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Studium - Charles Journet: la città di Dio e la città degli uomini
Studium - Charles Journet: la città di Dio e la città degli uomini
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Studium - Charles Journet: la città di Dio e la città degli uomini

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Scienza, filosofia, teologia: una partizione e una correlazione da migliorare, e intanto un organico profilo della ragione umana, della sua apertura alla scoperta e al mistero, nonché al dubbio e alla certezza. Pensare è avere il coraggio di accompagnarsi alla fiducia nell’intrascendibile. Verrà un giorno, dice a se stesso chi pensa, quando potrò fare il passo dall’evidenza del non sapere alla speranza di varcare il confine dell’ignoto. E così riconoscermi nel progresso di un’evidenza che intanto sussiste e ha la prerogativa di assumere il volto della promessa, ancor prima quello della speranza.
LanguageItaliano
Release dateJan 10, 2017
ISBN9788838245237
Studium - Charles Journet: la città di Dio e la città degli uomini

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    Studium - Charles Journet - Giorgio La Pira

    Daniele Bardelli, Lourdes Velázquez, Claudia Villa, Giorgio La Pira, Alessandra Cosmi

    Charles Journet: la città di Dio e la città degli uomini

    ISBN: 9788838245237

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    Ripresa teologica

    IL PUNTO

    Università

    Charles Journet: la città di Dio e la città degli uomini

    Charles Journet: una vita nascosta nella luce

    La corrispondenza Charles Journet-Jacques Maritain

    Note sulla teologia della politica di Charles Journet

    Due divergenti concezioni delle basi cristiane del diritto

    STORIA

    I cattolici e lo sport nel Novecento e l’arcivescovo Montini

    BIOETICA

    Alcuni aspetti del problema della maternità surrogata

    LECTURAE DANTIS

    Le maschere di Francesca e il fantasma di Didone (1)

    OSSERVATORIO POLITICO

    I diritti civili nella nuova Costituzione

    RASSEGNA BIBLIOGRAFICA-STORIA DELL’ARTE

    INTERVENTI CRITICI

    INDICE GENERALE DELL’ANNO 2016

    Ripresa teologica

    di Vincenzo Cappelletti

    Scienza, filosofia, teologia: una partizione e una correlazione da migliorare, e intanto un organico profilo della ragione umana, della sua apertura alla scoperta e al mistero, nonché al dubbio e alla certezza. Pensare è avere il coraggio di accompagnarsi alla fiducia nell’intrascendibile. Verrà un giorno, dice a se stesso chi pensa, quando potrò fare il passo dall’evidenza del non sapere alla speranza di varcare il confine dell’ignoto. E così riconoscermi nel progresso di un’evidenza che intanto sussiste e ha la prerogativa di assumere il volto della promessa, ancor prima quello della speranza. Preso atto di quanto accennato, per il pensiero sopravviene l’esserci come tale, come pronuncia della parola, che ne chiede comunque un’altra, alla quale andare congiunta. Essere, realtà, epifania: nel senso di manifestazione, di quell’istanza o meglio istante stupendo e magico, per cui un’esistenza può dare atto di sé a sé medesima. Sono giorni, per merito di chi siede sulla cattedra di Pietro, di razionalità, di teoresi interamente vissute. E di un’esperienza ineffabile, che possiamo raffigurare dinnanzi a noi e per un istante condividerla o, meglio, conviverla: l’evidenza dell’unicità dell’Assoluto, del Divino, del Trinitario.

    Riteniamo che Papa Francesco abbia vissuto quest’esperienza nella Cattedrale svedese di Lunch, cogliendo una ricorrenza profondamente significativa. Quella del 31 ottobre 1517, il giorno scelto da Lutero per affiggere sul portone della Chiesa di Wittenberg le sue novantacinque tesi. Ora quello stesso giorno ha visto i vertici cattolici e protestanti commemorare insieme un evento che ebbe la sventura di dividere e insanguinare l’Europa. Gesù c’incoraggia a purificare il nostro passato, ha detto il Papa con sublime elevatezza, avendo accanto a sé il vescovo presidente della Federazione luterana mondiale Munib Yunan e l’arcivescovo Antje Jackelen. Tra le severe navate in arenaria della Cattedrale romanica di Lunch, la storia sta compiendo un miracolo, ha commentato un giornalista. E il Papa, gesuita, ha invocato il perdono reciproco, ha ripetuto che Lutero era all’inizio ispirato da costruttive intenzioni di riforma, per concludere: «Siamo lieti di riconoscere che la Riforma ha contribuito a dare maggiore centralità alla Sacra Scrittura nella vita della Chiesa».

