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Più buio del buio
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Più buio del buio

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Aurora, ragazza matura e determinata, con le idee ben chiare per il proprio futuro: una volta terminati gli studi superiori, il suo sogno è andare a vivere e studiare a Monaco.

Aurora e un passato pesante: il tragico incidente che ha causato la morte del fratellino maggiore, a soli dieci anni, ha portato anche all’allontanamento del padre, incapace di sostenere il dolore e desideroso di costruirsi una nuova vita, lontano.

Aurora e un presente difficile: la madre ha una storia con suo zio, con la conseguenza di una coabitazione che fa sentire la ragazza in gabbia, persa in un equilibrio precario.

La situazione si intreccia ulteriormente quando la ragazza scopre che i due hanno inscenato la morte del padre, in realtà ancora in vita…

 

Più buio del buio è un romanzo dalle sfumature intense, forti, profonde, nel quale la complessità dell’animo umano trova corpo in un intreccio che tiene con il fiato sospeso, tra momenti drammatici, misteri e colpi di scena.

È buffo pensare che un secondo possa essere così breve e così incisivo allo stesso tempo. Viviamo un’infinità di secondi ogni giorno, sono talmente brevi che a malapena li consideriamo a confronto della nostra lunga vita, eppure ne basta solo uno per cambiarla, mentre invece non basta un’intera vita a cambiare un secondo.
LanguageItaliano
Release dateDec 2, 2016
ISBN9788867932726
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    Più buio del buio - Viola Morgagni

    @micheleponte

    Viola Morgagni

    PIÙ BUIO DEL BUIO

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono fittizi o usati in modo fittizio. Tutti gli episodi, le vicende, i dialoghi di questo libro, sono partoriti dall’immaginazione dell’autore e non vanno riferiti a situazioni reali se non per pura coincidenza.

    PARTE PRIMA

    CAPITOLO PRIMO

    Non riuscivo a chiudere occhio da circa un’ora. Per l’ennesima volta l’incubo mi aveva strappato con rabbia dalle braccia di Morfeo, quelle morbide braccia che non mi stringevano più come un tempo. Ormai non ne conoscevo più il tocco soffice, caldo e avvolgente a cui tutti desiderano abbandonarsi quando scende la sera. Da mesi temevo il calare del sole, avevo il terrore di dovermi addormentare. I miei sonni erano continuamente interrotti dalla solita, terribile scena che mi aveva vista protagonista svariati anni prima. Ma c’era qualcosa di diverso in quell’esperienza, una presenza nuova e inquietante capace di lasciarmi nervosa e turbata per tutta la giornata seguente. Girai lentamente il capo verso i numeri vivaci e lampeggianti della sveglia: le 5:40. Avevo ancora un’ora prima che quella squillasse con l’intento di svegliarmi. Purtroppo era da mesi che la precedevo, ma avrei pagato tutto l’oro del mondo per poter dormire un’intera notte senza incubi, pensieri e preoccupazioni. Durante la giornata tenersi occupati risultava abbastanza semplice, ma di notte tutto ciò che più temevo prendeva vita: ansie, paure e insoddisfazioni. Insieme al sole tramontava anche il mio sollievo e i pensieri prendevano il sopravvento, stringendomi saldamente in una morsa allucinante. La notte aveva come protagonisti i fantasmi, gli scheletri e nessuno lo stava sperimentando meglio di me. Io stessa ero diventata l’involucro di uno spettro. Meglio abituarsi ai dispiaceri prima che poi. La vita non è tutta rose e fiori ripeteva spesso mia madre. Fino a quel momento, la mia vita era stata tutt’altro che rose e fiori. Delle rose avevo conosciuto solamente le spine.

