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La Nostalgia della Salute
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Ebook343 pages5 hours

La Nostalgia della Salute

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About this ebook

Incentrato sulle vicende bizzarre del giovane protagonista Polo Granso, il libro si presenta come romanzo di formazione, avventura psicanalitica, favola filosofica. Attraverso toni cangianti dal picaresco al satirico, dal tragico al poetico, l’ammissione di un problema di salute mentale diventa la ricerca di una possibile cura attraverso la scrittura. Una mobilissima visione del mondo di un disadattato animato da una cronica attrazione/repulsione per il suo isolato borgo natale.
LanguageItaliano
PublisherPolo Granso
Release dateDec 9, 2016
ISBN9788822875495
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    La Nostalgia della Salute - Polo Granso

    Sull'Autore

    Copyright Nicola Doria 2016

    Opera tutelata dal plagio su www.patamu.com con numero deposito 48673. Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta, memorizzata in un sistema di ripristino o trasmessa, in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, mediante fotocopie, registrazioni o altro, senza la preventiva autorizzazione del proprietario del copyright, tranne nel caso di brevi citazioni nell’ambito di recensioni o articoli critici.

    Esclusione di responsabilità

    I pensieri e le opinioni espresse in questo libro sono di Polo Granso e di nessun altro. Dal momento che lui e tutti gli altri personaggi sono frutto della fantasia, così come tutti i luoghi e le situazioni che vengono nominati, l’autore declina qualsiasi responsabilità verso terzi per eventuali errori, danni o disagi causati dalla lettura del testo.

    1

    Prefazione dell’autore a chi legge

    Immagina un uomo, un Bepi qualunque.

    Improvvisamente si desta dal torpore, percorre con gli occhi lo spazio intorno, ne prende coscienza. Ancora, immagina che questo Bepi non riconosca più nemmeno una delle cose che percepisce e se ne chieda dubitante quale sia la loro identità, il motivo di esistere lì, in quel momento. E la relazione che le cose intrattengono con se stesso. Immagina, infine, che tra le cose che non si lasciano riconoscere ci sia pure lui, Bepi stesso. Un intruso che senza diritto ha usurpato il posto di qualcun altro e che ora fa pesare la propria assenza. Chi mai sarà quell’intruso diventa il problema fondamentale della sua esistenza, la cui soluzione potrebbe svelare, a sua volta, l’universo ignoto di cose e persone che lo circondano.

    Uno scenario simile ti sarà forse estraneo. Confesso però che per me è stato a lungo più che un’ossessione. L’ho immaginato talmente tante volte che ho deciso di servirmene applicandolo con curiosità al carattere che per nascita ho ricevuto. Quante volte ancora mi chiedo che vita sarebbe la mia se fossi anch’io come Bepi, a tal punto smemorato di me stesso? Potrebbero mai svanire nell’aria i solidi dolori, le pesanti frustrazioni? E se si cominciasse dal principio una vita che al principio non è?

    Non ti nego che avrei preferito perderlo, questo ingombrante me stesso, cresciuto strato su strato nelle stabili fondamenta della memoria. E invece non ho mai smesso di ricordare, o forse non mi è stato altrimenti possibile. Soltanto il dubbio, l’inibitore dell’azione, mi accomunava a quell’uomo senza memoria. Entrambi, infatti, dubitavamo di noi stessi. Allo stesso modo il senso comune non aveva alcun dubbio su di noi. E come il povero Bepi, nemmeno io trovavo accordo con le cose più familiari del mondo. Non mi riconoscevo nelle mie contraddizioni, vivevo la crisi in ogni cosa.

    Il primo passo è stato ammettere di avere un problema. Ho cercato di estirpare questa malerba alla radice chiedendo aiuto a chi era in condizioni di darmelo, per poi scoprire mio malgrado che a nessuno interessava il mio recupero. Ho cominciato allora a sentirmi messo da parte, azzerato e scaduto nel fondo indistinto della società.

    Il problema dunque persisteva e bisognava fare qualcosa per quella mia condizione tanto straordinaria.

