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La tua ombra sta ridendo
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La tua ombra sta ridendo

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About this ebook

Uno spietato serial killer che si aggira per il quartiere Monteverde di Roma, uccidendo in modo cruento giovani ragazze apparentemente senza nessun nesso logico, un esperto commissario, sullo sfondo di una città mitica. Sono questi gli ingredienti del romanzo che vede quale protagonista Marco Nocilla, napoletano verace, dirigente della III sezione della Squadra Mobile di Roma, meglio conosciuta come la “Omicidi”. Lui e il suo assistente, l’agente scelto Mario Poletti, formano oramai una coppia affiatata, abituata a non mollare un’indagine finché non sia risolta. Questa volta, però, il caso sembra essere molto più intricato del solito. Seguendo gli enigmatici messaggi lasciati dall’omicida, in un crescendo di colpi di scena e svolte improvvise, il lettore si troverà di fronte a una soluzione inaspettata.
LanguageItaliano
Release dateDec 1, 2016
ISBN9788868511296
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    La tua ombra sta ridendo - Gianfranco Mascia

    Gianfranco Mascia

    La tua ombra sta ridendo

    Gianfranco Mascia

    Collana Eclypse 73

    Isbn 978 88 68511 142

    Prima edizione novembre 2016

    A Rino.

    A sua insaputa

    Nota per il lettore

    Questo romanzo ha tre chiavi di lettura. Quella più tradizionale che non si lascia distrarre dalle innovazioni tecnologiche e che vi spinge a leggere il libro dall'inizio alla fine in maniera analogica. Poi c'è un modo più innovativo, che vi porta ad approfondire alcuni termini, luoghi, canzoni, seguendo i link disseminati sulle pagine. Il progetto digitale che racchiude tutti i riferimenti ai link di questo libro è sul sito www.latuaombrastaridendo.it. Ai più multimediali chiedo di utilizzare e seguire l'hashtag #LaTuaOmbraStaRidendo. La terza modalità è una via di mezzo tra le prime due: leggete il libro tutto d'un fiato (spero) e poi, solo alla fine, ritornate ad approfondire leggendo i vari link.

    In ogni caso, buona lettura.

    1 – Tum, tum, tum

    25 luglio 2014

    Era distesa sul materasso nella sua stanza da letto. Faceva un caldo afoso in quella sera d’estate, ma lei non sudava. Riprese conoscenza, un lieve torpore si stava diffondendo nel corpo. Voleva muoversi, ma era impossibile.

    C’era qualcuno nella stanza? Tra la penombra e lo stordimento non riusciva a capire. Cosa era accaduto? La testa le scoppiava. Faceva fatica a mettere a fuoco i ricordi. Aveva le braccia e le gambe legate agli angoli del letto. Strattonò le braccia, ma il risultato fu solo quello di sentirsi ancora più sfiancata.

    Da quanto tempo era lì, così legata? Una, due ore? Dieci minuti? Anche la mente era intorpidita. Tanto intorpidita da non riuscire a seguire un filo coerente di pensieri. Una serie di immagini le passava nella testa, piccoli flashback. Era tutto reale o stava solo sognando? Era davvero ancora lì, sul letto?

    No adesso era a Bitonto, a casa di sua nonna, nel giardino accanto all’ulivo. Sdraiata con Pino, il suo amico del cuore. 13 anni ciascuno e parlavano del loro futuro. Le diceva che lei poteva scegliere quel che voleva, era bella e viveva nella capitale. Lui invece sapeva già cosa avrebbe fatto da grande: il contadino, come suo padre e come suo nonno. E le mostrava le sue mani già callose e ruvide. «Con queste posso fare solo il mestiere di famiglia.»

    «A me piacciono le tue mani, mi ispirano sicurezza», sorrise lei. Si sfioravano, si corteggiavano e poi ridevano a crepapelle, mangiavano le olive e si lanciavano i noccioli. Scherzavano senza pensare ad altro. Felici di stare bene insieme, volevano godersi quegli attimi. Fino in fondo.

