Dalla Terra alla Luna
By Jules Verne
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I soci del Gun Club, associazione americana di artiglieri, con sede a Baltimora annunciano che un proiettile lanciato da un cannone di loro invenzione è in grado di raggiungere la Luna. Il proiettile sarà di forma sferica, costruito in alluminio, mentre il dispositivo di lancio, un'enorme bocca in ghisa scavata nel terreno, utilizzerà il Fulmicotone come detonatore.
Da tutto il mondo piovono sottoscrizioni per finanziare l'impresa.
I più illustri scienziati discutono la questione.
Un avventuriero francese, Michel Ardan, si propone di salire sul proiettile, che invece progetta di forma cilindrica, e di diventare così il primo astronauta della storia umana.
Jules Verne
Jules Verne (1828–1905) was a prolific French author whose writing about various innovations and technological advancements laid much of the foundation of modern science fiction. Verne’s love of travel and adventure, including his time spent sailing the seas, inspired several of his short stories and novels.
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Dalla Terra alla Luna - Jules Verne
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1
Il Gun Club
Durante la guerra di secessione americana, a Baltimora, nel Maryland, nacque un nuovo importante club.
È nota l’abilità in guerra degli americani, popolo di armatori, meccanici e commercianti. Semplici bottegai lasciarono i loro banchi di vendita e si improvvisarono capitani, colonnelli e generali, senza essere passati per l’accademia di West Point.
In poco tempo divennero padroni dell’«arte militare» come i loro colleghi europei, con grande spreco di proiettili, uomini e dollari. Ma il campo in cui gli americani superarono largamente gli europei, fu quello della scienza balistica. Non che le loro armi fossero tecnicamente migliori, ma erano senz’altro di dimensioni eccezionali e, di conseguenza, avevano limiti di gittata straordinari per quei tempi. In fatto di tiri radenti, parabolici, orizzontali, a traiettoria obliqua, d’infilata o di rovescio, gli inglesi, i francesi e i prussiani non hanno niente da imparare, ma i loro cannoni, i loro obici, i loro mortai sono giocattoli in confronto ai formidabili ordigni dell’artiglieria americana.
Questo non deve meravigliare. Gli yankees, i migliori meccanici del mondo, nascono ingegneri come gli Italiani nascono musicisti e i tedeschi filosofi. È normale, quindi, che essi applichino il loro acutissimo ingegno alla scienza balistica. Di qui la ragione di quei giganteschi cannoni, molto meno utili delle macchine da cucire, ma altrettanto sbalorditivi e ancor più degni di ammirazione.
In questo campo sono note le meraviglie di Parrot, Dahlgreen e Rodman. Gli Armstrong, i Palliser e i Treuille de Beaulieu non possono far altro che inchinarsi davanti ai loro rivali d’oltremare.
Durante la terribile lotta tra nordisti e sudisti, gli artiglieri ebbero dunque la supremazia. I giornali dell’Unione esaltavano le loro invenzioni, e non c’era modesto commerciante o ingenuo sempliciotto che non si rompesse la testa notte e giorno a calcolare traiettorie sballate. Ora, quando un americano ha un’idea, ne cerca un altro che la condivida. Quando sono in tre, eleggono un presidente e due segretari. In quattro, nominano un archivista, e l’ufficio prende a funzionare. Quando arrivano a cinque, convocano l’assemblea generale e il club è costituito. Ed è quello che accadde a Baltimora.
Il primo che inventò un nuovo tipo di cannone si associò al primo che lo fuse e al primo che lo perforò. Tale fu il nucleo iniziale del Gun Club. Un mese dopo la sua fondazione, questo circolo contava già milleottocentotrentatrè soci effettivi e trentamilacinquecentosettantacinque soci corrispondenti. Condizione assolutamente necessaria per entrare a farne parte era quella d’aver ideato o quanto meno perfezionato un cannone, in mancanza del quale poteva bastare una qualsiasi arma da fuoco.
Bisogna dire, però, che gli inventori di pistole a quindici colpi, di carabine a tamburo o sciabole pistola non erano tenuti in gran considerazione: in ogni caso, il primato spettava agli artiglieri.
«La stima di cui godono», disse un giorno uno dei più forbiti oratori de Gun Club, «è proporzionale alle masse
dei loro cannoni e in ragione diretta del quadrato delle distanze
raggiunte dai loro proiettili».
Era la legge di gravitazione universale di Newton applicata pari pari all’ordine morale.