    Era evidente che tutti gli altri erano sani. Ma di certo io non assomigliavo a tutti gli altri. Logico, avrei potuto dire anch’io di essere un uomo idoneo al lavoro fisico, o di avere reazioni al caldo e al freddo, agli odori e ai sapori, in nulla contrarie alla norma comune. Anch’io mi ammalavo e stavo bene, soffrivo e poi gioivo. I miei sentimenti erano quelli che si agitavano nei petti di qualsiasi altro essere umano. Ma in me, era inutile negarlo, c’è sempre stato un qualchecosa in più, anche se gli altri non parevano avere nulla di meno. Era come se ci fosse stata una strana eccedenza, che mi ha fatto pensare di soffrire di un qualche malessere. Un bel giorno ho deciso di darle il nome di malattia e, con mia grande sorpresa, la cosa mia ha da subito giovato molto.

    Nel fare ciò circoscrivevo e isolavo il mio malessere. Potevo definire i confini del singolo termine, catalogare le sue manifestazioni negative. Possibilmente, gestire la sua pericolosità. Anzi, per non incorrere in qualche errore procedurale mi sono pure consultato con il mio medico di fiducia. (Nonostante nella medicina io abbia, ormai da molto tempo, perso ogni fiducia).

    Da specialista mi ha risposto serenamente che ero un caso grave, oggettivamente grave, ma che per una possibile cura la sua scienza ancora non arrivava a tanto. Se fosse intervenuto sarebbe finito, a detta sua, per aggiungere malanni a quelli già presenti. Molto meglio era, perciò, cercare di trovare da soli la cura ai propri mali. E così, non avendo altra scelta né dagli uomini né dalle loro istituzioni, ho agito per mio conto e senza intromissioni.

    Ho cominciato allora a immaginare di essere un paziente e, allo stesso tempo, ho ipotizzato di essere un dottore. Ho scelto il metodo estraendolo dal catalogo dei paradigmi. Ho deciso di ricostruire il fantasma della mia malattia seguendo un approccio analitico, avaro

    di ogni tipo di casualità o vizio di forma. Ho schedato ogni dato sensibile secondo parametri oggettivi, così che fossero più aderenti all’oggetto d’analisi e più chiari in fase d’esposizione. Infine, forte del mio impianto ideologico, ho affrontato con coraggio il disastrato quadro clinico del soggetto a me tanto famigliare.

    Sebbene non fosse lecito parlare di grave patologia, i dati ricavati dall’analisi dei sintomi non consentivano certo di considerare sano il mio onesto profilo.

    I sintomi che avevo preso in esame erano di varia natura. Si andava dalla presenza di una profonda avversione nei confronti dello stato di cose, conseguente in condotte antisociali e disturbi affettivi, fino ad arrivare all’estremo di una certa attitudine ribelle, in perenne contrasto con il prossimo di cui mi importava poco o niente. A questo si legava anche una scoraggiante indecisione. Essa m’inibiva nel momento in cui ero chiamato a un ruolo sociale, cosa che peraltro mi condannava alla marginalità improduttiva. Ma tutti questi sintomi trovavano un comune sfogo nella più grave delle disgrazie che a un uomo possa mai capitare nell’arco della sua breve vita terrena. Il Pensiero.

    Non è un caso che questa nostra società, giustificato ogni suo mezzo, cerchi di porre limiti a questa piaga millenaria. E’ ormai assodato quanto gli uomini abbiano bisogno di un’autorità che li guidi, indicando loro quali siano i limiti e i ruoli possibili. Essi semplicemente si adattano alle cose e sono contenti di farlo. E anche l’improduttivo e inefficiente trova presto il suo ruolo all’interno di tale sistema.

    Diversamente si può dire per chi, come me, pensa. Non credo di affermare il falso dicendo che moltissimi fra noi sono dei disadattati. Siamo perplessi di fronte a ogni nostra scelta. L’ansia ci impedisce di prendere posizione o di realizzare noi stessi con un semplice progetto di vita. Di conseguenza, ci escludiamo ponendoci ai margini. Non andiamo oltre le nostre intenzioni e rimaniamo ad ammirare impotenti le vite degli altri.