    Mi girai più volte tra le lenzuola, cercando di riprendere un poco di sonno. Nella mattinata avrei avuto un compito in classe, uno degli ultimi dell’anno scolastico, e non potevo permettermi di fallire. L’ultimo anno era stato faticoso e difficile, come giusto che fosse, ma ero riuscita a cavarmela come mio solito. Lo studio era una delle poche cose che mi era sempre riuscita bene. Non che ne andassi fiera, anzi, avrei preferito piuttosto avere un altro talento, qualcosa che potesse caratterizzarmi ed essere solo mio. Invece no: non avevo un talento particolare neppure nello studio, semplicemente mi spaccavo la schiena. Mi rinchiudevo l’intero pomeriggio in camera, incollata alla sedia, finché non sapevo gli argomenti alla perfezione. Alle volte, se il tempo non mi bastava, non cenavo neppure e tiravo dritto fino a notte fonda. Vi starete chiedendo se fossi pazza: be’, non lo ero. Non ancora, almeno. Lo studio e gli innumerevoli successi della mia brillante carriera scolastica avevano un preciso scopo: fuggire da quella casa e andarmene lontano dai due soggetti che meno riuscivo a sopportare: mia madre e il suo compagno, mio zio. Strano, vero? Uno zio che in pochi mesi si era trasformato in un patrigno. Grande, si gioca in casa. Il mio obiettivo di vita era aumentare ancora un poco i miei risparmi, già abbastanza consistenti, e utilizzare il tutto per frequentare l’università altrove, e più precisamente a Monaco. Avevo calcolato tutto nei minimi dettagli e, fortunatamente, avevo iniziato a risparmiare in tempo. Una volta terminato l’ultimo anno avrei utilizzato quanto messo da parte per trasferirmi a Monaco e iniziare una nuova vita, lontano da coloro che mi avevano rovinato la vecchia, strappandomi l’infanzia che non avrei più avuto indietro. Monaco era il mio sogno e avrei fatto di tutto per raggiungerlo, anche uccidere. La mia passione per quella città era nata da piccola, quando avevo solo sei anni, ed era stato merito di mio padre. Ancor prima che fossi nata, per motivi di lavoro, egli vi aveva vissuto innamorandosene perdutamente. Purtroppo, però, l’amore che provava nei confronti di mia madre era più grande dell’amore che provava per Monaco, e per questo motivo aveva deciso di rimanere in Italia. Pazzo, aggiungerei io. Ciononostante, quando avevo sei anni, mio padre aveva organizzato una delle vacanze più belle della mia vita. Non solo una delle più belle, ma anche l’ultima. Durante i cinque giorni passati a Monaco avevamo cercato di visitare ogni parte della città, dintorni compresi. Ogni minuto che passava, insieme alla stanchezza, cresceva il mio amore per quel luogo. Era stato un colpo di fulmine: mi ero sentita a casa, avevo finalmente trovato il mio posto nel mondo. Mi era impossibile descrivere il turbinio di emozioni che avevo provato nel gironzolare per le strade della città, protetta dagli innumerevoli palazzi che punteggiavano i lati delle strade. Quando ero tornata a casa, avevo pianto per una mattina intera in camera mia, cercando di non farmi sentire dai miei genitori. In parte mi vergognavo per questa mia eccessiva e irrazionale sensibilità, ma sapevo perfettamente che sarei tornata a Monaco, costasse quel che costasse. Finalmente avevo i risparmi necessari per tornare, risparmi messi da parte nel corso di anni interi e uscite proposte da amici rifiutate. Non che poi avessi tanti amici, o meglio, fino agli otto anni ero stata una bambina molto socievole e circondata da amicizie varie, poi era stato tutto un tracollo. Da quella fatidica e indimenticabile giornata la mia vita si era sgretolata a poco a poco, fuggita dalle mani come se fosse stata composta da piccoli granelli di sabbia. Ma ora, poco lontana dal compimento dei diciannove anni, ero pronta a recuperare il tempo perduto e tornare finalmente a vivere. Avrei potuto ricominciare da zero, lontana dai problemi maggiori della mia vita: mia madre e mio zio.