    Aprì gli occhi. Aveva di nuovo perso conoscenza? Era sul quel letto, ma non riusciva a muoversi. Un’altra allucinazione? Cercò di ricordare cosa fosse successo e perché si trovasse in quella situazione. Quella sera stava rientrando a casa. Era appena scesa alla fermata dello 088 quando lo incontrò.

    «Che sorpresa! Non mi aspettavo di vederti», gli aveva detto lei. E cominciarono a parlare dei tempi andati. Non le era del tutto chiaro perché lui fosse capitato là, alle 11 di sera. Aveva biascicato una scusa, che ora non ricordava. Qualcosa che riguardava un hard disk da recuperare da un amico che abitava lì a fianco. Che ingenua era stata. Ma ora lo sapeva. Lui era lì apposta. Solo per lei. Voleva farsi invitare a casa sua. Ma perché? Perché gli era mancato il coraggio di dirglielo chiaramente? Era passato troppo tempo da quando lavoravano insieme. Se si fosse dichiarato allora, magari. Adesso non c’era più tempo. Allora lei sarebbe stata disponibile, lui sapeva di piacerle. Lei gli aveva lanciato dei segnali. Una donna sa come fare. Tutti questi pensieri si sovrapponevano nella sua mente intorpidita.

    Avrei dovuto sospettare qualcosa quando l’ho guardato negli occhi mentre brindavamo. Aveva uno sguardo che mi aveva impaurita. Ma ora devo liberarmi, pensò in uno sprazzo di lucidità.

    Si concentrò sul braccio destro. Era inutile provare con tutti gli arti. Meglio far convergere tutti gli sforzi su di uno. Chissà, forse sarebbe riuscita a liberarlo. Si sentiva soffocare. Lui le aveva messo uno straccio in bocca e lo aveva fissato con del nastro. Poteva respirare solo dal naso.

    «Mi spiace vedere come ti agiti, ma devo proseguire il mio piano.»

    Era lui o lo stava solo sognando? Ma che voleva fare? Proseguire cosa? E di quale piano parlava? Mentre concentrava i suoi sforzi, sentì un dolore acuto sulla gamba destra. Come una puntura d’insetto. Provò a guardare. Ma non riuscì a vedere niente. Tutti i rumori erano coperti dal suo cuore. Che cominciava a battere più forte, sempre più forte. E c’era quel dolore al petto, quasi volesse esplodere. Poi perse i sensi.

    Si risvegliò tutta sudata. Era più intontita di prima. L’aveva violentata? Non sapeva. Provò a concentrarsi sulla zona del pube, per capire se provasse dolore lì. Senza riuscirci. Si rese conto di non sapere niente di quello che stava accadendo. Era sempre più intorpidita, con un’unica certezza: che stava morendo. Perché nessuno sarebbe venuto a liberarla. Sapeva che non ne sarebbe uscita viva. La certezza era negli occhi di lui. Occhi di uno psicopatico, che delirava.

    «Me la pagherà», diceva mentre la legava e lei era semicosciente. «E allora sarò io a ridere.»

    Ma di chi parlava? E lei cosa c’entrava? Perché proprio lei?

    Il tempo si fermò nuovamente. Quanto aveva dormito? Adesso stava tremando dal freddo. Era completamente nuda. Ma non riusciva a sentire nessuna parte del corpo. Era come se stesse guardando dall’esterno. C’era lei, sdraiata sul letto. Lei e la sua voglia di vivere. Lei e la sua gioia per essere diventata autonoma. Una casa tutta sua. Quel letto, trovato tra le offerte di Ikea, insieme a Luisa, la sua amica del cuore, costretta a portarla alla Bufalotta. Quel letto che stava diventando la sua tomba. Era giovane con tanti sogni non ancora realizzati. Voleva prendere un’altra laurea. Ora avrebbe potuto farlo. Con la tranquillità economica.