    Devo dire che il pensiero non mi ha mai lasciato solo, anche quando mi accingevo a scrivere e riscrivere queste sincere carte mi ha fatto un’ambigua compagnia. Si sedeva sulla sedia accanto e assieme a me

    si alzava, girava per la stanza vuota con la speranza di grattarsi via dalla testa il prurito di una qualche opinione e finiva poi per scattar sui talloni e prender posto laddove prima l’aveva lasciato. Non la smetteva mai di tormentarsi sulla seggiola che scricchiolava e innervosiva pure me. Così, non potendone proprio più, ho pensato di inchiodarlo sul foglio, con la mia penna. Speravo in questo modo che si acquietasse un poco.

    Scrivendo, mi sono detto, imparerò a guarire da un simile strazio. Ed è per questa ragione che, tra i tanti trattamenti possibili, ho concepito una terapia letteraria.

    Ti invito dunque a considerare questa lettura come il prezzo che alla malattia ho dovuto pagare. Farai conoscenza, pagina dopo pagina, del mio malessere personale nonché umano. I dubbi, le illusioni intervallate a momenti di lucidità, i pensieri meno opportuni, tutti ti verranno riferiti con estrema sincerità. Ogni cosa, persino ciò che farebbe indignare qualsiasi persona sana, troverà spazio in questo mio manuale.

    A tratti, forse, ti sembrerà che l’autore sia più folle del suo discorso. Qui non lo nego, qui non voglio giustificarlo. Ma, d’altronde, io non vedrò mai in che mani finiranno i miei pensieri, e nemmeno conosco la lingua che li leggerà. Per questo ti chiedo di aver fiducia nella lettura, nient’altro. Perché fiducia altro non è che l’atto di consegnare a te tutto me stesso.

    2

    Nacqui il secolo scorso – non son passati che pochi anni d’allora. Mi chiamarono Polo Granso, forse per vezzo materno o forse perché c’era la moda del nome, e tra i miei compaesani ho fama di essere nato e cresciuto a casa mia.

    Il luogo che mi diede i natali è d’un’importanza tale che non può essere tralasciata. Non poteva certo essere un altro luogo, dal momento che un altro come quello non ce n’era. Siamo ormai abituati, in questo nostro secolo, a credere che il mondo sia una superficie uguale in ogni suo punto, che se una farfalla batte le ali all’equatore un soffio leggero raggiunge anche i poli. Invece, ancora pochi ma distanti anni fa, il mondo non si conosceva nelle sue vastità e ognuno viveva come isolato dagli altri.

    A quel tempo Palodia, così si chiama il mio paese, era ciò di più isolato potesse offrire la geografia umana. Era addirittura una sorta di provocazione per la comunità degli scienziati, i quali rimanevano straniati di fronte al suo profondo enigma. Nessuno sapeva con certezza la ragione per cui una piccolissima parte di globo, che nel corso di milioni d’anni non si era mai solidificata completamente, si andasse impantanando sempre più.

    E ancora, come poteva essere che, tra i vari movimenti che le placche continentali avviarono nei vari angoli del mondo, questo piccolo appezzamento di terre fosse riuscito a evitare qualsiasi collisione con altre sue consimili? Una risposta chiara non venne mai data, ma ci si limitò a registrarne le derivanti conseguenze. A cominciare dalle anomale barriere naturali, il mare la laguna e tutto il resto, che da sempre negarono ogni possibile invasione da parte di corpi estranei. Principalmente mammiferi e marsupiali.

    Se ti ho confuso con questi pochi riferimenti è perché desidero trasmettere anche a te l’eccezionalità di quel luogo. Non è, quindi, inutile descrivere quale fosse il contesto che dovetti affrontare alla mia nascita. Notevoli, infatti, saranno le ripercussioni sulla mia mente di bambino innocente.

    Tornando però a Palodia, avrai già capito che si tratta di un luogo in aperta contraddizione col resto delle terre emerse. Il punto nel quale la loro continuità viene a cessare. In un microcosmo tanto isolato e abitato solamente da pesci, molluschi e zanzare, la presenza dell’uomo non viene certificata che in tempi relativamente recenti e in circostanze che ancora ci sfuggono. Secoli fa, non meglio precisati fenomeni di magnetismo fecero sbattere le prue dei primi coloni sulle sue sponde basse e sabbiose, costringendoli a scendere e a calcare per la prima volta quella terra vergine e misteriosa. Fu quello l’inizio del primo, vero, insediamento umano a Palodia.

