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Il commissario Malarazza e il codice Segesta
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Il commissario Malarazza e il codice Segesta

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Nuovo caso per Carlo Emilio Malarazza. Una giovane commessa è stata uccisa e marchiata a fuoco con un ferro raffigurante un elefantino. Un’antica leggenda narra la storia dell’ancella Zelpha, di cui si è invaghito il dio Feròn, possessore di un talismano che assicura l’immortalità. L’ancella fugge, inseguita da "I Mistici", i sacerdoti del dio, e protetta dai "Priori di Tasàn", in una caccia che durerà tremila anni e che arriverà a Napoli e dall’ignaro Malarazza. Nel corso dell’indagine, il commissario scoprirà che il talismano è conservato all’interno di una teca di pietra, che può essere aperta solo con una chiave denominata "Il codice Segesta"... Seconda avventura del commissario Malarazza, che tra incontri e scontri, rimandi e cambi di rotta, sorprese e variazioni, non concederà al lettore alcuna forma di pausa.
LanguageItaliano
Release dateDec 7, 2016
ISBN9788893690416
Il commissario Malarazza e il codice Segesta

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    Il commissario Malarazza e il codice Segesta - Salvatore Marotta

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    1

    Il primo giorno: la mattina del 21 novembre.

    Leggere il giornale in auto, nel traffico, a sirene spiegate, con i vetri appannati e uno scalzacane come il vice commissario Maturo che ti parla all’orecchio e ti dice cose insulse, era un’impresa in cui, a questo mondo, poteva riuscire solo il commissario Malarazza. Era capace, infatti, di estraniarsi fino al punto che solo lo scoppio di un petardo poteva distoglierlo dalla lettura d’indagini e delitti.

    La Pantera lanciata ad alta velocità raggiungeva via dei Mille, dove, in una libreria, era stato ritrovato il corpo senza vita di una giovane addetta alle vendite: Rita Bruno, di trentadue anni. Malarazza non era riuscito a evitare Maturo. Il signor questore era stato chiaro, gli aveva intimato un Andrete insieme come culo e camicia, con un garbo che non ammetteva tavole rotonde sull’argomento. Malarazza aveva abbozzato e ubbidito con la stessa fiera espressione del combattente per la libertà sul patibolo prima che gli bendino gli occhi. Quando l’auto giunse all’indirizzo stabilito, Malarazza ordinò all’autista di fermarsi. Scese sul marciapiede barcollando, poi si riprese, ripiegò il giornale sotto il braccio, annusò l’aria fredda e umida come un apache e si guardò in giro. Volse lo sguardo ai palazzi, ai portoni e non si fermò fino a quando notò il salone di un barbiere.

    - Ah, ricordavo quel barbiere - disse rivolgendosi al vice. - Maturo, avviati. Ti raggiungo dopo. Vienimi a chiamare quando arriva il medico legale. Mi trovi lì. Mi faccio aggiustare un po’ la capigliatura e la barba - disse avviandosi verso l’altra parte della strada.

    - Va bene, Giò. Basta che non sparisci, come fai di solito.

    - No, mi troverai lì, stai tranquillo.

    Attraversò la strada e si diresse verso il salone. Entrò guardandosi indietro e quando chiuse la porta salutò - Buongiorno a tutti. Che sta succedendo? Perché ci sono tutti quei poliziotti?

    Gli avventori fecero a gara per rispondere e Malarazza riuscì a capire che, circa alle sette, un’addetta alle pulizie aveva trovato una ragazza morta nella libreria semidistrutta.

    - La ragazza era di qua? - chiese al barbiere Ciro.

    - No, non era di Napoli, era puntualissima. Ogni mattina arrivava alle otto e trenta e apriva il negozio. Poi, a mezzogiorno, offriva da mangiare al barbone che stava seduto sempre accanto alla libreria e alle otto di sera chiudeva. Io lo so perché sto sempre qua, abito qua sopra - rispose il barbiere indicando con la mano chiusa a pugno e il pollice esteso il soffitto.

    - Una brava ragazza! - fece il commissario.

    - Bravissima! - ribadì il barbiere.

    - Sarà stata una rapina. Qualche drogato è entrato e l’ha uccisa - disse Malarazza nel tentativo di provocare i commenti.

    - Non penso. L’hanno trovata stamattina, alle sette. Deve essere rimasta da ieri sera in libreria - disse pomposamente il primo pensatore.