    Un conato di vomito salì nella trachea, i succhi gastrici le riempirono la bocca e le arrivarono al naso impedendole di respirare. Non riusciva a tossire, con quel tampone in bocca. Stava soffocando e perse di nuovo i sensi.

    Ora si trovava al lavoro, da Brandy Melville, in via del Corso. Part time, una pacchia. Il lavoro non la entusiasmava, ma era giusto per i suoi progetti di studio. Un altro flash. Più indietro nel tempo.

    Adesso invece stava leggendo: Dott.ssa Di Nardo. Così c’era scritto nel biglietto da visita che suo padre, da buon pugliese, le aveva preparato e consegnato il giorno della sua laurea.

    «Ora papà sono a tutti gli effetti una disoccupata. Dottoressa Antonella Di Nardo, laureata in Scienze biologiche. Senza lavoro e senza soldi», disse lei scherzando.

    «Meglio una disoccupata laureata che una disoccupata senza titolo di studio», rispose lui, stappando quella bottiglia.

    Ora volava verso il mare. Planando verso una luce intensa che cambiava continuamente colore. E sentiva quei colpi. Tum, tum, tum. Sempre più intensi, mano a mano che si avvicinava a quella luce. Il letto vibrava come se fosse al centro di una scossa di terremoto. Ma era il suo corpo che tremava. Doveva aver riassorbito il vomito, perché aveva la gola secchissima. Ma c’era quel tampone che non la faceva respirare.

    Lui era lì vicino, pronto. E nei suoi pensieri, che oramai vagavano come frammenti appesi con un filo a una giostra che girava vorticosamente, ne mise a fuoco uno. Tra tutti quei pensieri confusi solo uno era chiaro. C’era scritto: uccidimi. Lei sapeva che c’era un’unica via di uscita da quella sofferenza. Perché non finiva il suo lavoro? Si stava vendicando di lei? Coraggio, fammi fuori subito, che aspetti?. In quel momento sperò che lui potesse leggerle il pensiero.

    La bocca era intorpidita come quando si va dal dentista. Sapeva che i denti c’erano, ma non riusciva a sentirli. Non riconosceva le gengive né il palato. Era come quando si esce dall’anestesia e si prova a schiacciare la parte interna della guancia per vedere come reagisce. Sentì ancora quella puntura sulla gamba destra. Prima di perdere di nuovo i sensi seguì il filo dell’unico frammento che l’avrebbe liberata. Sperava di trovare quella luce intensa che l’avrebbe portata dritta alla morte.

    Il delirio la trasportò ancora una volta indietro nel tempo. C’era una stanza illuminata. Due figure dentro. Era un ufficio che conosceva bene, lei da fuori scrutava l’interno mettendo le mani ai lati degli occhi, poggiati sul vetro a binocolo per guardare meglio. Il fiato appannava il vetro. Era così, sospesa nell’aria. E c'era lui, il suo aguzzino, che stava ridendo e scherzando con una ragazza. Lei faceva la smorfiosa, voleva conquistarlo. Si passava le mani sui capelli, lisciandoli in tutta la sua lunghezza e si faceva corteggiare. Lui ammiccava, ma tergiversava. Antonella avrebbe voluto avvertirla, dirle che quello che stava facendo era pericoloso. Batté ripetutamente sul vetro, per attirare l’attenzione. Ma niente, la ragazza continuava a parlare, a sorridere, a tentare di sedurlo. Chissà cosa trovava in lui. Certo era un ragazzo interessante. Pareva misterioso ed enigmatico con quell’atteggiamento sempre guardingo, quasi a voler nascondere un lato oscuro del suo carattere. Lei voleva dirglielo, spingerla ad allontanarsi. Per correre via. Spiegarle che lui poteva diventare il suo carnefice. Che non era l’uomo che lei pensava fosse. Provava a urlare ma la voce non usciva. Rimaneva soffocata dentro di lei. Poi improvvisamente la faccia della ragazza si gonfiò. Era tutta deformata, ma la riconobbe. Nella nebbia della sua mente riusciva a riconoscere quel viso. Era il suo. Stava guardando se stessa. E l’ufficio era quello del ministero. La loro redazione. Si sentiva impotente, ma doveva agire immediatamente. Nella sua mente offuscata era convinta che se fosse riuscita a farsi notare, se fosse riuscita ad avvertirsi in qualche modo. Che forse stava viaggiando nel tempo e quella era l’occasione per evitare quel tormento. Ma più batteva sul vetro e più si allontanava da quel posto. Poi precipitò. Sentì il suo corpo cadere e tutt’attorno comparivano immagini confuse e sovrapposte, che non riusciva a decifrare. E poi, quelle campane assordanti. Si mise le mani sulle orecchie e premette forte. Non poteva sopportare quel rumore. Ora era come se lei fosse il batacchio, che sbatteva a destra e sinistra. A sinistra e a destra.