    La mia famiglia, addirittura, vantava di avere tra i suoi avi quei primi coloni venuti dal mare. Al mare, poi, c’erano arrivati da una mitica terra di nome Frislandia, posta su latitudini estreme ed assai inclementi. Questi migranti, grazie al tiepido soffio della Tramontana, riuscirono nell’impresa di fare quello che mammiferi e marsupiali nemmeno concepirono. Arrivarono, videro e si stanziarono.

    La terra dalla quale in fretta e furia fuggivano, la loro terraferma, non era conosciuta da nessun marinaio né inserita in alcuna mappa. Ma di sicuro se ne stava ferma immobile dov’era, fissa nella sua placca di contente – e non come questa mia terra ambulante, che aveva trotterellato per il globo fino a scavallarlo, da nord a sud, passando per la cintura dell’equatore e le pantofole del Polo, e poi da sud a nord per il retro della suddetta cintura e il colbacco dell’estremità artica…

    Queste genti straniere furono mosse dalle condizioni pessime della loro prima patria. Al loro arrivo a Palodia, comunque, non trovarono per niente un ambiente migliore di quello lasciato. Null’altro che una palude deserta, come in parte lo è tuttora, e l’impossibilità di riprendere il mare per via dei venti contrari. Così, quella che si profilò fu l’unica dimensione possibile per l’uomo dalla terraferma. Una specie di segregazione, più imposta che voluta.

    In questo modo si avviò un processo lungo e difficile, nel quale alcune caratteristiche innovative vennero a svilupparsi negli indigeni in totale divergenza dalle sane abitudini degli altri terrestri.

    Negli anni si è pure cercato di registrarle e catalogarle, tali caratteristiche. Persino quando i mezzi a disposizione erano scarsi e i risultati inaffidabili. Sarebbe troppo lungo, ora, raccontare la serie di tentativi falliti, le audaci congetture in materia, gli esperimenti ai confini dell’inverosimile. Fatto sta che la psiche dei palotti – così vengono chiamati i miei compaesani – venne arbitrariamente schedata. Si disse fosse un caso estremo di comportamenti errati e abitudini sconclusionate che seguivano logiche del tutto estranee all’umana corrente. Un pericolo biologico, insomma, che per il bene di tutti meritava un isolamento chirurgico dal resto del mondo.

    Rimaneva, però, il problema di come chiamare tale problema. Su questo punto le varie comunità scientifiche si divisero. C’era bisogno di classificare con un termine preciso, lessicalmente curato, una tale stravaganza. Così che, tra le migliaia di vocaboli che una lingua e un babbuino possono offrire al nostro orecchio, la scelta infine cadde sulla locuzione ‘idiozia degli isolani’. Termine astuto, ritenuto di gran lunga il più conveniente. Soprattutto da chi tale malessere doveva poi evitare.

    Ma noi, cittadini di Palodia, che a causa della segregazione non potevamo di certo farne a meno, evitammo invece la parola che la definiva. Nessuno proveniente dall’esterno avrebbe potuto capire la complessità del fenomeno. Al contrario, nella nostra comunità fatta di gente semplice e generosa, un giorno ci si accordò tutti assieme per un suono come un altro. Poi l’uso la rese famigliare a tutti quanto l’idea che ne stava alla base. Un suono semplice, diretto. Mona. E da allora in paese le nostre orecchie non sentirono altro che mona.

    Mona all’amico, mona allo straniero, mona a tuo fratello come a tua sorella. Mona tua madre. Con essa si comunicavano stati d’animo, si esprimevano bisogni urgenti o giudizi impellenti. Oppure, più semplicemente, si espelleva aria in esubero. E ancora oggi i bambinelli palotti, che come tutti gli altri sono bravi e buoni fin quando non imparano a usare le parole, sogliono dire mona prima ancora di mamma e papà. E come tale hanno appreso, tale insegneranno alle nuove generazioni.