Ora, col Gun Club, è facile immaginare dove poteva arrivare in tale campo il genio inventivo degli americani. Gli ordigni bellici raggiunsero proporzioni colossali e i loro proiettili, valicando qualsiasi limite, giunsero a fare a pezzi ignari viandanti che si pensava fossero fuori tiro.
I cannoni europei facevano sorridere se confrontati con tutte queste invenzioni, come si può vedere agevolmente da queste cifre. Una volta, «nel buon tempo andato», un proiettile da trentasei, a una distanza di trecento piedi passava da parte a parte trentasei cavalli presi di fianco e sessantotto uomini.
L’artiglieria era ancora bambina. Da allora, la balistica ha fatto progressi straordinari. Il cannone Rodman, che sparava a sette miglia un proiettile di mezza tonnellata, avrebbe facilmente abbattuto centocinquanta cavalli e trecento uomini. Al Gun Club si discusse anche se procedere o meno ad una prova sperimentale. Ma se i cavalli non ebbero nulla da obbiettare, gli uomini disgraziatamente rifiutarono di partecipare all’esperimento.
Comunque sia, l’effetto di tali cannoni era estremamente micidiale e ad ogni scarica i combattenti cadevano come spighe sotto la falce.
Che cos’era ormai, di fronte a tali proiettili, la famosa palla che a Coutras, nel 1587, mise fuori combattimento venticinque uomini, e quell’altra che a Zorndoff, nel 1758, uccise quaranta fanti, o quel cannone austriaco di Kesselsdorf, che ad ogni colpo atterrava settanta nemici? Che ne era di quelle poderose bordate che a Jena o ad Austerlitz decidevano le sorti della battaglia?
Si era visto ben altro nella guerra di secessione. Nella battaglia di Gettysburg, un proiettile conico sparato da un cannone ad anima rigata annientò centosessantatrè confederati e, al passaggio del Potomac, un proiettile Rodman mandò all’altro mondo duecentoquindici sudisti.
E bisogna ricordare il mortaio formidabile ideato da J.T. Maston, socio eminente e segretario a vita del Gun Club, il cui primo colpo ebbe un esito spaventoso: infatti l’ordigno esplose uccidendo trecentotrentasette persone!
Che altro bisogna aggiungere a queste cifre? Niente. Esse parlano da sole. Non si potrà nemmeno contestare il seguente calcolo eseguito dall’esperto di statistica Pitcairn: dividendo il numero delle vittime cadute sotto i proiettili per quello dei soci del Gun Club, trovò che ognuno di questi era responsabile «in media» della morte di duemilatrecentosettantacinque uomini e una frazione.
A considerare queste cifre, appare chiaro che l’unica preoccupazione di quel circolo di tecnici era la distruzione del genere umano con intenti filantropici e il perfezionamento di ordigni mortali visti come strumenti di civilizzazione.
Era un circolo di Angeli Sterminatori, pur rimanendo i suoi soci le migliori persone al mondo. Bisogna però aggiungere che questi yankees, gente d’un coraggio non comune, non erano solamente dei teorici; pagavano anche di persona.
Fra loro c’erano ufficiali di ogni grado, da tenente a generale, militari di ogni età, gente che aveva appena iniziato la carriera militare o che stava invecchiando sui cannoni.
Molti rimasero sul campo di battaglia e i loro nomi erano iscritti sull’albo d’onore del Gun Club; altri, quelli che riuscirono a salvarsi, portavano i segni del loro valore.
Grucce, gambe di legno, braccia artificiali, mani a uncino, mascelle di gomma, calotte craniche d’argento, nasi di platino, non mancava nulla alla collezione del Gun Club, tanto che il prima citato Pitcairn calcolò che non c’era nemmeno un braccio intero ogni quattro persone e solo due gambe ogni sei.
Ma questi valorosi artiglieri non badavano a simili inezie e si sentivano a buon diritto fieri, quando il bollettino di una battaglia registrava un numero di vittime dieci volte superiore alla quantità di proiettili sparati.
Un giorno, tuttavia, e fu un giorno molto triste, i superstiti della guerra firmarono la pace. A poco a poco cessarono gli scoppi, i mortai tacquero, gli obici ammutolirono e i cannoni rientrarono a testa bassa negli arsenali; i proiettili furono ammucchiati a piramide nei depositi d’artiglieria, i ricordi cruenti svanirono e i campi di cotone ben concimati fiorirono rigogliosamente; cessarono i lutti della guerra e il Gun Club piombò nell’inerzia totale.