    Il 31 ottobre 1517 Lutero aveva affisso le sue novantacinque tesi sul portone della Chiesa di Wittenberg: dopo cinquecento anni cattolici e protestanti per la prima volta hanno commemorato insieme un evento che era stato all’origine di dissensi e fratture sanguinose. Papa Francesco ha auspicato il perdono reciproco e aggiunto: «con gratitudine riconosciamo che la Riforma ha contribuito a dare maggiore centralità alla Sacra Scrittura nella vita della Chiesa». Il futuro è nelle mani di coscienze illuminate, e anzitutto di una Verità profondamente intuita, organicamente rivisitata e assurta a simbolo precipuo della persona umana.

    Vincenzo Cappelletti

    IL PUNTO

    Università

    di Giuseppe Dalla Torre

    Anno accademico nuovo, problemi vecchi. Ed anche vecchie polemiche.

    In effetti pure quest’anno, al primo cadere delle foglie autunnali, si sono recitate le litanie che da molto, troppo tempo si ricantano puntualmente alla riapertura dei corsi universitari. Come ad esempio quella, sentita fino alla noia, che imputa al sistema universitario la colpa per cui l’Italia sarebbe in coda, tra i Paesi più sviluppati, per numero di laureati. Il che se è vero – bisognerebbe però verificare se intendiamo tutti, per laurea, lo stesso livello di formazione superiore –, non fa venire meno il dato della altissima disoccupazione fra laureati registrabile da noi. Dunque il fenomeno è imputabile non all’Università, ma ad altri: alla politica e al sistema economico e produttivo.

    Ancora: la doglianza, pure detta e ridetta da anni, per la non presenza delle nostre Università nelle graduatorie dei migliori Atenei del mondo (ed anche qui bisognerebbe capire su quali parametri sono costruite: compresi i campus e le attrezzature sportive?), salvo poi a piangere sulla fuga dei cervelli. Atteggiamenti del tutto contraddittori, giacché parlare di cervelli in fuga significa pure ammettere che la formazione conseguita nelle nostre Università non ha nulla da invidiare a quelle maturate in Atenei che risultano presenti nelle prestigiose graduatorie internazionali. Tant’è che i nostri cervelli ci vengono sottratti.

    Quest’anno ci si è messo anche l’autorevole organismo preposto all’Anticorruzione, che ha ritirato fuori l’antica questione della parentopoli universitaria o, comunque, dello stile baronale che continuerebbe a caratterizzare la selezione del personale ricercatore. Ma, vien fatto di domandarsi, non era intervenuta efficacemente la legge Gelmini, prevedendo per rettori, presidi, direttori di dipartimento e quant’altro disposizioni talmente interdittive nell’assunzione di consanguinei, affini e favoriti, da sfiorare la violazione del principio costituzionale di eguaglianza, posta la discriminazione cui sono soggetti validi ricercatori per la sola colpa di aver rapporti più o meno stretti con un barone?

    Non si vuole certo criticare l’Anticorruzione, perché il fenomeno ci sarà pure, nonostante tutto. Quel che colpisce è un immaginario collettivo – che certamente la denuncia dell’Anticorruzione alimenta ulteriormente – che vede parentopoli solo nell’ambito universitario, senza accorgersi della proliferazione del fenomeno in molti e diversi ambiti: che dire, al riguardo, di certi nomi illustri che si ripetono sugli schermi dell’emittente di Stato? Ma soprattutto colpisce che non ci si riesca a capacitare del fatto che quella universitaria non è una carriera come le altre; concorrere per un posto in Università non è come concorrere per un posto in magistratura o in un altro impiego pubblico. L’Università è piuttosto come la bottega dell’artigiano, il quale prende dei ragazzotti, li mette a battere il ferro, insegna loro il mestiere, li vede crescere e alla lunga – ma quanto sono lunghi i tempi universitari!; e sempre così precari ed incerti! – nota chi è bravo, chi è meno bravo, chi è inadatto. Un fattore di cooptazione è e sarà sempre connaturato all’Università.

    Dunque scrivere – come pure è stato fatto in passato da qualche presuntuoso ritenutosi furbo – in un biglietto il nome di chi sarà vincitore in un concorso universitario, chiuderlo in una busta e depositarlo da un notaio, non è la stessa cosa che fare la medesima operazione per un concorso in magistratura. Nel primo caso siamo in un ambiente piccolo, in cui tutti si conoscono, sono al corrente di che cosa ciascuno ha scritto o scoperto, sono in grado di percepire graduatorie di merito al loro interno; nel secondo caso siamo in un ambiente grande, in cui i concorrenti non si conoscono e, a prescindere dalle incognite dei compiti che verranno dati, non sono in grado di avere una pre-cognizione di chi siano i migliori.