    Scostai le coperte che giacevano morte sul mio corpo, liberandomi di quel leggero peso che al momento sembrava un macigno. Tastai un poco la parete alla ricerca delle tende, le aprii e lasciai che la flebile luce del sole nascente invadesse timidamente la mia camera. Aprii le finestre e inspirai profondamente l’aria frizzantina che circolava fuori. Era il periodo più bello dell’anno la primavera, quando il profumo dei fiori era in circolo costante insieme all’odore di erba appena tagliata, che veniva incentivato dagli improvvisi acquazzoni che facevano a gara con il sole. Era il periodo che più aiutava a sentirmi bambina, non tanto lontana dai momenti migliori della mia vita. Ancora ricordavo quando mio padre tornava da lavoro annunciando Sono a casa! Chi vuole un gelato? facendomi sorridere così, di getto. I miei gusti preferiti, rigorosamente accompagnati dalla classica cialda a cono, erano il cocco e il pistacchio. Strano abbinamento, lo ammetto, ma era delizioso. Adoravo stendere la coperta a scacchi rossa e gialla sull’erba umida con mio padre, entrambi controllando di non star schiacciando nessun fiore, sedermi accanto a lui e dedicarmi alla prelibatezza che stringevo tra le manine paffute. Era come stare in paradiso, tra le nuvole, in un mondo tanto delicato e perfetto che sembrava quasi irreale. E mio padre completava il tutto, era la mia roccia, il mio rifugio, la mia salvezza. Ogni volta che mi trovavo in difficoltà andavo da lui, mi confidavo, mi sfogavo e aspettavo che la sua mano morbida e delicata scivolasse tra i miei capelli, facendomi sentire protetta e capita. Avevo sempre associato ogni cosa ai profumi, così che descrivere ciò che mi stava attorno potesse risultare più facile. Casa mia sapeva indubbiamente di lui, mio padre. E mio padre era a sua volta associato alla colonia che mia madre gli aveva comprato puntualmente ogni anno, per il suo compleanno, come se fosse un rito da non spezzare. Avevamo mangiato un gelato anche la mattina di quel giorno, prima della tragedia, e da allora non avevo più avuto più il coraggio di mangiarne un altro. Era come se i gelati, che per me rappresentavano la tipica coccola in compagnia di mio padre, appartenessero a un’altra vita, sepolta e chiusa in un cassetto di cui avevo gettato la chiave. Lasciai la finestra aperta e tornai sotto le coperte, tirandole su, fino al collo, cercando di riprendere sonno. Le palpebre divennero più pesanti, fino a che fu tutto nero.

    Quando la sveglia iniziò a suonare, sussultai. Non mi ero resa conto di essermi addormentata nuovamente. Era stato un sonno breve, ma profondo, fortunatamente senza sogni. O incubi, a essere precisa. Per la seconda volta in quella mattina mi alzai, questa volta controvoglia, per dirigermi verso il bagno. I piedi nudi e caldi contrastavano con il pavimento freddo, provocando una scarica di piccoli brividi lungo la schiena. Tesi un poco l’orecchio, cercando di captare i possibili rumori provenienti dal piano inferiore: niente, eccetto il frantumarsi di qualcosa di vetro all’interno della spazzatura. Una bottiglia probabilmente. La mia schiena fu attraversata da un altro brivido, questa volta di ansia e paura. Ormai situazioni del genere accadevano ogni fine settimana in casa mia, ma abituarsi era comunque difficile. Non ci si abitua mai a vedere la propria madre ubriaca aspettare invano il proprio compagno.

    Sgattaiolai in bagno per lavarmi i denti, poco importava se neanche dieci minuti dopo avrei fatto colazione. Mi sciacquai la bocca con una dose abbondante di dentifricio, in modo da togliere il sapore aspro e acido che mi stava dando la nausea. Guardai a lungo la mia immagine riflessa nello specchio: i miei capelli castani, una volta voluminosi e pieni di boccoli, ricadevano ora privi di vita sulle spalle. Le occhiaie grigie incorniciavano i miei occhi grandi, talmente opachi che sembravano deglutiti dal cranio. Cercai di convincermi che la spossatezza del mio volto fosse dovuta alle poche ore di sonno. Sapevo perfettamente che in realtà non era così. Neppure il trucco riusciva a essere mio alleato. Inspirai profondamente, passando il dorso della mano sulla fronte e le vidi. Erano loro le tre alleate che non mi avrebbero mai abbandonata. Tre: il numero perfetto, il numero dell’equilibrio e della completezza. Probabilmente l’uomo ha associato questo numero alla perfezione perché non gli è mai appartenuto: due sono gli occhi, le orecchie, le braccia, le gambe. Ancora più lontano dalla perfezione del numero tre è il numero uno: numero del cuore, del cervello e della bocca. Prova che l’uomo non è una macchina perfetta. Non a caso i sentimenti dell’uomo sono spesso irrazionali, i suoi pensieri errati, le sue parole pericolose. Ma proseguiamo pure parlando del numero tre: questo si trova sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento, rappresenta sia la famiglia divina, composta da Maria, Giuseppe e Gesù, sia la trinità, composta da Padre, Figlio e Spirito Santo. Molto spesso tre sono anche le prove che gli eroi delle fiabe devono superare. È un numero che, nel corso del tempo, ha acquistato un’importanza particolare sia nell’ambito della religione sia nell’ambito della magia, o della letteratura. Basti solo pensare alla Divina Commedia: Dante non ha forse organizzato tutto secondo il numero tre? Tre cantiche di trentatré versi ciascuna, organizzate in terzine. Tre sono le fiere incontrate da Dante nella selva oscura, tre le donne che accorrono in suo aiuto: la Vergine Maria, Lucia e Beatrice. Ma il numero tre racchiude anche un pericolo: non a caso insieme al paradiso e al purgatorio c’è anche l’inferno. Tre per tre fa nove, numero dei cerchi infernali. L’eterna lotta tra il bene e il male, insomma. Più volte mi sono chiesta in quale cerchio dell’inferno sarei stata inserita da Dante. E il fatto che mi sia direttamente posta questa domanda, senza prima chiedermi a quale mondo dell’aldilà potessi appartenere, è già più che sufficiente per capire che non sono una persona di cui ci si può fidare. Non sempre, almeno.