Alcuni infaticabili lavoratori continuarono a sfornare calcoli balistici, a sognare bombe gigantesche e obici potentissimi. Ma, senza la possibilità di essere messe in pratica, a che servivano queste inutili teorie? Così i saloni del Gun Club rimanevano deserti, i camerieri dormivano nelle anticamere, i giornali ammuffivano sui tavoli, gli angoli oscuri risuonavano del russare della gente e i soci del club, una volta attivissimi e ora ridotti al silenzio da una pace disastrosa, dormivano sognando bombe e cannoni.
«Che desolazione!», disse una sera il valoroso Tom Hunter, mentre le sue gambe di legno si carbonizzavano nel caminetto della sala da fumo. «Niente da fare! Niente da sperare! Che vita noiosa! Dov’è il tempo in cui il cannone ci svegliava al mattino con le sue allegre detonazioni?»
«È finito quel tempo!», rispose il vulcanico Bilsby cercando di stirarsi le braccia che non aveva più. «Era bello, allora! Ognuno inventava il proprio obice e, appena fuso, correva a provarlo davanti al nemico; poi rientrava al campo con un attestato di Sherman o una stretta di mano di Mc Clellan! Ora i generali sono tornati alle loro scrivanie e, invece di proiettili, spediscono innocue balle di cotone!».
«Ah, per Santa Barbara! L’artiglieria non ha futuro in America!».
«Hai ragione Bilsby», esclamò il colonnello Blomsberry.
«È una delusione crudele! Un giorno si lasciano le proprie tranquille abitudini, ci si esercita al maneggio delle armi, si lascia Baltimora per il campo di battaglia, ci si comporta da eroi e due anni più tardi si è costretti a rinunciare al frutto di tante fatiche, a sonnecchiare in un ozio deplorevole con le mani sprofondate in tasca».
Il valoroso colonnello non poteva scegliere espressione più infelice poiché gli sarebbe stato estremamente difficile fornire una tal prova della sua inerzia e non certo per mancanza di tasche.
«E non c’è nessuna guerra in vista!», disse il famoso J.T. Maston, grattandosi con il suo uncino di ferro il cranio d’argento.
«Non una nube all’orizzonte, e c’è tanto da fare nella scienza dell’artiglieria! Io, per esempio, proprio stamattina ho terminato il disegno con pianta, sezione e proiezione di un mortaio destinato a rivoluzionare le leggi della guerra!».
«Davvero?», replicò Tom Hunter pensando involontariamente all’ultimo tentativo fatto dall’onorevole J.T. Maston.
«Proprio», rispose quest’ultimo.
«Ma a che serviranno tutti questi studi, tutte queste difficoltà superate? Non significa lavorare in pura perdita? I popoli del nuovo continente sembrano essersi passati la parola d’ordine di vivere in pace, e la nostra bellicosa Tribuna
arriva a prevedere imminenti catastrofi a causa della sovrappopolazione!».
«Tuttavia, Maston», riprese il colonnello Blomsberry, «in Europa si combatte ancora per affermare il principio delle nazionalità!».
«Ebbene?»
«Ebbene, si potrebbe tentare qualcosa laggiù e se accettano la nostra collaborazione...».
«Ma ci pensate!», intervenne Bilsby. «Fare della balistica per conto di stranieri!».
«Be’, sarebbe meglio che rimanere con le mani in mano», replicò il colonnello.
«Certo, sarebbe meglio», disse J. T. Maston, «ma non dobbiamo nemmeno pensare ad un espediente del genere».
«E perché?»
«Perché nel vecchio continente hanno delle idee opposte alle nostre sulle promozioni. Quella gente non concepisce che si possa diventare capo di stato maggiore se non dopo aver servito come sottotenente e così via. Sarebbe come dire che non si può essere buoni puntatori, a meno di non avere fuso materialmente il cannone! Ora, è del tutto...».
«Pazzesco!», replicò Tom Hunter tagliuzzando i braccioli della sua poltrona a colpi di bowie-knife . «Se le cose stanno così non resta che metterci a piantare tabacco o distillare olio di balena!».
«Come?!», tuonò J.T. Maston, «non dedicheremo questi ultimi anni di vita al perfezionamento delle armi da fuoco?! Non avremo più alcuna occasione per sperimentare i nostri ordigni? L’aria non sarà più illuminata dal bagliore dei nostri cannoni? Non ci sarà un qualsiasi incidente internazionale che ci permetta di dichiarare guerra a qualche potenza d’oltre Atlantico? I francesi non affonderanno più almeno uno dei nostri piroscafi e gli Inglesi non imprigioneranno tre o quattro nostri connazionali, in spregio al diritto internazionale?»