    - Potrebbe avere avuto anche un appuntamento con qualcuno o ci è rimasta con il fidanzato - aggiunse il secondo pensatore.

    - Oppure potrebbe essere stata costretta ad aprire da qualcuno che l’ha minacciata - continuò Malarazza.

    - Sì, anche questo è vero. Che ci può stare di tanto importante in una libreria? - sentenziò il secondo pensatore.

    - E perché l’hanno danneggiata... la libreria, secondo voi? - chiese Malarazza che cominciava a divertirsi.

    - Forse la ragazza ha tentato di difendersi - rispose il primo pensatore.

    - E perché si sarebbe difesa solo quando è arrivata in libreria? Se, come dice il signore qua, è stata sequestrata e costretta ad aprire - chiese il barbiere Ciro.

    - Com’era la ragazza? - incalzò Malarazza sempre più interessato.

    - Carina. Bionda e occhi verdi. Sempre scarpette, jeans e coda di cavallo. Sembrava una ragazza palestrata, di quelle fanatiche - rispose il barbiere Ciro, che logisticamente era il testimone più attendibile.

    - Quindi ci può essere stata una lotta prima che l’assassino avesse la meglio - commentò Malarazza.

    Dopo un po’, all’incalzare delle domande del commissario, l’accademia dei liberi pensatori pian piano s’ammutolì. Alcuni di quei virtuosi commentatori si erano arresi alle deduzioni logiche di Malarazza e, avendo interrotto i commenti verbali, ascoltavano incuriositi le deduzioni successive. A Napoli è difficile trovare persone che rinuncino a dire la loro su qualsiasi argomento e nel salone di don Ciro Iuliucci, che da anni era diventato il luogo più accreditato per gli specialisti del genere, era impossibile incontrarne uno.

    - Veniva da sola al lavoro o l’accompagnava qualcuno? - chiese Malarazza.

    - Da sola, sempre da sola, in scooter. Da quando la conosco, l’ho vista parlare solo con il barbone, che stranamente - disse affacciandosi alla porta, - stamattina non c’è.

    - Quando alle sette l’hanno trovata morta, voi avete udito gridare?

    - Scusate, ma voi tutte queste domande perché le fate? - domandò sfinito il barbiere Ciro.

    - Per far passare il tempo - rispose l’innocente commissario.

    - Se proprio lo volete sapere, io stamattina alle sette e dieci ho sentito gridare così forte che pensavo fosse il terremoto. Sono sceso giù e ho visto la signora della ditta delle pulizie che, con le mani in testa, gridava come un’ossessa. Mia moglie ed io l’abbiamo calmata, poi io sono entrato e ho visto Rita tutta insanguinata distesa sul banco a faccia in giù. Non so che mi è successo, piangevo senza piangere. Le lacrime mi cadevano dagli occhi, ma io non piangevo. Abbiamo chiamato la polizia e abbiamo raccontato tutto quello che sapevamo. Poi la signora se n’è andata con la figlia ed io me ne sono tornato qua a lavorare. Mi hanno detto di rimanere a disposizione, ed io qua sto.

    - Tocca a me? - chiese Malarazza, vedendo uno dei clienti alzarsi dalla postazione di servizio.

    - C’è prima un’altra barba, poi vi servo - disse premuroso il barbiere Ciro.

    - Morire così giovane! Che peccato! Chissà i genitori! - disse continuando a provocare Malarazza.

    - Certe cose succedono perché non c’è più controllo. Qua i giovani fanno quello che vogliono, non se ne fregano di niente. Il signorino mio - disse indicando di nuovo il soffitto con il pollice, - per esempio, sta ancora dormendo. Torna a casa alle quattro del mattino e se lo sveglio la madre mi aggredisce. Io, intanto, non posso andare in pensione perché quello non sa fare ancora il mestiere. Vuole fare l’imprenditore senza un soldo, il principino.

    Malarazza capì che aveva introdotto un argomento scottante che però gli avrebbe fatto perdere tempo e sterzò di nuovo verso l’argomento principale.

    - Quando siete scesi giù, non avete notato niente? In strada non c’era nessuno?

    - No, c’era gente, ma sono rimasti fuori. Solo io ho avuto il coraggio di entrare. Poi, quando sono arrivati i poliziotti, ho sentito dire: A quella poverina l’hanno uccisa, sfregiata e marchiato tutto il corpo con un elefantino. Qua ci vuole il commissario Malarazza.