    Come avrete notato, preferisco divagare piuttosto che parlare delle mie cicatrici. Avevo cercato a lungo di nasconderle, di coprirle, di mentire su come io me le fossi procurata, ma la posizione in cui si trovavano era più che eloquente. Tre cicatrici sul polso non sono facili da creare, bisogna fare attenzione e avere mano esperta. Un colpo sbagliato, un taglio troppo esteso e lo strumento utilizzato per alleviare il dolore della vita, diventa lo strumento attraverso cui termina la vita stessa. In tal caso si perde il senso profondo del taglio: esso non deve essere il mezzo per porre fine alla vita, ma lo strumento per porre fine ai dolori della vita. La differenza è molto sottile, difficile da capire con esattezza, ma c’è. È questa differenza che determina, a sua volta, la differenza nella vita: se continua oppure no.

    Avevo scoperto il magico mondo dei tagli e delle cicatrici all’età di quattordici anni, quando la sorte aveva deciso che la mia vita non era stata già abbastanza tragica di per sé. Da allora avevo iniziato a provare la necessità di sentire dolore, quel dolore piacevole e intenso capace di farti dimenticare tutti gli altri problemi. Mia madre se ne era accorta e mi aveva spedita dallo psicologo. Avevo resistito due anni, poi avevo deciso di chiudere le sedute perché non aveva senso, era solo uno spreco di soldi, soldi che avremmo potuto utilizzare in altra maniera. Mi sentivo costantemente analizzata dagli occhi estranei della psicologa, mi sentivo a disagio. Mi era impossibile aprirmi a una persona sconosciuta, parlarle dei miei problemi, dei miei pensieri. In questo ero sempre stata abbastanza introversa: non mi piaceva aprirmi e mostrarmi per quello che ero. La gente ferisce, è incapace di pensare alle conseguenze che le proprie parole possono avere sugli altri. L’unico antidoto alla cattiveria delle persone è innalzare un muro tra se stessi e gli altri, di modo che le pareti possano fungere da scudo per la perfidia altrui. Mia mamma non aveva espresso commenti quando avevo smesso di andare dalla psicologa, forse perché a sedici anni mi considerava abbastanza matura per prendere le decisioni che riguardavano la mia vita. Non capiva che, invece, avevo un disperato bisogno del suo aiuto, così come Linus ha bisogno della copertina. Per un periodo di tempo avevo smesso di tagliarmi, non volevo recare altri dispiaceri a mia madre, ma quando avevo visto che lei perseverava con il bere, senza ascoltare le mie innumerevoli suppliche di finirla, avevo ricominciato. Se lei beveva io mi tagliavo.

    La prima cicatrice me l’ero procurata quando avevo scoperto che mio padre era morto. Non avevo mai provato dolore maggiore, neanche quando a morire era stato mio fratello, nonostante avessi un ottimo rapporto con lui. Forse era stato per questo che avevo iniziato a tagliarmi: volevo scoprire se potesse esserci dolore maggiore. Ma sbagliavo. Alla fine ero caduta nel circolo vizioso dei tagli e da allora non avevo potuto più farne a meno. Quando mio padre morì, erano sei anni che non lo vedevo. Dopo la morte di mio fratello, avvenuta quando io avevo solo otto anni, i rapporti tra i miei genitori si erano frantumati, e così anche la mia famiglia. Incapaci di fronteggiare il dolore insieme, dapprima si erano separati e poi avevano intrapreso strade diverse: mio padre era tornato in Germania e mia madre si era avvicinata a Roberto, mio zio. Con il tempo avevo capito che mia madre si era avvicinata a Roberto non solo perché distrutta emotivamente, ma anche perché incapace di mantenere me e se stessa economicamente. Ovviamente questo Roberto non lo sapeva, ma io lo capii crescendo, osservandomi intorno e stando attenta ai particolari. O forse era stato semplice intuito femminile.