    Si risvegliò con il cuore letteralmente in gola.

    Tum, tum, tum. Sentiva i battiti nelle guance, sulle tempie, nelle orecchie. Che saliva sempre più su. Adesso il cuore si era sostituito al cervello.

    Tum, tum, tum. Stava impazzendo dal dolore. Tutte le sue giunture scricchiolavano ed era come se il suo corpo volesse esplodere. Il tempo pareva essersi fermato e passava lentissimamente. La stanza non era più la sua stanza. Le pareti si erano dilatate e il soffitto si alzava e si abbassava.

    Tum, tum, tum. Il cuore le faceva male. Batteva troppo forte e troppo velocemente. Sempre più velocemente. Lei voleva solo che si fermasse. Sapeva che non ce l’avrebbe fatta a sopportare quel ritmo a lungo. Nei timpani oramai il ticchettio senza sosta copriva qualsiasi altro suono. Lui era ancora lì? Sì, lei lo sapeva. Non lo vedeva, ma sapeva che era lì. Stava guardando la sua agonia. Si stava godendo la sua vendetta. Ora, per un attimo, la sua mente era cosciente. Capì che erano i suoi ultimi pensieri. Capì che stava morendo. Proprio ora, proprio lì.

    Il suo cuore avrebbe ceduto. Non avrebbe preso la seconda laurea. Il suo corpo sussultò una prima volta. Suo padre non avrebbe stappato un’altra bottiglia di brut Rocca dei Forti. La sua bocca emise un gemito, strozzato dal tampone. Niente più casa della nonna a Bitonto. Il suo corpo raccolse tutte le sue forze per l’ultimo spasmo. E Luisa non l’avrebbe più accompagnata a Ikea, per vedere le ultime occasioni. Stop. Tutto finito.

    Brutto stronzo. No, non avrebbe dovuto proprio farlo entrare in casa.

    2 – Color pervinca

    Lunedì 15 settembre 2014

    Mentre le macchine sfrecciavano, lui iniziò la faticosissima salita di viale Silvestri. Nel tratto in cui si inerpica verso il capolinea dell’8.

    Luigi Ferrari era fatto così: in bicicletta ovunque e con qualunque clima. Anche quando si era trasferito nella capitale, dalla sua Romagna solatia, si era portato dietro il ferro. Una bicicletta ricavata dal telaio Bianchi, ereditato da suo nonno. Mantenne il suo colore originale: pervinca metallizzato. Un telaio misura 59, pulito e rinfrescato, adatto ai suoi 189 cm di altezza. Gli mise su due ruote nuove e un cambio Shimano a 18 rapporti, dei quali, nella pianura ravennate ne usava sì e no 4. Mentre lì, sui colli romani, ne utilizzava almeno 10.

