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Le donne non sono pesci
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Le donne non sono pesci

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"L'importante è avere le idee chiare, nel lavoro come nella vita, non le sembra?" mi ha detto il Pergalli il secondo giorno che lavoravo in ditta. Io gli ho subito risposto di no, senza la minima esitazione, perché secondo me le idee chiare abbagliano chi ce le ha e poi va a finire che uno non sa più neppure dov'è che mette i piedi o peggio ancora il sedere.

Avventure lavorative e sentimentali di un disgraziato che è stato assunto da una ditta di arredamento per ideare una nuova linea di davanzali.
LanguageItaliano
Release dateDec 19, 2016
ISBN9788822879301
Le donne non sono pesci

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    Le donne non sono pesci - Gianfranco Mammi

    MUNARI

    Parte prima: l’America è in Italia

    1

    Dio è un lavoro usurante, non ci piove; però anche sgugnare in un ufficio infestato da un poeta fa venire due bei meloni. Fin dal primo giorno in cui ho preso servizio alla Peverini-Arreda l’Italia S.r.l. la tenera Aldina presentandomi il Pergalli m’aveva sussurrato all’orecchio, neanche tanto piano: «Stai attento che questo è un poeta». Io non avevo afferrato la questione, ho persino sorriso come un imbecille e mi sono sbilanciato con un infelice «Ah, bene!»

    Lui l’ha preso come un complimento. Ha subito improvvisato un haiku di benvenuto in quella nobile azienda di mobili e complementi per l’arredamento, tesseva uno sperticato elogio delle mie presunte qualità civili, morali e lavorative. Io non sapevo come reagire; fino ad allora non ero mai stato preso a colpi di haiku, almeno questa disgrazia mi era stata risparmiata nella vita.

    Mentre l’Aldina spariva ridacchiando per gli infiniti corridoi della Peverini-Arreda l’Italia S.r.l. non ho trovato di meglio che balbettare un timidissimo «Altrettanto a lei, la ringrazio molto».

    L’Arturo Pera Pergalli poco ci manca si mette a ballare dalla gioia, credeva che fossi anch’io un poeta ermetico sotto mentite spoglie.

    «Lei scrive!?» mi dice tutto entusiasta rifilandomi una gran pacca sulla spalla.

    «Ma no, veramente – le assicuro che non ho mai fatto nulla del genere!»

    «Ne è proprio certo?»

    «Glielo giuro sulla mia maestra delle elementari».

    Di fronte a cotanto giuramento sembra finalmente convincersi, il Pera, anche se è parecchio deluso.

    «Ma almeno legge, no?»

    Be’, sì, leggere qualche volta mi capita, non posso mica negarlo – ci farei la figura dello scansafatiche. Ma poca roba, intendiamoci, mi schermisco subito. Lui vuole invece sapere per filo e per segno cos’è che mi capita di leggere, ultimamente.

    L’ultima volta che mi sono ritrovato a leggere qualche cosa di veramente stampato ho dovuto affrontare l’Ulisse di Joyce, c’ho messo ventinove mesi precisi. Me l’aveva consigliato o per meglio dire imposto quel pallone gonfiato della Razzo, una che si è specializzata in antropologia criminale e per questo motivo c’ha sempre delle uscite straordinarie, che uno si domanda dove diavolo le va a pescare.

    Nel casellario giudiziale, vien da dire.

    Messo quindi alle strette, quasi sotto tortura, confesso che effettivamente nel corso di questi recentissimi annetti qualcosina l’ho letta, l’Ulisse, appunto, per essere precisi. «Ah! Omero!» esclama subito il Pera.

    Un poeta ignorante, mi doveva capitare, come collega; lavorarci fianco a fianco per tutta la vita, sai che bello. Che questo qui c’ha la mia stessa età, più o meno, e se non l’ammazzo io mi tocca di conviverci fino alla pensione, poveruomo. «Veramente, l’ha scritto un irlandese», faccio umilmente notare.

    «Cieco, almeno?»

    «Non molto, a voler essere pignoli».

    «Va be’, fa lo stesso. Ma lei l’ha già letta la mia ultima raccolta di haiku?»

    … ne ha scritta più di una! E questo qui è un raccomandato di quelli disumani, mi risulta, discende dai lombi di un magnate fuor di cocomera che ha rovesciato verdoni a carriolate sulla ditta; bisogna trattarlo con i guanti della festa, sennò va a finire che mi lasciano a casa a rileggere l’Ulisse per il resto dei miei giorni.

    «Eh, l’ho cercata in libreria, la sua raccolta, ma non ce l’avevano», mento spudoratamente.

    «Posso ben immaginarmelo – il distributore è una carogna. Un pirata della più bell’acqua, che non ci si crede».

    «Una sanguisuga, probabilmente».

    «Può dirlo forte! Una sanguisuga e un pirata al contempo».