    - E chi è questo commissario Malarazza? - chiese Malarazza.

    - Non lo so - rispose il barbiere Ciro.

    - Commissario Malarazza, è arrivato il dottor Luigi De Sio - disse Maturo entrando nel salone.

    Malarazza guardò il soffitto ed elencò al Padreterno, mentalmente, almeno una trentina di cose che avrebbe potuto evitare di creare, tra queste Maturo figurava al primo posto.

    Uscito fuori tra gli sguardi sconcertati dei presenti, Malarazza chiese a Maturo - Perché mi chiami sempre Giò e, ora, quando sei entrato, mi hai chiamato Commissario Malarazza? - chiese incuriosito.

    - Per farti fare bella figura! - rispose convinto il primate poco normale.

    Malarazza lo propose per tutto il decennio successivo al primo posto della lista. Poi guardò di nuovo per aria in cerca del Padreterno per confermargli la scontata notizia.

    Alle loro spalle si affacciò dal locale il barbiere Ciro, e disse sorridendo - Signore, i capelli li facciamo un’altra volta. Però, mi sono ricordato chi è quel commissario Malarazza. Quel commissario è un grandissimo figlio di puttana. Credetemi.

    -Ah, ah! - sorrise Maturo. - Ti sei fatto riconoscere anche qua. Ti hanno inquadrato subito... hanno capito che sei uno che tira sempre gli scherzi ai colleghi che ti vogliono bene e che ti prendi tutti i meriti delle indagini.

    Malarazza si convinse di scrivere al Presidente della Repubblica Italiana una lettera con la richiesta di provvedere urgentemente all’annessione dell’Italia al Sudafrica per trasferire Maturo in un commissariato nei sobborghi di Pretoria.

    Si riaggiustò il soprabito e, in compagnia della sua damigella d’onore, attraversò la strada.

    Il dottor De Sio si era già messo al lavoro e quando vide Malarazza scosse violentemente il capo in segno di forzata rassegnazione. La libreria era letteralmente sfondata, come se quattro elefanti zoppi ci avessero danzato il samba per un’intera serata. Il corpo di Rita era circondato dai tecnici che in tuta bianca facevano prelievi e fotografavano tutto.

    - Non vi affannate. Questa non è un’abitazione privata. Troverete di tutto. Anche il Dna di Toro Seduto - disse Malarazza ad alta voce.

    - Buongiorno, signor commissario - rispose inchinandosi il dottor De Sio.

    - Buongiorno, professor De Sio. Come mai da queste parti? - chiese ironicamente Malarazza ricambiando l’inchino.

    Si stimavano profondamente, ma sulle indagini avevano idee diametralmente opposte. Rigorosamente ateo e scientifico il professor De Sio, umanista e analitico-deduttivo Malarazza. Così quando il primo vedeva arrivare il secondo una sorta di convinta svogliatezza si faceva largo nella sua anima, certo com’era, che i suoi referti sarebbero stati mentalmente e fisicamente cestinati appena possibile.

    - Che cosa abbiamo? - chiese deferente Malarazza.

    - Niente di particolare. Una ragazza sulla trentina, massacrata poi sfigurata e marchiata a fuoco con un ferro rovente a forma di elefantino. Ha tutte le costole rotte e la gamba destra escoriata... - rispose minimizzando il medico.

    - L’hanno marchiata a fuoco dopo averla uccisa, spero - disse accorato il commissario guardando in direzione opposta a quella in cui si trovava il cadavere.

    - Sì, l’unica ferita inferta prima di morire è quella sulla guancia. È una ferita da arma da taglio strana. Ti farò sapere i dettagli dopo l’autopsia. Per il resto, e lo dico senza prove, sembrerebbe morta per schiacciamento come se fosse finita contro un’auto o sotto un masso pesante, ma anche questo te lo confermerò con l’autopsia.

    - A che ora è morta? - chiese Malarazza.

    - Tre ore fa - rispose, guardando l’orologio, il dottor De Sio, - alle sei.

    Malarazza pensò: Mi hanno chiamato dopo un’ora. Stamattina ero arrivato alle otto in ufficio. Strano. Non è che il questore per farmi andare in compagnia ha aspettato che Willy arrivasse in questura?

    - Che cosa ha di strano la ferita alla guancia? - chiese.