    In quel momento, per esempio, stava trascinando 90 kg di massa corporale su per quella salita con un efficace 53/39, che gli permetteva di affrontare l’ascesa senza eccessivo affaticamento.

    Erano passati sette anni dal trasferimento. I sette anni più lunghi della mia vita, pensò mentre pedalava.

    Ecco uno dei vantaggi di andare in bicicletta. Ti permette di riflettere e di ricordare. Alla giusta velocità. Mentre quando sei in automobile i ricordi sfrecciano veloci, tra un semaforo e l’altro, impedendoti di approfondire soffermandoti sui particolari. È come se la tua mente si adeguasse al mezzo. Col mezzo veloce sono piccoli flash che molto spesso non riesci a collegare in una forma compiuta. In bici invece lui riusciva a fare con il pensiero ciò che normalmente era riservato agli occhi: guardare il paesaggio scorrere e notare ogni sfumatura. Così la sua mente rifletteva e ricordava, cogliendo ogni dettaglio dei suoi ricordi.

    Era arrivato quasi in cima alla salita, il tram gli roteò davanti facendo il giro del capolinea per terminare il tratto tra l’ultima fermata della corsa e la prima di quella successiva.

    Luigi era un ragazzo sveglio e capace. Nel 2004 aveva vinto, a soli 24 anni, l’ultimo concorso a cattedra di Storia Italiana, conquistando l’abilitazione per insegnare Lettere e Storia nella scuola secondaria. La cattedra era per l’istituto magistrale di Ravenna. Stava bene lì, nella città dove era nato. Viveva ancora con sua madre. E il ritmo della vita era sincronizzato con quello del suo mezzo preferito: la bicicletta. Per la verità, era il mezzo preferito dalla maggior parte dei suoi concittadini. Ravenna, secondo le speciali classifiche di Legambiente, era la città con il maggior numero di biciclette pro capite d’Italia: una per ciascun abitante, compresi neonati e anziani. Era riuscita così a stracciare la storica rivale Ferrara.

    Luigi la sua Volkswagen Passat Variant, una station wagon rossa fiammante, la usava pochissimo, solo in caso di estrema necessità. L’aveva comprata di seconda mano da un amico. L’auto era rigorosamente a metano e, adesso che era a Roma, rimaneva praticamente sempre in garage.

    Mentre continuava a pedalare, la sua mente ricordò il momento in cui, nel lontano 2007, il ministro in persona lo chiamò per offrirgli un posto di responsabilità. Si era trasferito da una capitale all’altra, dall’antica capitale dell’impero romano di occidente a Roma a causa di quella telefonata: «Abbiamo bisogno di te, qui al ministero di via Cristoforo Colombo.»

    La voce era quella del titolare del dicastero dell’Ambiente, un ambientalista DOC. Tra i fondatori del partito ecologista. A differenza degli altri dirigenti della sua compagine, aveva una fissazione particolare per i diritti. «Degli uomini e degli animali», diceva sempre. In particolar modo per lui i diritti civili dovevano essere garantiti prima di qualsiasi altra conquista ambientale. Forse era per questo che il presidente del Consiglio aveva scelto proprio lui, tra tutti i candidati che gli ecologisti gli avevano proposto per il ruolo di ministro. E il politico, che aveva conosciuto frequentando le lezioni dell'Università Popolare di Romagna, aveva deciso di prenderlo in squadra con sé.

    Luigi rispose alla chiamata a Roma da parte del ministro chiedendo tempo per riflettere. Poiché sapeva bene che il trasferimento nella capitale avrebbe scombussolato completamente i suoi ritmi di vita. E non sapeva se era quello che voleva.

    «Hai 27 anni e ci sono treni che passano solo una volta nella vita», gli disse il ministro. «Hai due giorni per decidere.»

    Allora pensò che se non avesse accettato il suo cuore sarebbe potuto diventare secco e fragile come uno scheletro e che, probabilmente, lo avrebbe rimpianto. E che, comunque, avrebbe avuto sempre modo di tornare indietro. La capitale lo attraeva: mica male stare al centro dell’impero!