    Non biasimarli per questo. Quella che a te potrebbe sembrare una gabbia di matti e che così per molto tempo è stata descritta, per altri rappresentò uno stimolo creativo eccezionale. Furono in molti, infatti, i visitatori curiosi che forzarono l’isolamento di quest’isola in cerca di briciole d’umanità popolana. Basta citarne il più illustre e caro alla memoria dei miei concittadini. Il veneziano Carlo Goldoni.

    Negli anni dell’adolescenza venne a soggiornare proprio qui, nella mia Palodia, dove già risiedeva la madre sua devota. E gli fu difficile rimanere indifferente a questa terra umida e chiassosa, animata da strani comportamenti umani che l’isolamento ispirava ai nativi. Furono anni difficili e malinconici, ma quella terra d’insana bellezza lo ricompensò fornendogli materiale per la sua fantasia, versi per le sue commedie e personaggi d’un’immensa poesia. Le clamorose Baruffe furono l’omaggio che Goldoni volle fare a questo popolo, rendendolo famoso addirittura tra gl’illuminati pensatori europei.

    Tuttavia, pensare che quei tempi andati siano lontani è un errore. Tra la popolazione rimangono ancora dei barlumi di grande attorialità. Basta farsi un giro per le calli e le rive del borgo isolano e si potranno ammirare spettacoli di gran mestiere montati all’occasione. I visitatori forestieri difficilmente rimangono indifferenti di fronte a queste recite, e mancando della parola mona non sanno come definire queste manifestazioni dello spirito. Non trovano altro termine che stupido, villano o troglodita. Ma poi, quando la parola sale alla bocca, la inghiottono e quasi ci si soffocano!

    Ritornando, però, malconcio da tutte queste digressioni, è giunto il tempo di passare ad argomenti di più alto interesse e che riguardano più da vicino la mia persona. Ciò che mi preme più di tutto in questo momento è che tu abbia inteso su quale terreno pantanoso e su quali pali di rovere conficcati in esso poggia l’edificio del mio discorso, ora che, come in una palafitta, intraprenderò la costruzione instabile e pericolante della mia vita.

    3

    Alcuni credono che il concepimento sia il momento fondamentale per iniziare a essere. Altri, invece, che sia la nascita a segnare il primo minuto delle nostre lancette. Quello che però avviene durante questi due termini rimane per tutti di difficile interpretazione. Succede pressoché ogni cosa in esso. E tuttavia, al momento attuale, non ci è dato calcolare nessuna evidenza dell’essere né del suo contrario.

    Dapprima esistiamo soltanto come idea nella mente di una coppia animata alla procreazione. Una volta concepiti il nostro materiale organico non cambierà poi di molto. Anzi, si avvierà sempre più verso la perfezione di un organismo bell’e fatto, con un potenziale biologico in linea con gli obiettivi di riproduzione. E’ una tappa essenziale, sicuramente lo è. Ma non sufficiente a farla corrispondere al nostro vero inizio, che invece avverrà più tardi. Lentamente, e per una strana casualità.

    Capita, infatti, che grazie a centinaia d’anni d’evoluzione il nostro cervello, molto simile a quello dei primati, raggiunga proporzioni tali da subire una mutazione improvvisa. Quel che accade non si sa chi o che cosa l’abbia voluto. Forse che sia stato un progetto, poi decaduto, che non ha dato i risultati sperati. Nessuno lo può dire. Fatto sta che da quel punto in avanti l’uomo, in piena coscienza di sé, diventa uomo. Nasce una sostanza immateriale, la nostra mente, che rimarrà un tale ingombro per il resto dei giorni a venire.

    Mi viene da sorridere se ci penso. Come ha fatto questa nostra specie, limitata dalle sue maggiorate caratteristiche cerebrali, a sopravvivere ad ogni latitudine del globo? M’imbarazza pensare a quando, ancora piccoli e buoni, noi uomini non sappiamo fare davvero nulla, nemmeno raggiungere la mammella di nostra madre. Esempi del genere sono rari nel mondo animale. Ma proprio perché l’uomo è l’animale che più ricorda e che più fa tesoro dell’esperienza dei suoi simili, nel corso dei millenni non ha mai smesso di migliorare. O almeno così ci piace credere.