    - Non te lo dico, devi aspettare l’autopsia - rispose De Sio facendo una smorfia.

    Malarazza guardò solo un attimo il cadavere di Rita, poi si voltò e se ne andò.

    - Ci sono segni di effrazione? - chiese a uno dei colleghi uscendo.

    - No, signor commissario. La serranda e la porta sono state aperte con quelle chiavi che sono ancora infilate nel lato esterno della serratura - rispose il poliziotto.

    Malarazza uscì dalla libreria e s’incamminò a piedi lungo via dei Mille alla ricerca di un bar per fare una seconda colazione.

    2

    Il primo giorno: il pomeriggio del 21 novembre.

    Malarazza non aveva pranzato. Aveva passeggiato senza meta per più di due ore. Poi, aveva chiamato Maestrotta e lo aveva invitato a cena. Intanto aveva raggiunto il suo ufficio in questura e seduto come un pascià, aspettava. Aveva convocato tutti i commessi della libreria e il proprietario che, dalle prime notizie doveva essere un barone o un conte. Fuori il tempo peggiorava sempre più, come la febbre dei bambini a mano a mano che cala la notte. Aveva il magone. Tra due ore il buio avrebbe avvolto tutto e lui aveva bisogno di luce, di aria, di stare ancora all’aperto. Decise di non guardare più fuori dalla finestra e di mettersi a lavorare. Era stata uccisa barbaramente una ragazza di trentadue anni e l’assassino doveva essere preso il più presto possibile. Si autopunì per una sensazione di prorompente oziosità che lo aveva preso e cominciò a lavorare.

    - Martoni - gridò.

    - Eccomi, signor commissario - rispose Martoni mettendosi sugli attenti.

    - Sono arrivati?

    - Sì, ci sono tutti. C’è anche il conte Vito D’Alessio.

    - Beh! Allora facciamoli entrare. Il conte per secondo, dopo un suo dipendente - ordinò Malarazza.

    - Va bene. Li faccio entrare in ordine di arrivo. Il conte è arrivato per secondo, dopo Angela Corvino.

    - Angela Corvino, poi il conte D’Alessio - ripeté Malarazza.

    Entrò una signorina carina e timida con occhiali da vista che le coprivano il viso.

    - Si accomodi signorina. Solo qualche domanda - disse Malarazza lanciando un’occhiata d’intesa al collega verbalizzante.

    - Che mi sa dire del conte D’Alessio? È un bravo datore di lavoro? - chiese fingendo di scherzare.

    Dopo qualche secondo d’incertezza che le servirono per arrossire con spigliatezza e per riaggiustarsi gli occhiali che le erano scivolati dall’esile nasino sulla bocca, la ragazza rispose - Sì, è un bravo proprietario. È un uomo gentile, ma con noi parlava poco, si rivolgeva sempre a Rita per le faccende della libreria.

    - E lei, la conosceva bene Rita? Da quanto tempo lavora in quella libreria?

    Poi, una vocina lo rimproverò: Una domanda alla volta, Giò. Così fai impappinare la testimone.

    - Quando sono arrivata io, lei già lavorava lì da due anni. Io facevo solo il turno di mattina, mentre lei stava lì dalla mattina alla sera.

    - Che tipo era Rita?

    - Signor commissario... era proprio una brava ragazza - disse piangendo. - Come hanno potuto ucciderla? Non faceva male a nessuno.

    - Questo lo scopriremo presto. Può andare, adesso... vada - disse Malarazza.

    - Commissario, scopritelo presto. Mio padre non mi vuole più mandare al lavoro, dice che, per adesso, è pericoloso... finché non sappiamo quello che è successo... è pericoloso.

    - Suo padre ha ragione. Se ne stia a casa per qualche giorno, si riposi. La libreria rimarrà chiusa per altri giorni. Ne approfitti per rilassarsi.

    - Va bene. Grazie, commissario - disse la ragazza allungando la mano per salutare e accompagnando il gesto con un sorriso rassegnato.

    - Stia bene... stia bene - disse calorosamente Malarazza rispondendo al saluto.

    Dopo aver calcolato che la ragazza a quei livelli di tensione sarebbe svenuta di lì a poco non aveva voluto continuare il colloquio. Si ricordò di averlo interrotto al quattordicesimo tentativo di far risalire gli occhiali alla radice del naso. La timidezza patologica! Il senso d’inadeguatezza! Malarazza si era già affezionato all’esile figura della commessa e la lasciò andare a malincuore. La moglie Paola dopo la nascita di Marco si era concentrata con tutta l’anima, la mente e lo spirito sul figlioletto e non c’era stato più spazio per nessuno... Così aveva dovuto rinunciare alla figlia femmina e, dopo trent’anni, ancora un po’ ne soffriva.