    La seconda cicatrice me l’ero procurata quando avevo scoperto che Roberto aveva picchiato mia madre. Probabilmente quel giorno avevo deciso di tagliarmi perché, così facendo, speravo di poter indirettamente alleviare le pene di mia madre. Non sapevo se fossi riuscita nel mio intento, ma poco dopo lei aveva trovato un altro strumento per alleviare il suo di dolore: la bottiglia. La terza cicatrice me l’ero procurata quando avevo visto per la prima volta mia madre ubriaca. Sapevo che anche Roberto beveva, più volte l’avevo sentito tornare a casa ubriaco, intento a farfugliare qualcosa che alle mie orecchie pareva incomprensibile. Quando ero più piccola avevo cercato di parlarne con mia madre, chiedendole spiegazioni preoccupata, sia per la mia che per la sua incolumità, ma lei aveva sempre cercato di sviare il discorso, di ometterlo, come se fosse cosa di poco conto. Un giorno, però, Roberto era tornato a casa ubriaco, quando io e mia madre eravamo in salotto. Mia madre mi aveva spedita in camera e aveva iniziato a litigare con mio zio. Non devi più permetterti di tornare a casa in queste condizioni quando c’è Aurora. Mi sembra ne avessimo già parlato altre volte aveva ruggito mia madre, cercando di non farsi sentire. Purtroppo la situazione le era sfuggita di mano. Quando avevo visto Roberto dare uno schiaffo a mia madre mi ero coperta gli occhi con le mani e mi ero rifugiata in camera con la testa sotto il cuscino, cercando di dimenticare ciò a cui avevo appena assistito. Quella fu l’unica cosa che avevo visto. Ma il giorno dopo mia madre aveva non solo una guancia gonfia e gli occhi arrossati per il pianto, ma anche alcuni lividi sulle braccia e camminava malamente. Avevo provato ad aiutare mia madre, ma lei non aveva voluto ascoltarmi. Crescendo avevo smesso di porre domande sia a lei sia a me stessa e avevo iniziato a guardare il tutto con occhi estranei e lontani, come se quel mondo non mi appartenesse. Ed effettivamente era così: io non volevo appartenere a quel mondo. Quando mia madre si era avvicinata al bere, aveva cambiato atteggiamento. Non piangeva più se Roberto la picchiava, semplicemente subiva l’accaduto. Evidentemente aveva conosciuto la meravigliosa medicina che il bere rappresentava: anche se ottima, bisognava accettarne le conseguenze. Per mia madre non era colpa di Roberto se lui la picchiava, ma era colpa del bere, dei terribili effetti che aveva sulle persone. E ovviamente mia madre aveva bisogno dei soldi di Roberto, questo era innegabile. Ancora mi stupivo che lui non l’avesse capito.

