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Un carciofino sott'odio: il mondo di Leo Longanesi
Di Stefano Poma
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Dopo l’8 settembre l’Italia si trovava tragicamente spacca-ta in due; il re, col suo governo, scappò verso Sud, scortato fino a Brindisi dagli Alleati angloamericani appena sbarcati in Puglia, mentre i carri armati tedeschi entravano minacciosamente a Roma. Tutti, in quelle tragiche ore, si trovavano costretti a fare i conti col proprio passato; chi si era compromesso col governo Badoglio, con gli antifascisti e con la monarchia sentiva di essere in grave pericolo: “Per quanto riguarda l’Italia, ci sarà una terribile lezione per tutti”, dirà Hitler per radio. Su tutti si agitava un clima di profonda incertezza e i treni diretti verso il Sud liberato faticavano a contenere chi aveva paura di temere qualcosa. Tra questi uomini c’era anche Leo Longanesi. L’autore del “Vademecum del perfetto fascista”, l’uomo che coniò il motto “Mussolini ha sempre ragione” e che scrisse i più riusciti slogan di propaganda del regime come “Taci, il nemico ti ascolta”, era in fuga dai nazifascisti. Lon-ganesi ormai da tempo perse la fede verso il regime e nei suoi giornali la fronda, l’anticonformismo e la satira verso l’imponente retorica che il MinCulPop aveva eretto faceva la stecca alle disposizioni della propaganda. “Un giorno raccontò d’essere diventato antifascista in tram, guardan-do il didietro di un console della milizia in piedi davanti a lui”, scriverà Indro Montanelli. La sua adesione al fascismo fu della prima ora, ma questa avvenne quando il regime non aveva inutili ambizioni imperiali, non inneggiava alla superiorità della stirpe e, soprattutto, non intendeva sostituire le vecchie tradizioni italiane con quelle costruite ex novo sull’uomo nuovo fascista. Il fascismo di Longanesi era quello della sua Romagna, era quello anarchico del nonno Leopoldo Marangoni, era quello delle cose fatte in casa e di Strapaese, movimento culturale e letterario che proponeva la continuazione delle tradizioni paesane, la valorizzazione del territorio nazionale e lo spirito patriottico che i reduci della prima guerra mondiale avevano ereditato da Gabriele D’annunzio. Era quel fascismo che riprendeva lo spirito anarchico del Mussolini di quegli anni: “Voi siete anarchico, siatelo per molti anni finché potete. È una ricetta per restare giovani”, gli disse una volta Mussolini mentre passeggiavano sulla spiaggia di Cesenatico. E Longanesi, anarchico e conservatore allo stesso tempo, quest’uomo dell’Ottocento cresciuto leggendo Sorel e Rimbaud in quell’8 settembre si trovò in mezzo a due fuochi. Da una parte i fascisti, i quali l’accusavano per il suo antifascismo, dall’altra gli antifascisti, che lo accusavano per la militanza alle attività del regime. Trovò rifugio a Napoli e lo sconforto affiora dal suo diario: “Noia, delusioni, miseria, pioggia, luce di candele e odor di cavoli fatti in casa. Rifarsi una vita in condizioni così poco favorevoli, fra stranieri stupidi e orgogliosi, che giudicano tutti gli italiani ladri e ruffiani, non è così facile, soprattutto a quarant’anni
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