    I pensieri di Luigi furono interrotti dal clacson di un’auto dietro di lui che doveva girare al semaforo. L’automobilista tentò di superarlo sulla sinistra, si fermò e abbassando il finestrino gli urlò: «Ahò, i colori so’ finiti, c’erano er rosso, er giallo e er verde. Er verde nun te piace? Voi aspettà er giallo? Ma st’attento che dopo ariva ancora er rosso, eh?!» Luigi si girò, e lo guardò. Era un tipo buffo, magari anche simpatico, ma buffo. Con una sciarpa rossa al collo e un berretto calato sulla fronte.

    Mai fidarsi di chi guida con un copricapo, pensò.

    Vicino al semaforo c’era la solita ragazza che, in compagnia di un bellissimo pastore tedesco, girava con la ciotola vuota per raccogliere qualche spiccio. La conosceva da quella volta che si era fermato per fare due chiacchiere con lei. La salutò e le diede qualche moneta, poi si sistemò lo zainetto che aveva in spalla, con tutto l’occorrente per la sua corsettina del lunedì. Spinse con forza sul pedale destro, sollevò il piede sinistro dall’asfalto e si allontanò di scatto dall’incrocio con via Leone XIII. Superò la prima entrata di Villa Pamphili e si immise in controsenso in via Vitellia tendendosi sulla destra, mentre le macchine sfrecciavano di fronte e gli suonavano il clacson per chiedergli di scansarsi. Si domandava che fine avesse fatto la proposta del senso unico eccetto bici, che vige in tutta Europa e che un politico troppo logorroico aveva annunciato anche in Italia.

    Fermò la sua Bianchi all’incrocio di fronte all’ingresso, la legò al palo, estrasse il sellino e lo infilò nello zainetto. Poi attraversò la strada e raggiunse la prima panchina libera dentro la Villa.

    Si tolse la felpa e i pantaloni della tuta piegandoli e infilandoli nello zaino. Rimase così in pantaloncini e maglietta della North Face e cominciò i suoi esercizi personalizzati di riscaldamento. Roberto, il suo amico ortopedico, gli aveva consigliato di eseguire soprattutto quelli per le sue caviglie fragili. Per questo si era avvicinato al gradino ricavato da due mattoni poggiati dietro la panchina. Mentre faceva tutti i movimenti necessari a scaldare i suoi polpacci, sentiva il vociare dei bambini che giocavano nel parco attrezzato. Si sedette sulla panchina per «l’esercizio più importante per le tue fragili caviglie: gamba appoggiata sul ginocchio opposto e movimento rotatorio del piede, prima in un senso e poi nell’altro, per dieci volte»; Roberto gli aveva spiegato in una lunga filippica la differenza tra lo stretching e il riscaldamento. Il primo per lui era da evitare, molto meglio concentrarsi sul secondo.

    Finiti i preparativi, programmò l’App RunKeeper sul suo cellulare cercando l’attività prevista per quel giorno: Allenamento – Corsa di 20 min. Poi si mise gli auricolari e selezionò la playlist che aveva preparato e nominato "Correre".

    Le note partirono, l’applicazione per cellulare RunKeeper anche, e partì di corsa pure lui. "I, I will be king, And you, you will be queen. Though nothing will drive them away. We can beat them, just for one day".

    Mentre gli eroi di Bowie raccontavano che la loro vita di emarginati poteva essere riscattata anche fosse solo per un giorno, Luigi percorreva quella strada interna a Villa Pamphili che conosceva come le sue tasche. Passò davanti al parco giochi, dove una figlia reclamava l’attenzione del suo papà: «Papy giochi con me o parli al cellulare?»

    Il padre con una mano la stava spingendo distrattamente sull’altalena, con l’altra impugnava un iPhone vicino all’orecchio, impegnato in una conversazione telefonica che pareva interessarlo più dei giochi della figlia.