    Angela Corvino, invece, era perfetta. Stava ancora pensando a lei, quando chiamarono per l’interrogatorio del conte D’Alessio.

    Costui si fermò sulla soglia e aspettò di essere invitato a entrare e lo fece solo quando Malarazza si alzò per andargli incontro. Il severo commissario notò sulle prime l’aspetto tenebroso e tormentato del conte e ne intuì la pericolosità, poi esaminò le fattezze del viso, gli occhi semichiusi, la bocca piccola e le labbra sottili, il naso adunco e curvilineo, gli zigomi schiacciati e il mento sfuggente e ne comprese l’intransigenza mentale con lievi sfumature di razzismo globale, sempre presente nelle arterie di sangue blu. Infine, gli guardò le mani bianche e smagrite che reggevano i guanti di pelle e le chiavi dell’auto e si convinse che aveva a che fare con un cobra.

    - Si accomodi - disse Malarazza indicandogli la sedia.

    - Grazie, commissario - rispose il conte chiudendosi nel cappotto color carta da zucchero.

    Aveva assunto una posizione a doppia chiusura: braccia conserte e gambe accavallate. Malarazza fu facile preda della sensazione del cane da caccia col cacciatore senza fucile. Ci divertiremo un sacco, ma non prenderemo niente, pensò.

    - Comprendo il suo stato d’animo, signor conte, ma ho da farle delle domande e la devo trattenere per un po’.

    - Sono a sua disposizione - rispose cupo.

    - Da quanto tempo lavorava con lei Rita Bruno?

    - Da quattro anni.

    - Come l’ha conosciuta?

    - Ha risposto a un annuncio sul giornale. Cercavamo una commessa esperta.

    - E lei lo era?

    - Sì, molto! Era laureata in lettere, in attesa di occupazione. Colta, solare, efficiente, competente. Per me è stata una perdita grave per la sua professionalità e le sue capacità.

    - Mi racconti quello che sa! Non tema di dirmi cose inutili - ordinò Malarazza.

    Il commissario pensava che il conte potesse essere molto utile all’indagine, quindi, era partito alla larga.

    - Commissario, Rita era una ragazza perbene. Studiosa. Avevo per lei una stima profondissima. Non le so dire cosa è accaduto. Temo si tratti di una dolorosa fatalità - affermò abbassando gli occhi e il capo.

    - Sì, vorrei, però, che lei mi raccontasse di Rita, di quello che faceva, soprattutto negli ultimi tempi. Se c’è qualcosa che ha attirato la sua attenzione... qualcosa di strano.

    - No, commissario, niente di particolare.

    - Com’erano i rapporti con le sue colleghe?

    - Ottimi, era una ragazza, le ripeto, eccezionale.

    Malarazza si sentì stanco, avrebbe voluto passare all’attacco, ma si trattenne. La glicemia era ai minimi consentiti e il suo era un organismo provato.

    - Grazie, conte D’Alessio. Può andare.

    Il conte si alzò in piedi di scatto. Si salutarono.

    - Martoni! - gridò il commissario.

    - Eccomi, signor commissario.

    - Martoni, chiama Maturo e digli di interrogare gli altri. Io me ne vado a casa, sono ancora a digiuno.

    - Va bene, commissario.

    Malarazza uscì dalla questura e cominciò a ingozzarsi di domande, in attesa di altro.

    Perché uccidere una ragazza perfetta, competente, lavoratrice, tanto caritatevole da prendersi cura personalmente di un barbone? Perché è andata nella libreria di prima mattina alle sei? L’hanno minacciata? Ci è andata spontaneamente? L’hanno costretta? Perché poi, quello sfacelo in libreria? Se ci avessero scorrazzato all’interno con una jeep con il para vacche avrebbero fatto meno danno. Perché sfregiarla? Perché marchiarla a fuoco con una figura a forma di elefante? Pensò di chiamare Vera, ma non lo fece. Scese in strada e chiamò un taxi. Una vibrazione d’allarme lo colpì appena salito sull’autovettura. Si sentì male. Aveva dimenticato di dire a Maturo di non accennare al marchio dell’elefantino durante gli interrogatori. Quanto avrebbe pagato questo errore? Cercò in tutte le tasche il telefonino e alla fine lo trovò all’interno del taschino della giacca. Non era mai riuscito ad abituarsi a metterlo allo stesso posto in diciotto anni di torturato e obbligato possesso.