    Ciò ovviamente non significa che abusi non ci possano essere, né tantomeno che non ci siano, ma quo bono non abutitur homo?

    Le osservazioni sviluppate sin qui, in maniera frammentaria ed esemplificativa, non sono certamente dirette a negare o ignorare la crisi universitaria; questa c’è, è grave, ma va ricercata altrove.

    Al riguardo pare di dover richiamare l’attenzione su almeno tre fattori.

    Il primo, ben conosciuto, è quello che attiene all’ormai annosa questione del sottofinanziamento del sistema universitario nazionale. I dati sono arcinoti e non è certo il caso di richiamarli in questa sede. Si tratta di un sottofinanziamento strutturale da decenni, che però nel corso della cosiddetta Seconda Repubblica ha avuto un calo verticale: pesante per le Università di Stato, pesantissimo per le Università non statali, da cui pure si è parallelamente pretesa una progressiva e completa conformazione al paradigma delle prime. Qui davvero il rating fra le Università del mondo è affidabile e parlante.

    Una decina di anni fa si preconizzava, dati oggettivi alla mano, che nella stagione che stiamo vivendo circa la metà dei docenti universitari sarebbe andata in pensione. Occorreva dunque preparare con tempo le nuove leve e, si sa, un ricercatore universitario non si appronta in breve; i tempi di formazione sono ben più lunghi di quelli che normalmente si dedicano per la preparazione ad un qualsivoglia altro impiego pubblico o privato. Poi che cosa è successo? I tagli, lineari o meno, hanno portato alla soppressione di cattedre e di corsi, con l’effetto di una generazione di studiosi che ha ormai superato la quarantina, addestrati per l’Università ma che nell’Università non entreranno mai.

    La questione del finanziamento tocca poi quella che è stata la maggiore beffa perpetrata negli anni Novanta contro l’Università: l’attuazione del principio di autonomia di cui all’ultimo comma dell’art. 33 della Costituzione. In realtà autonomia non c’è stata; lacci e lacciuoli impacciano nella didattica e nella ricerca le istituzioni universitarie: certamente erano più autonomi gli Atenei sotto la occhiuta normativa degli anni Trenta del secolo passato, che oggi. L’unica reale autonomia che le istituzioni universitarie hanno ottenuto è quella di bilancio: ieri i docenti erano pagati direttamente dal Ministero, oggi dall’istituzione universitaria di appartenenza. L’effetto reale, al di là delle buone intenzioni, è stato solo quello di trasferire dallo Stato agli enti universitari gli oneri e le passività di bilancio: il che non è autonomia, ma limite – almeno potenziale – ad ogni autonomia.

    C’è un secondo fattore che ai più è sconosciuto, ma che chi vive in Università ben conosce e patisce. Il riferimento è al mito della valutazione, che ha assunto talora le apparenze della bestia di apocalittica memoria.

    Il problema della valutazione nasce, negli anni Novanta, dinnanzi allo scriteriato dilatarsi delle Università di Stato, sia quanto a offerta formativa (moltiplicazione di corsi e corsetti, alcuni rasentanti davvero il ridicolo e lontani da qualsiasi apprezzabile obiettivo culturale da un lato, occupazionale dall’altro); sia quanto ad apertura di sedi decentrate sul territorio, tra l’altro con lotte e contrasti tra Università ed Università che si contendevano le appetibili offerte (spesso poi rivelatesi dei veri e propri bluff, all’origine del pericoloso consolidarsi nei bilanci universitari di crediti inesigibili) di politici locali, desiderosi di acquisire il merito di aver portato l’Università pure nei paesetti più sperduti. Quel fenomeno rispondeva anche ad una realtà del momento: il forte incremento della domanda di istruzione universitaria, rivelatosi soprattutto negli ultimi due decenni del Novecento. Erano gli anni, belli, del boom delle immatricolazioni.

    Per porre freno ad un dilatarsi incontrollato della spesa pubblica e ad un oggettivo scadimento della didattica (i baroni disertavano il piacere di chilometri al giorno per raggiungere strutture periferiche, spesso male attrezzate e fuori d’ogni contesto culturale), si cominciarono ad apprestare strumenti di contenimento di vario genere (come ad esempio il risibile parametro di qualità, per cui a livello didattico conta più un ricercatore a tempo determinato che un presidente del Consiglio di Stato); strumenti di contenimento che col tempo si vollero far passare come mezzi di valutazione. A ciò si aggiunse la suggestione di paradigmi d’oltre oceano – fenomeno che appare in molti ambiti della vita italiana, espressione vivente di una certa provincialità –, che indussero progressivamente a caricare la vita delle Università di adempimenti burocratici sempre più pesanti ed assorbenti. Non è noto se l’Agenzia per la valutazione abbia valutato quanto tempo questi adempimenti richiedono al personale universitario, docente e non docente, sottraendolo così ai propri compiti istituzionali.