    Io sono un uomo che non ricorda nulla dei suoi primi anni. E non sono neanche l’unico. E’ un’età talmente lontana, come avvolta in una nuvola opaca. Se mi sforzassi, non so davvero se andrei oltre una manciata d’immagini sfocate. Giornate lunghe mesi e con un cielo sempre estivo. Dovrò perciò ricorrere alla memoria di mia madre, che custodisce ancora quei lontani ricordi del suo figliolo. Da lei li ho ricevuti, a te li voglio trasmettere. Forse saranno di qualche aiuto a questa indagine. E magari aggiungeranno motivi e ragioni a una mente che, come detto in precedenza, già nasce per volere del caso.

    ***

    L’anno in cui nacqui non lasciò niente e nessuno nell’indifferenza. Non per merito mio, che ancora dovevo metter piede nel mondo, ma per le acrobazie del clima di allora, che fece di quello l’annus horribilis della memoria cittadina.

    Pareva di essere tornati ai tempi della Frislandia. Il gelo si era diffuso come vapore per le regioni acquose e la brina aveva ricoperto per intero i prati, le tegole rosse degli alti tetti obliqui, le grossolane imbarcazioni di legno e pece nera, dagli svariati colori delle vele da trabaccolo, e pure gli onesti pescatori raggruppati in cima ad esse. Questi, nelle fredde mattine d’inverno, nonostante l’inclemenza del tempo al di fuori delle proprie casupole si alzavano all’alba per dedicarsi solleciti alle loro mansioni quotidiane, che andavano dalle riparazioni invernali al calafataggio delle carene. E nessuno di loro aveva voglia di dedicarsi a qualcos’altro, neanche a immaginarselo. Tanta era la penuria di attività possibili in quel piccolo paesuccio.

    Quell’anno, poi, ebbero veramente un gran daffare!

    Indaffarati e duri dal freddo, se ne andavano perciò a controllare gli ormeggi, gli scafi le vele, le scotte, le pagaie. Anche se non ce n’era bisogno. Tutto pur d’ingannare il freddo, che aveva raggiunto livelli così bassi di temperatura da congelare la maggior parte dell’acqua in superficie, non del tutto salata né completamente dolce, quindi più soggetta a tali fenomeni. Davanti ai loro occhi impietriti ormai avvezzi a ogni genere di stranezza naturale, si profilava dunque una lunga distesa di ghiaccio compatto che una persona a piedi era in grado di attraversare senza problemi e per una grande estensione.

    In ragione di ciò, accadde che tutte le isole e le terre meno lontane s’unirono tra loro naturalmente, mentre prima erano divise dal pregiudizio della distanza e dell’isolamento coatto. Quella brusca vicinanza, però, fu come imposta e non smise mai di generare incomprensioni tra i nativi. Anzi, costrinse molte persone a serrarsi in casa e ad aspettare la fine della brutta stagione, pur di non incontrare per le strade del borgo la sagoma estranea dell’odiato vicino, sempre in umore di villane scorrerie e ritenuto il guastatore di una pace coltivata e poi raggiunta a fatica.

    Ma tutto era nelle mani di quel clima pazzerello, che ne fece un’altra delle sue proprio il giorno in cui decisi di fare il mio ingresso nel mondo.

    Sino ad allora, infatti, aveva regnato una pace serena, una fredda immobilità dove persino i colori si smarrivano. Poi, improvvisamente, l’atmosfera venne stravolta. Senza avvisaglie si scatenò una tempesta a dir poco primordiale. Quel giorno la pioggia veniva giù che qualcuno da lassù la tirava a secchi. I fulmini, le saette e la furia degli elementi tutti vennero a raccolta dai quattro angoli del globo, ognuno desideroso di assistere e rallegrare quell’evento tanto decisivo per me, per l’anagrafe comunale e per il pubblico erario.

    Fu in questo agitato contesto ambientale che mia madre, la pianificatrice, decise di darmi l’occasione di uscire a vedere il mondo. Leggermente provata dallo sforzo fisico e dall’oscura competenza dei medici che le stavano attorno, mia madre, la canterina, alzava al cielo la sua voce inneggiando ebbra di gioia per quel parto benedetto. Infine, avvenne che la mia testa lasciò per sempre il bagno turco dell’utero materno e si schiantò senza difese nella doccia fredda della temperatura esterna. Il cosiddetto trauma natale.