«No, Maston», rispose il colonnello Blomsberry, «non avremo questa fortuna! Non si verificherà nessuno di questi incidenti e, quand’anche succedesse, non sapremmo approfittarne! La suscettibilità degli americani si affievolisce di giorno in giorno: diventeremo un popolo di donnicciole!».
«Sì, ci umiliamo!», confermò Busby.
«E ci umiliano!», ribadì Tom Hunter.
«Purtroppo è vero», rincarò J.T. Maston con rinnovata veemenza. «Ci sarebbero mille motivi per battersi eppure non si muove un dito! Si risparmiano braccia e gambe a profitto di chi non sa che farsene! E poi, senza andar a cercar troppo lontano, l’America non è stata fino a non molto tempo fa una colonia inglese?»
«Già», rispose Tom Hunter riattizzando il fuoco con la punta della sua gruccia.
«Ebbene», proseguì J.T. Maston, «l’Inghilterra non potrebbe a sua volta essere sottomessa agli americani?»
«Sarebbe un atto di giustizia», commentò il colonnello.
«Andate a fare una simile proposta al presidente degli Stati Uniti», gridò J.T. Maston, «e vedrete come l’accoglierà!».
«L’accoglierà male», farfugliò Bilsby fra i quattro denti che gli erano rimasti dopo la guerra.
«Corpo di mille spingarde!», si arrabbiò J.T. Maston, «alle prossime elezioni non conti sul mio voto!».
«E nemmeno sui nostri!», risposero in coro quei bellicosi invalidi.
«Nel frattempo», riprese J.T. Maston, «e per concludere, se non mi verrà dato modo di provare il mio nuovo mortaio su un vero campo di battaglia, mi dimetterò dal Gun Club e correrò a seppellirmi nelle savane dell’Arkansas!».
«E noi la seguiremo», risposero gli interlocutori dell’audace J.T. Maston.
Stando così le cose, gli animi si inasprivano sempre di più e il Gun Club minacciava di sciogliersi da un momento all’altro. Ma un fatto inatteso venne a scongiurare una così tremenda catastrofe.
Il giorno dopo questa conversazione ogni socio del club ricevette una lettera che diceva:
Baltimora, 3 ottobre
Il presidente del Gun Club ha l’onore di informare i suoi colleghi che, alla riunione del 5 corrente mese, verrà fatta una comunicazione della massima importanza. Si prega, quindi, di accogliere l’invito fatto con la presente, rinviando qualsiasi altro impegno.
Cordiali saluti, vostro devotissimo
IMPEY BARBICANE P.G.C.
2
Comunicazione del presidente Barbicane
Il cinque ottobre, alle otto di sera, un pubblico numeroso affollava i saloni del Gun Club, al numero 21 di Union Square.
Tutti i soci del circolo residenti a Baltimora avevano risposto all’invito del loro presidente. Quanto ai soci corrispondenti, i treni ne scancavano a centinaia per le vie della città e la sala delle riunioni, per grande che fosse, non riusciva a contenere per intero questo grande congresso di studiosi, sicché molti erano costretti a rimanere nei corridoi esterni.
Qui venivano a contatto con semplici cittadini, che si accalcavano alle porte cercando di raggiungere i primi posti. La gente era ansiosa di ascoltare l’importante comunicazione del presidente Barbicane e si spingeva, si urtava, si schiacciava con quella libertà d’azione caratteristica delle masse educate agli ideali dell'autogoverno .
Quella sera, un forestiero che si fosse trovato a Baltimora non sarebbe riuscito a penetrare nel grande salone nemmeno con un assegno da mille dollari: infatti il locale era riservato esclusivamente ai soci residenti o corrispondenti e nessun altro poteva prendervi posto.
Anche le autorità cittadine e i magistrati del consiglio dei selectmen avevano dovuto mescolarsi alla folla dei loro amministrati, nella speranza di cogliere al volo le notizie provenienti dall’interno.
Intanto l’immensa hall offriva allo sguardo uno spettacolo inusitato. Il vasto locale era perfettamente intonato all’attività dei soci del club.
Alte colonne formate da cannoni sovrapposti che poggiavano su basamenti costituiti da grossi mortai, sostenevano le sottili armature della volta, veri e propri merletti di ghisa modellati con lo stampo tagliente. Fasci di schioppi, di tromboni,