    Si tratta per lo più di una valutazione formale, spesso meramente quantitativa, che non tiene conto delle diversità tra discipline scientifiche e discipline umanistiche, che per lo più ignora i saperi elitari e di nicchia, o le peculiari forme della ricerca. Per fare un esempio, le note a sentenza, classico esercizio su cui si sono formate generazioni di giuristi e che i grandi maestri non hanno disdegnato di continuare a scrivere (come non ricordare gli occhiali del giurista di un Jemolo!), oggi non hanno nessun valore per la valutazione, tra l’altro con il deleterio effetto di indebolire fin quasi annullare l’unica forma possibile di controllo sulla giurisprudenza.

    La cosa grave è che di questo macchinoso strumentario, sostanzialmente nato per trovare criteri (sempre discussi, discutibili e mai perfetti) di ripartizione fra le Università di Stato delle risorse finanziarie pubbliche, fece le spese anche il sistema universitario non statale, che sostanzialmente si è sempre autofinanziato e nel quale – con qualche eccezione – sussistono davvero le eccellenze. Perché si volle immotivatamente estendere alle Università c.d. private il regime di controlli ideato per le Università dello Stato, specie per contenere la spesa pubblica.

    Un terzo fattore è anch’esso legato ad un mito: quello della concorrenza. Pure qui paradigmi d’oltre oceano annebbiano una corretta visione delle realtà nostrane. La necessità di accaparrare risorse finanziarie e studenti (che pure sono risorse finanziarie), ha aperto una stagione di concorrenza durissima tra Atenei nella quale, come spesso accade, l’effetto non è l’innalzamento ma l’abbassamento del servizio prestato. Più si è severi, più si respinge utenza; più si è cedevoli e facili, più si attira utenza. Qualità e quantità non vanno d’accordo.

    L’errore è stato quello di confondere concorrenza con competizione; affermazione di uno sull’altro, al posto del correre insieme verso una meta comune (cum petere), cioè per raggiungere insieme gli obiettivi di elevazione della ricerca e della formazione nazionali. Che è poi l’idea contenuta nella Costituzione, che non distingue fra Atenei, né tantomeno tra Università statali e Università private, ma delinea un sistema unitario.

    Il fenomeno è stato poi gravemente accentuato dall’istituzione delle Università telematiche, anche qui sulla scia del ritornello provincialissimo per cui c’erano all’estero ma non da noi. Si sarebbe potuto ovviare con una unica telematica, ad esempio gestita dalla Conferenza dei Rettori; o con qualche telematica attivata da consorzi di Università tradizionali, così da assicurare ricerca consolidata e seria, oltre a paradigmi di insegnamento omogenei. Così non è stato e, contrariamente a quanto avveniva in passato, si è aperto un mercato dell’istruzione universitaria ed una ulteriore, spietata concorrenza, che tra l’altro non ha favorito la qualità.

    Dal punto di vista economico-sociale la situazione è ora quantomeno singolare. La formazione universitaria non è più una missione ma una merce da vendere, e sulla piazza operano soggetti appartenenti allo Stato, al mercato (for profit), al terzo settore (non profit). La cosa è male in sé, ma il male peggiore è dato dal fatto che tutti i soggetti operano con le medesime regole, nonostante le diversità delle evidenti basi di partenza (specie in materia di finanziamento).

    Ma vi può essere reale libertà di concorrenza – posto che concorrenza, e non competizione, debba esservi – se gli atleti partono scaglionati lungo la strada, uno più avanti, l’altro più dietro?

    Più in generale, si può dire che l’Università italiana si trova impantanata in una sorta di guado, a metà tra un sistema statalistico e dirigistico, ed un sistema di libera concorrenza, e non riesce più ad andare né avanti né indietro. Con gli effetti che ben si possono immaginare.

    Gli interventi necessari per porre rimedio alla situazione sarebbero molteplici e vari. In conclusione vale forse la pena avanzarne uno tra gli altri, certamente non nuovo ma oggi più attuale: l’abolizione del valore legale del titolo di studio.

    Personalmente in passato sono sempre stato a favore del suo mantenimento per una ragione sociale; per garantire e promuovere il principio di eguaglianza; per favorire l’accesso all’Università dei ceti più deboli e promuovere il famoso ascensore sociale. Ma oggi non è più così; proprio la preoccupazione sociale dovrebbe indurre a far venire meno quello che è divenuto un altro mito.