    Le prime immagini che mi arrivarono agli occhi e che mi fecero venire voglia di tornarmene indietro subito, furono niente meno che le manone grosse, nervose e arrossate dal freddo che mi trassero incerte dall’utero materno. Poi, un pubblico di persone sconosciute mi sorrise dal soffitto e mi fece capire dal principio che in fondo il mondo era tutto sottosopra. Un medico, infine, si permise pure di schiaffeggiarmi per farmelo comprendere meglio. Il mio corpo paffutello vibrò tutto come preso da una scossa. I polmoni si aprirono, iniziai a respirare e piansi.

    Da quel momento in poi il freddo d’intorno mi ricordò sempre di quel mio primo giorno al mondo. Ma a parte queste bagatelle che tutti noi abbiamo vissuto, lasciami raccontare ancora le strane circostanze natali che mia madre, la onnisciente, soleva raccontarmi.

    Mi disse, infatti, che nacqui in cima al grande palo di legno di casa mia, dove in quel tempo freddo e lontano si trovava il letto a due piazze di mia madre e consorte. L’assistenza medica, prima menzionata, era dovuta al fatto che i medici si trovavano già pronti a casa. Cosa che non deve destar sorpresa, visto che mia madre, la sempre previdente, pensò bene di invitarli coi loro strumenti a prendersi un caffè.

    Ho notato, parlando con forestieri, che a molti suona strano che ci sia un palo di legno nel bel mezzo di una casa. Se anche tu sei un lettore diffidente, sappi che questa non è una balla.

    E’ dimostrato quanto legni di tale foggia venissero adoperati anche nei tempi andati di mio nonno Ulisse, e forse già durante i primi insediamenti nelle zone limitrofe. Il termine insediamento, poi, non deve creare fraintendimenti. Questa parola fa pensare a gruppi di persone sbarcate da non si sa dove e venuti a prendere possesso di un pezzo di terra qualsiasi solamente impiantandovi sedie e sedendovisi. Invece, il tutto avvenne conficcando grossi pali di legno giù dentro il pantano, costruendoci sopra case, palazzi e campi di calcio a non finire fintanto che la necessità e lo spazio, quasi per miracolo, continuavano a permetterlo.

    Quindi il palo di casa mia era in regola con le vigenti norme edilizie. Mia madre, l’arredatrice, una volta spostato il letto suo e del suo consorte in un’altra stanza, fece di quel palo di rovere il centro della mia graziosa cameretta. La culla gli fu posta al di sopra e il contatto duro con quel pezzo di legno umido è ancora all’origine dei miei sogni e delle nebulose impressioni di quando fui bambino. Oltre che dei reumatismi di cui tutt’oggi soffro.

    Ma non credere che un grosso palo di legno sia buono solamente a sorreggere edifici o neonati in fasce. Altrettanto utili applicazioni in campo pratico vennero trovate nel corso degli anni. Ancora oggi, se ti capitasse mai di visitare i luoghi che ti sto dipingendo con le parole, i tuoi occhi vedrebbero centinaia di robuste colonne ceppate, a tre o più pali, affioranti di qualche metro sopra il vetro liscio della distesa d’acqua.

    Queste vennero disseminate qua e là a distanze variabili e con criterio, proprio per rispondere a determinati bisogni della cittadinanza. Come, ad esempio, creare momenti di svago per possessori di barche a motore o a più motori, per potersi divertire a scapito di chi passava e il motore non ce l’aveva. O accontentare la numerosa comunità di cormorani residenti con dei palchi su cui esibire la propria vanità. O ancora, fornire un valido sostegno alla venerabile statuetta della Madonnina del Mare. Il vero punto d’appoggio della devozione cittadina.

    Ora, una rapida delucidazione sulle forme e la qualità del culto in Palodia mi sembra necessaria, vista l’oscurità di un simile contesto. Mi basti dire che, prima della venuta degli uomini in questo continente, non vennero mai rinvenute tracce di culto tra pesci, molluschi e zanzare. Se ne ebbe però plausibile testimonianza almeno dai primi secoli di intensa colonizzazione nella regione, presente nelle forme e nei contenuti

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