    Non appena ebbi sciacquato il viso aprii la porta del bagno e, in punta di piedi, andai in cucina per mettere qualcosa sotto i denti. La sera prima avevo cenato poco e niente, troppo impegnata per via dello studio e ora la pancia brontolava parecchio. Lanciai uno sguardo al salotto e nella penombra intravidi la figura di mia madre, stesa sul divano a faccia in giù, un braccio penzolante, una bottiglia appena stappata accanto alla mano sinistra. Distolsi in fretta lo sguardo, incapace di comprendere come una madre, a soli trentanove anni di età, potesse essersi ridotta in quelle condizioni. Aprii le dispense della cucina alla ricerca di qualcosa di veloce ma buono da mangiare: optai per un semplice caffellatte accompagnato da alcune fette biscottate con marmellata di fragole. Aspettai che la moka iniziasse a gorgogliare, simbolo che il caffè era quasi pronto. Adoravo quando l’aroma invadeva la cucina, mi infondeva una sensazione di grande tranquillità e serenità. Consideravo il caffè come il nettare degli dèi, una sostanza di cui non potevo assolutamente fare a meno, una specie di droga. Ed effettivamente la caffeina è una droga: rientra tra le sostanze stimolanti, al pari di cocaina, anfetamine e taurina. Un uso eccessivo può creare dipendenza con risvolti ovviamente negativi sul fisico: nervosismo, insonnia, mal di testa, agitazione con palpitazioni cardiache e irritabilità. In tal caso bisogna prestare attenzione, perché si può giungere a una sovra stimolazione del sistema nervoso centrale, e allora si parla di overdose. Per questo motivo la caffeina è oggi ritenuta la droga più diffusa al mondo. Fortunatamente il caffè è ancora legale, altrimenti non potrei sopravvivere. Lo slogan «Che mondo sarebbe senza Nutella?» lo modificherei volentieri con «Che mondo sarebbe senza caffè?». Versai ciò che personalmente consideravo l’oro nero all’interno della tazza, aggiungendo a poco a poco il latte. Presi le fette biscottate e vi spalmai la marmellata, facendo attenzione che fosse perfettamente uniforme in ogni punto, senza sbavature, cercando di non macchiarmi. Masticai e bevvi lentamente, cercando di assaporare ogni boccone, ogni sapore per imprimerlo nella mente. La colazione era il mio piccolo rituale mattutino: avevo bisogno di silenzio, tranquillità e solitudine. Odiavo fare colazione in compagnia, soprattutto se la compagnia era quella di mia madre o, peggio ancora, di mio zio. Quel momento era il mio personale saluto al mondo, la preparazione al nuovo giorno che mi aspettava a braccia aperte. Le uniche persone con cui avevo condiviso quel rito erano state mio fratello e mio padre. Ogni weekend, quando Natale si avvicinava portandosi appresso il freddo e la neve, mio padre svegliava me e Mattia, mio fratello, affinché preparassimo la colazione insieme. Mia madre non poteva partecipare perché già lavorava come barista a quell’ora. Ricordavo quei momenti con immensa gioia: io e mio fratello indaffarati a mischiare gli ingredienti per i pancakes, mio padre che li cuoceva e li posizionava sui piatti impilandoli uno sopra l’altro. Li farcivamo poi diversamente: mio padre rigorosamente con crema al cioccolato, mio fratello con marmellata di fragole e io con miele. Non so perché, ma avevo sempre associato il miele al Natale. Ritenevo che solo il miele si sposasse perfettamente con il sapore leggermente salato dei pancakes.

    La marmellata di fragole, la preferita di Mattia esordì mia madre abbozzando un sorriso che, a causa della sbronza, risultò più una smorfia. Guardai il vasetto di marmellata che avevo lasciato sul tavolo, lo richiusi e lo riposizionai in frigorifero.

    Dov’è Roberto? domandai, cercando di cambiare discorso. Odiavo quando mia madre nominava mio fratello in quelle condizioni, la reputavo una mancanza di rispetto.

    Non lo so rispose facendo spallucce, stanotte non è tornato a casa.

    Annuii silenziosa, avendo intuito dove mio zio si trovasse e abbandonai la cucina, lasciando mia madre in piedi con gli occhi vacui. Non potevo sopportare di vederla in quelle condizioni, una donna rovinata e malridotta a causa dell’alcol. Non capivo se odiavo di più il fatto che si fosse fatta assorbire dal mondo dell’alcol, che preferisse la bottiglia a me, o che non avesse trovato la forza di uscirne pensando a sua figlia.

    Sapevo che, anche prima del bere, mia madre non aveva la vita che voleva, ma non pensavo che questa sua tristezza potesse indurla a ridursi così. La vita di mia madre era cambiata con i ventun anni: età in cui ebbe me. A quell’epoca studiava Lettere all’università, per realizzare il sogno di diventare insegnante. Aveva un grande trasporto per lo studio, perdeva ore e ore a leggere i grandi classici, amava analizzare e interpretare i testi, le opere, tradurre intere versioni di latino. Forse, pur non volendo, fu mia madre a infondermi questo amore per le materie umanistiche. Quando leggo non sono più me stessa, Lisa, entro nella storia, mi immedesimo nei personaggi. Adoro studiare perché, così facendo, posso scoprire le tecniche che gli autori hanno utilizzato per dare vita a opere che non tramonteranno mai. Anche io, un giorno, scriverò un libro ecco come giustificava mia madre l’amore per lo studio. Tutto si era frantumato quando era rimasta incinta di me. Con il pancione non era più in grado di frequentare le lezioni, di concentrarsi e di studiare. Quando poi ero nata, figuriamoci, doveva passare la maggior parte del tempo ad accudirmi. All’epoca mio padre aveva ventisette anni, con accanto un figlio proveniente da una relazione passata. Mia madre aveva accolto Mattia, suo figliastro, come membro autentico della famiglia. E così avevo fatto anche io: non avevo mai considerato Mattia come un fratellastro, lo sentivo legato a me attraverso il sangue. Era più grande di me di soli due anni, passavamo tantissimo tempo insieme e sapevo di poter costantemente contare su di lui. Mio padre, già inserito all’interno dell’impresa familiare di mio nonno, lavorava duramente per garantire a noi altri il miglior futuro che una famiglia potesse mai desiderare. Mia madre aveva trovato lavoro come barista e apparentemente le cose andavano alla grande. Solo apparentemente però. Mia madre non era affatto felice. Ricordo una volta che, non volendo, avevo origliato una conversazione tra lei e mio padre.