    Il passaggio ad una vera forma di concorrenza in un sistema universitario che non rilascia titoli legali, comporterebbe di far contare finalmente non se sei laureato, ma dove e come ti sei laureato. Ed alla giusta preoccupazione sociale di garantire a tutti, anche a chi viene da famiglie economicamente più deboli, di frequentare studi universitari, si dovrebbe rispondere – tra l’altro – con sostanziose borse di studio di importo pari al costo effettivo dei corsi, eliminando spese inutili, servizi facilmente sopportabili dagli utenti e, soprattutto, ridimensionando ragionevolmente il sistema di finanziamento pubblico diretto degli Atenei. È pensabile che così la concorrenza tornerà a muoversi verso l’alto e tenderà ad essere competizione; che l’eguaglianza in senso sostanziale tornerà ad essere restaurata.

    E qui si tocca la questione del diritto allo studio: oggi uno dei grandi buchi neri del sistema, con arretramenti paventosi rispetto al passato e con la ignoranza di quelle che dovrebbero essere, nell’attuale contesto, le vere priorità.

    Giuseppe Dalla Torre

    Charles Journet: la città di Dio e la città degli uomini

    di Matteo Negro

    Il grande teologo russo Pàvel Evdokìmov nella suggestiva opera L’amore folle di Dio ha sottolineato con forza che «[l]a nostra epoca attende la promozione adulta dell’uomo e rifiuta qualsiasi riconoscimento di Dio che non sia contemporaneamente riconoscimento dell’uomo e di un’epifania di Dio nell’uomo»[1]. La condizione umana è dunque, per la fede cristiana, condizione escatologica: il tragitto verso la salvezza e la pienezza si snoda attraverso la città terrena e non fuori di essa, in un punto lontano e indefinito. E, se possibile, con maggiore enfasi il teologo soggiunge: «L’attualità del messaggio cristiano non può venire che dalla Chiesa impegnata come compagna escatologica dentro il mondo e dentro l’esperienza dell’uomo contemporaneo. La vita storica non può mai essere un mezzo per guadagnarsi la vita eterna; se il mondo è finalizzato al regno di Dio, ciò accade perché il regno di Dio è già in mezzo agli uomini»[2]. Come cogliere il senso profondo di queste affermazioni senza cadere nel conformismo di un pensiero aduso a ridurre la teologia della storia ad una rappresentazione storicistica e progressiva del messaggio di salvezza? L’autore ci invita a riflettere sulla condizione dell’uomo contemporaneo, che ha rifiutato Dio, ma non ha risolto l’immane questione della trascendenza e dell’alterità. Tramontate le ideologie, e con esse il messianismo storicistico, assistiamo ad un titanico sforzo di ricomporre le differenze, di universalizzare pretese, diritti e codici comunicativi, di globalizzare le coscienze, ma l’alterità riappare, talvolta con violenza, nell’incapacità di restituire gli uomini a se stessi e alla loro irriducibilità. Tempo fa Marcel Gauchet ebbe a dichiarare senza esitazione: «Uscita dalla religione non è sparizione di ogni esperienza di tipo religioso, è disimpegno rispetto all’organizzazione della realtà collettiva secondo il punto di vista dell’altro, ma disimpegno che fa apparire l’esperienza soggettiva dell’altro come un resto antropologico forse irriducibile»[3]. La secolarizzazione, l’ateismo teorico e pratico e l’immanentismo, espungendo Dio, non hanno risolto una volta per tutte il problema della trascendenza, che riaffiora dalla relazione sofferta e incompiuta degli uomini con se stessi e con gli altri, dall’esperienza del limite e del desiderio dell’illimitato.

    E proprio all’uomo contemporaneo, così ferito dal totalitarismo dell’immanenza, si rivolge l’opera di Charles Journet, testimone autorevole della fine di un’epoca e dell’avvento di un tempo nuovo. Il teologo svizzero, amico di Maritain e Paolo VI, ci ha lasciato in eredità un immenso patrimonio di idee, analisi, riflessioni, della cui fecondità daranno ancora prova gli anni a venire. La sua opera è un accorato messaggio rivolto all’uomo del nostro tempo, all’abitante della città terrena, con i suoi progetti e le sue legittime aspirazioni, cui si fa incontro il mistero di Dio presente e incarnato. Dio, non come totalmente Altro, ma come Altro totalmente presente, lì dove gli uomini vivono e operano, nel mondo e nella storia.

    Gli autori degli articoli qui raccolti intendono presentare

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