    - Pronto, sono Giò. Maturo, senti, non dire a nessuno che la ragazza uccisa è stata marchiata con un elefantino.

    - Agli ordini. Non lo saprà nessuno... grazie per avermi lasciato un po’ di lavoro - disse vivace e compiaciuto come un pavone quando sventaglia la variopinta coda.

    - Ci conto.

    - Agli ordini, capo.

    Non si tranquillizzò. Immaginava già i titoli dei giornali della sera: Uccisa e marchiata a fuoco commessa di una libreria, Assassino marchia a fuoco la vittima dopo averla sfregiata, Marchiata a fuoco con un elefantino commessa trovata morta in una libreria.

    Il tassista memorizzò l’indirizzo, inserì il tassametro e si dispose con l’animo tranquillo al trasporto. Dopo un po’ la sua attenzione fu attratta dal passeggero che, come sempre, pensava anche con il corpo. Malarazza, infatti, dopo un chilometro aveva cambiato sette posizioni, si era aperto e chiuso il soprabito quattro volte e aveva picchiato con il bastone sul sedile anteriore ventiquattro volte. Alla fine, quando guardando fuori si rese conto che stavano per raggiungere l’agenzia Vesuvio, rivolgendosi al guidatore, disse - Si fermi alla prima pasticceria che incontra.

    - Se permettete, capo, vi porto nella migliore pasticceria della zona. Allungheremo la corsa di cinquecento metri. Ma non ve ne pentirete. Farete una bellissima figura.

    - Va bene. Allunghiamoci.

    Malarazza comprò tre vassoi da dodici sfogliatelle e ne mangiò una a parte come assaggio. Ne regalò una al tassista, che lo ringrazio per tre minuti di fila con il distacco deferente di chi ha capito di trasportare uno strano individuo.

    Quando il commissario entrò negli uffici dell’agenzia investigativa Vesuvio trovò gli investigatori intenti a riordinare. Sul pavimento giacevano fogli di vario colore, computer e stampanti erano ammucchiati sulle sedie, le confezioni di toner esaurite e nuove erano ammassate alla rinfusa sul davanzale delle finestre, le scrivanie erano ricolme di pratiche, foto, foderine, penne, matite, gli schedari erano rovesciati e il contenuto calpestato e sparpagliato.

    Malarazza ebbe la sensazione del dejà vu. In piccolo sembrava una riedizione dello sfacelo trovato in via dei Mille.

    - Commissario - disse Tommaso lasciando il da fare e andandogli incontro.

    - Furto con scasso?

    - No, marito fedifrago di moglie ricca - rispose Leone.

    - Quando è venuto a ringraziarvi?

    - Stamattina.

    - Ha ecceduto nei particolari - disse ironicamente Malarazza guardandosi intorno.

    - L’adulterino si è trovato povero da un momento all’altro e ci ha voluto rendere partecipi del suo dolore - ironizzò Vera.

    - Un po’ di posto per questi vassoi? - chiese Malarazza.

    - Per le sfogliatelle c’è sempre posto. Me ne occupo io - disse premuroso Rocco.

    - Stiamo riordinando gli uffici da tre ore e ancora non abbiamo finito - commentò sconsolato Tommaso.

    - Ero venuto per parlarvi di una nuova indagine, ma mi rendo conto che adesso non è il caso - disse scansando con i piedi le scartoffie sul pavimento.

    - No, faremo solo un break per le sfogliatelle. Poi riprendiamo il lavoro. Entro stasera dobbiamo rimettere tutto in ordine. Ci sono cinque anni d’indagini in questi computer e in questi archivi - disse avvilito Tommaso.

    Mangiarono tutti in piedi. Malarazza si avvicinò alla finestra, controllò il tempo, prese l’altro vassoio e si avviò per le scale accompagnato da Tommaso e Leone, mentre Rocco e Vera ripresero le attività.

    - Ci vedremo domani, alle dieci, da me. Venite tutti - disse voltandosi verso gli accompagnatori.

    - Solo per sapere... di che delitto si tratta - chiese Leone.

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