    Devo essere capitato per sbaglio in un film di Buñuel, ma non ho titolo per recriminare in proposito. Teoricamente sarei lì per lavorare, che mi pagano anche – o almeno questi sono gli accordi contrattuali con la ditta; la ditta di uno che pretende di arredare l’Italia, nientemeno. Tutto questo qualche cosa vorrà pur dire, temo, ma non mi viene lasciato il tempo di approfondire la questione. «Fortunatamente ne ho una copia nel cassetto», mi fa Pergalli. «Vuole darci un’occhiatina?»

    «Volentieri, se me la presta la leggo con comodo a casa» (dio madonna, cosa tocca fare per sopravvivere!)

    «Ma no, perché aspettare fino a stasera!» se ne esce fuori quel tanghero bestiale; «si sieda alla sua scrivania, si metta comodo, si sistemi. La poltroncina è all’altezza giusta per le sue gambe? A me pare un po’ troppo alta, permette? Ecco, così ci siamo. Si rilassi. Inclini appena un poco la spalliera, che la spina dorsale possa respirare per bene. Le leggo io un paio di paginette, lei chiuda gli occhi e immagini di navigare su un pallone aerostatico».

    A me pareva di navigare su un’ambulanza lanciata a palla verso la clinica neuro. Non ho avuto il coraggio di interromperlo, «Questo qui è un pazzo dei più pericolosi», pensavo molto preoccupato; «se si ficca in testa che non lo prendo sul serio è capace di soffocarmi con la polvere dell’estintore. Ma capitano tutte a me?»

    È andata a finire che dopo un paio di paginette piene zeppe di haiku mi sono addormentato come una talpa, ho ronfato per tre quarti d’ora abbondanti. Bisogna proprio ammettere che le poltroncine di questa azienda sono comodissime, perdinci – un vero e proprio gioiello della tecnologia italiana, che anche i tedeschi e i giapponesi devono solo tacere e piazzarsi sull’attenti davanti a un simile portento.

    Comunque se l’è presa mica poco, il Pergalli; era convinto che io snobbassi la sua poetica aerostatica e fingessi di essere morto solo per insultarlo meglio, così da buon unicorno qual è ha pensato bene di avvertire Peverini in persona – che venisse un po’ a vedere come lavorava sodo il nuovo assunto il primo giorno di servizio.

    2

    Con il passare dei mesi e il vorticare delle stagioni ho scoperto la Costante di Pergalli, che chiameremo KP.

    Il suo valore è 46,9. Ciò significa che dato un nuovo assunto X che si muove ingenuamente lungo una retta L in direzione del versificatore P, quest’ultimo impiega esattamente quarantasei secondi e nove decimi per chiedergli se anche lui (X) scrive.

    Le cause del fenomeno sono del tutto sconosciute; l’unica cosa certa è che la presenza dell’osservatore non incide sul valore di KP. Nemmeno le condizioni di temperatura, luce, umidità dell’aria o assoluta mancanza della stessa sembrano avere la minima rilevanza.

    Di solito la variabile X non scrive, o almeno risponde formalmente in tal senso.

    Una volta soltanto, mi ricordo, la variabile X ha dichiarato con un certo pudore che qualcosina l’aveva scritta; si trattava di Carapelle Antonino, ragioniere di prima classe assunto a tempo determinato per gli alterni bisogni dell’ufficio resinati. Dev’essere stato quattro o cinque anni fa.

    Nel caso concreto, X e P hanno subito concordato uno scambio di ostaggi: quello di Carapelle Antonino si chiamava Caso e consisteva nel seguente raccontino:

    Nel villaggio c’erano due commercianti di legname, uno si chiamava Stroznitzki e l’altro Striznowski. Anche di faccia si assomigliavano parecchio ma non erano assolutamente parenti, nemmeno cugini alla lontana; questa situazione era dunque un semplice frutto del caso.

    Stroznitzki e Striznowski abitavano nella stessa via, rispettivamente al civico sette e al civico nove; pareva lo facessero apposta, invece si trattava ancora una volta dell’opera del caso. Tutti e due erano scapoli, cosa che non meravigliava nessuno dal momento che erano brutti come la fame. In una sola cosa divergevano, uno era protestante e l’altro cattolico – ma entrambi avevano abbandonato la fede da moltissimi anni e adesso come adesso non si ricordavano più bene che cos’erano stati.

    «Striznowski, tu che eri cattolico…» cominciava a dire Stroznitzki a Striznowski mentre fumavano la pipa sotto il pergolato della taverna.

    «Caro il mio Stroznitzki», diceva Striznowski a Stroznitzki, «ma se il cattolico eri tu!» – finché l’insistenza di Stroznitzki non gettava nel dubbio anche Striznowski.

    Pergalli era semplicemente entusiasta: non solo aveva trovato un altro cittadino della repubblica delle lettere, ma quest’ultimo scriveva cose più assurde delle sue.

    La paginetta, fotocopiata a cura dello stesso Pera, ha penzolato a lungo in tutte le bacheche dell’azienda a titolo di sprone e paragone, finché qualcuno si è presa la briga di scrivere COGLIONI!! su tutte quante le copie, dal piano terra fino al decimo.