    Perché non ricominci a studiare? aveva domandato mio padre, la mano destra appoggiata sulla spalla di mia madre.

    Non penso sia una buona idea aveva risposto mia madre tenendosi il volto tra le mani, afflitta.

    Te l’ho ripetuto tantissime altre volte, Lisa, non devi preoccuparti di nulla. Mattia e Aurora stanno bene e sono dei bravissimi ragazzi, tu hai tutto il tempo per studiare aveva affermato mio padre.

    Non voglio che il peso del mantenimento della famiglia gravi solo sulle tue spalle. So che, lavorando come barista, non guadagno un granché, ma guadagno quel poco che basta per avere la coscienza pulita aveva detto mia madre, alzando il volto rigato da una lacrima. In quel momento avrei voluto regalarle uno dei suoi amati classici, così che leggendone uno potesse immedesimarsi in quello e vivere la vita della protagonista, perché la sua di vita non la rendeva felice per niente. Ora mia madre, invece di tenere in mano un libro, teneva in mano una bottiglia, in attesa che Roberto tornasse. A partire dagli anni seguenti, pensando spesso a quell’avvenimento, avevo iniziato a sentirmi un peso, un errore. Sicuramente, se non fossi nata, mia madre avrebbe avuto l’occasione di realizzarsi, avrebbe avuto una vita diversa, una vita per cui stare al mondo ne valeva la pena.

    Mio zio aveva due grandi vizi: il bere, così come mia madre, e il gioco. Dopo la morte di Mattia mio padre si era disperato, era crollato come i pezzi di un puzzle. Poco era mancato che l’impresa di famiglia fallisse e l’unico a mantenerla in piedi era stato mio zio. Mio padre aveva allora deciso di andarsene in Germania, mentre Roberto aveva assunto il comando dell’impresa. Non solo era cresciuto il potere di mio zio, ma anche i soldi nel suo portafoglio. Ne aveva accumulati così tanti che aveva pensato di poter fare tutto ciò che desiderava. Avido di ricchezze aveva cercato altri modi per aumentare il denaro, ed era stato così che si era lasciato ammaliare dal gioco, partendo da semplici scommesse tra amici. Non sapevo dire con esattezza se Roberto soffrisse di una vera e propria patologia o meno, sapevo solo che questo suo vizio durava da alcuni anni ormai e non sembrava voler diminuire. Avevo scoperto questo lato di mio zio a casa, una volta che era intento a giocare online. Da allora avevo capito perché era solito fare tardi la notte, perché alle volte tornava a casa arrabbiato o con un mazzo di fiori per mia madre. Il primo caso avveniva quando perdeva, il secondo quando vinceva. Vinceva spesso mio zio, lo ammetto, ma puntava somme talmente alte che le perdite erano disastrose. E queste erano perfettamente visibili sulla pelle di mia madre. Roberto era comunque riuscito a dare stabilità economica sia a me che a mia madre. Ma io, a poco a poco, avevo iniziato a odiarlo. Non sopportavo nemmeno di vederlo e quando la sua presenza si dilungava troppo, io scappavo in bagno con una scusa, iniziando a tagliarmi in punti che fossero poco visibili, come le cosce. Grazie al dolore che mi infliggevo non pensavo al dolore che Roberto infliggeva a me e soprattutto a mia madre. Era come se dalla ferita fuoriuscissero tutti i miei turbamenti, insieme all’angoscia, alla rabbia, al risentimento e alla disperazione. Sapevo perfettamente di sbagliare, di autodistruggermi, ma stavo meglio ed era questo ciò che contava per me.

