le domeniche.
Questo amabile signore, alto, magro, con delle possenti mani ricoperte di calli, che con semplicità mi aveva suggerito il modo con cui smuovere la terra, con il volto che non si era sottratto al passare degli anni, segnato e che anche se esposto al sole e al riverbero delle pietre, non si era scurito. Si tolse il cappello di paglia maltrattato dal tempo, in segno di rispetto nei confronti dello straniero venuto da Milano, i suoi capelli rossi misero in risalto i suoi occhi chiari, mi scrutava sempre con attenzione, rimanendo immobile, lo invitai a sedere, non lo fece, educatamente mi ringraziò, con calma, al contrario di me, che ero distrutto dalla sue parole e dalla difficoltà