    Allora l’elemento P si è ravveduto e ha stracciato via tutti i foglietti.

    3

    L’Aldina è una santissima creatura e l’unica cosa che bisognerebbe farle è un monumento equestre a grandezza naturale, oppure ammazzarle il marito per poi sposarla di corsa. Se non sono stato licenziato a buco lo devo a lei sola e a nessun altro – tutti quei somari là dentro tenevano bordone al Pera mentre mi calunniava davanti al Grande Arredatore della Nazione in persona, che dal canto suo è un trombagalline.

    Io dormivo ancora come un giaggiolo ed ero già entrato nella fase REM. Ne sono proprio sicuro perché stavo sognando, e stavo sognando che prosperavo in un sontuoso orto botanico dove tutti mi portavano un rispetto straordinario – un giaggiolo così grosso non l’avevano mai visto da nessuna parte.

    Che cosa devo dire – quando mi sono reso conto che invece stavo ronfando su una poltroncina della rinomata ditta Peverini-Arreda l’eccetera, per di più in pieno orario di lavoro, era ormai troppo tardi per rimediare. Sentivo un brusio di sottofondo che non avevo mai notato in alcun orto botanico; alzo una palpebra per controllare un po’ quella stranezza; invece di aiuole graziosamente ordinate tutt’intorno e premurosi giardinieri al mio servizio vedo un mare di salariati tracotanti, tutti a fissarmi come se non avessero mai visto uno che dorme. Borbottavano non so che acide osservazioni sul mio conto. Con la coda dell’occhio vedo Peverini che si allontana scuotendo la testa – tira in ballo concetti del tipo tradimento e delusione e altre amenità ormai fuori moda da moltissimi secoli, almeno nel settore del lavoro dipendente; e invece tutti lì ad assentire come se stesse propagandando delle verità sacrosante, quell’imprenditore mitomane!

    L’unico essere vivente che non assentiva a mio danno era proprio l’Aldina, il braccio destro di Peverini; anzi, nel ritornarsene nell’infinito crogiuolo dei corridoi aziendali mi fa dei gesti con le mani che adesso come adesso non saprei descrivere a parole né ripetere in concreto, ma che significavano inequivocabilmente «Non ti preoccupare, ci penso io» – chiaro come un uovo. Allora apro anche l’altro occhio e fulmino tutti quei giullari con uno sguardo che classificare urticante è ancora poco e definirlo uno sguardo è un eufemismo grande come un marusticano. All’occorrenza so essere duro anch’io.

    Una volta urticati, i componenti di quell’improvvisata assemblea cominciano a defluire verso i rispettivi cubicoli; ancora mormorano d’invidia nei miei confronti – di addormentarsi sul posto di lavoro non se l’erano mai nemmeno sognato nel corso della loro intera esistenza, ci scommetto le ghiande. Perché la loro è la vita del lombrico, che deve prima ingerire e poi evacuare nientemeno che il pianeta Terra – ce n’hanno da sgugnare.

    Urticare il Pera altre due o tre volte supplementari mi sarebbe piaciuto immensamente, ma non volevo rischiare di inimicarmi del tutto il Faccia d’Inguine. Tossicchio con molto garbo e come se niente fosse spiego al gallinaceo che io sono fatto così, ho una sensibilità al limite del normale e quando sono alle prese con la buona letteratura mi addormento regolarmente – è per questo che c’ho messo ventinove mesi a leggere l’Ulisse; ogni pagina sprofondavo nel mondo dei sogni e ci rimanevo secco per tre ore. Così lo prego con il cuore in mano di non leggermi più delle poesie tanto belle in orario di lavoro, che poi Peverini come si è visto capisce fischi per fiaschi e magari va a immaginarsi che io non sono un lavoratore ideale.

    Dopo una sviolinata di questo calibro Pergalli ce l’ho ai miei piedi come un chierichetto e se gli domandassi di fare cose strane, che ne so, abbaiare due o tre volte di fila, eseguirebbe tutto senza la minima esitazione. Di lavorare ovviamente non glielo chiedo neanche morto, magari gli pare una cosa troppo strana e poi mi si altera di nuovo.

    Tutti quanti in azienda, meno Peverini il líder máximo, hanno almeno una copia degli ultimi haiku del Pera in uno dei cassetti della scrivania. È impossibile liberarsene. Tu la butti nel cestino, la bruci, la mangi – non c’è niente da fare, la tua preziosa copia personale ti si autoriproduce immediatamente nel cassetto. Clonazione, vien da pensare. Però quel giorno lì, quello in cui ho preso servizio in modo tanto atipico, la tenera Aldina è scesa dal suo bel quadro di Botero – lei è così totalmente soda, rotonda e concentrata che pare sempre appena uscita da un quadro di Botero –, è andata da Peverini di cui come si è detto costituisce il braccio

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