    Ecco uno dei motivi per i quali lui non aveva avuto figli. Aveva la certezza che essere genitori fosse un impegno che non si doveva prendere alla leggera. Del resto lui, negli ultimi 10 anni, era stato molto indaffarato a imparare l’arte del vivere, sempre guidato da una smodata passione per le scelte da prendere. La cosa che temeva di più, invece, era che la vita prendesse il sopravvento su queste sue scelte.

    Quanto doveva essere pesante per quel padre, portare la figlia al parco giochi? Possibile che non potesse rinunciare a rimanere in contatto col mondo virtuale tramite una telefonata? E non avrebbe perso così il momento reale della gioia di giocare con la propria figlia?

    Mentre aumentava il ritmo per affrontare la leggera salita che lo avrebbe portato verso il laghetto, Luigi pensava ai suoi 34 anni e a come aveva sempre cercato di evitare la pesantezza di una vita senza scelte. Non escludeva che prima o poi avrebbe avuto un figlio o, meglio, una figlia. Aspettava solo il momento in cui si sarebbe sentito meno vulnerabile e più adatto a un rapporto maturo. Finora le sue erano state solo avventure di poco conto. Forse la persona giusta l’aveva già trovata, ma aveva paura ad ammetterlo. Se fosse riuscito a sbloccarsi probabilmente anche la decisione di diventare padre sarebbe arrivata di conseguenza. Ma quel momento non era ancora giunto.

    Quando insegnava all’Istituto Magistrale Margherita di Savoia di Ravenna era troppo giovane. Tutto impegnato a entrare nel grande mondo dei garantiti del lavoro pubblico. Quel suo ruolo l’aveva preso sul serio fin dall’inizio, con la passione giusta e una sorta di vocazione all’insegnamento che lui non riscontrava più nei colleghi più anziani. Certo, era anche facilitato dall’essere il professore più giovane e interessante, per un istituto che era composto per l’80% da ragazze. La sua altezza, la sua gioventù, la sua passione e – doveva ammetterlo – la sua faccia da schiaffi lo avevano aiutato. Sapeva bene che per le studentesse lui era il killer, per via dei suoi occhi azzurri luminosi e intensi che, a dir loro, fulminavano con lo sguardo chiunque lo guardasse.

    "Tempo, cinque-minuti, distanza, zero-virgola-novantacinque-chilometri…, era il suo RunKeeper che con la tipica voce metallica femminile da navigatore GPS gli sciorinava i dati andamento medio cinque-virgola-tredici-minuti-per-chilometro…". Mica male, pensò lui, sono arrivato davanti al pioppo nero 10 secondi prima di venerdì scorso.

    Ogni volta che passava di lì stoppava la musica e l’App. Poi si fermava, saltellando per non perdere il ritmo, guardando quell’albero maestoso. Con un diametro che superava i 4 metri era uno degli fusti più alti della villa. Passargli accanto gli dava un senso di sicurezza. Il pioppo era lì da almeno 100 anni, e gli erano passati davanti gli eventi della storia.

    Chissà, forse aveva assistito anche alla battaglia tra l’esercito napoleonico e gli scalcagnati soldati della Repubblica Romana, quando Garibaldi, se ne andò sconfitto dalla capitale, pensò Luigi.

    "Io esco da Roma: chi vuol continuare la guerra contro lo straniero, venga con me… non prometto paghe, non ozi molli. Acqua e pane quando se ne avrà", disse l’eroe dei due mondi. E cominciò a girovagare con il suo esercito (perdendo molti pezzi per strada) in mezza Italia. Era una delle lezioni preferite del prof. Ferrari, adesso che era tornato a insegnare nel Liceo Scientifico che stava dietro casa sua. Ne aveva anche ricavato una piccola pièce teatrale che faceva preparare ai suoi studenti di quinta. Un processo

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