    Chiusi la porta della camera alle spalle, tirando un sospiro di sollievo. La tranquillità che respiravo lì dentro riuscivo a trovarla in pochi altri posti e ringraziavo ogni giorno di avere un piccolo posto, tutto mio, nel quale potevo rifugiarmi ogni volta che ne sentivo la necessità. Cercai di vestirmi in fretta e furia con le prime cose che mi capitarono sotto mano: una maglietta verde a maniche lunghe, jeans scuri e semplici scarpe da ginnastica. Completai l’outfit con l’immancabile collana lunga, con ciondolo a forma di orologio. Era stato Davide, il mio migliore amico, ad avermela regalata. Davide era l’arcobaleno che colorava le mie giornate grigie. Aveva tre anni più di me, frequentava l’università e ci conoscevamo da svariati anni ormai. Era l’unico che, in poco tempo, era riuscito a distruggere quella teca di vetro che ero solita costruirmi intorno. Non l’avrei mai ringraziato abbastanza per tutto il supporto che mi dava. Andai in bagno, mi sciacquai i denti con un’altra dose generosa di dentifricio e cercai di ravvivare il mio volto con un po’ di trucco. Odiavo usare i cosmetici, ma c’erano giornate in cui si rivelavano molto efficaci. E quella era una delle giornate in cui più necessitavo di nascondere le occhiaie e l’incavatura delle guance, grazie a uno splendido alleato: il fondotinta. Non appena fui pronta sgattaiolai fuori dal bagno, recuperai lo zaino e scesi lentamente le scale, cercando di fare meno rumore possibile. Prima di aprire il portone mi girai verso il salotto: mia madre era crollata di nuovo sul divano. Girai la maniglia cercando di trattenere le lacrime e uscii, sperando che l’aria della mattina potesse cancellare i miei dispiaceri.

    CAPITOLO SECONDO

    Camminai molto lentamente fino a scuola, cercando di inspirare l’aria fresca che mi avvolgeva e che mi faceva sentire viva. Avevo intenzione di godermi quell’aria prima che la primavera lasciasse il posto all’estate e al caldo soffocante. Detestavo l’estate, in parte perché mi costringeva a indossare abiti corti nonostante le mie cicatrici, in parte perché il caldo mi privava delle forze necessarie per sopravvivere. Perdevo vitalità, forza, mi sentivo costantemente debole e fiacca. Soffrivo di pressione bassa e l’estate non mi aiutava di certo, anzi, non faceva altro che acuire questa mia problematica. Quella invece era la temperatura perfetta: quando ancora indossavi le maniche lunghe e l’aria della mattina ti faceva rabbrividire un poco. Camminare fino a scuola era un piacere perché potevo passeggiare tra i viottoli della città ammirando i palazzi che mi proteggevano a destra e a sinistra. Era il momento perfetto per guardarmi intorno, osservare i particolari e imprimerli nella mente. C’è una grande differenza tra guardare e osservare. L’atto di guardare può considerarsi essenzialmente passivo, in quanto l’occhio si limita a vedere le cose, senza un interesse specifico, senza soffermarsi eccessivamente sulle circostanze. L’atto di osservare, invece, assume una sfumatura totalmente diversa, tanto che può considerarsi un atto dinamico. Attraverso questo, l’occhio inizia a captare i particolari e i dettagli, inizia a farsi un’idea di ciò che sta attorno. È grazie all’osservazione che noi relazioniamo cose, persone, situazioni, che comprendiamo le particolarità e le specificità del mondo che ci circonda. Il mio obiettivo era osservare, esaminare con occhio attento, conoscere le sfumature, le tonalità e i colori del mondo a cui appartenevo. Possiamo fare ogni giorno la stessa strada pensando di conoscerla senza conoscerla per davvero. Io il mondo volevo conoscerlo, invece.

    Mi diressi in classe, prendendo posto al mio banco. Mi sedetti tranquilla, in attesa che arrivasse l’insegnante a distribuire i compiti in classe. Avevo studiato Pirandello tutto il pomeriggio precedente ed ero pronta. Non a caso rientrava nella lista dei miei autori preferiti. Non ero solita scambiare molte parole con i miei compagni prima dell’inizio delle lezioni. Neanche dopo, a dir la verità. Non mi ero mai trovata bene nella mia classe, non riuscivo a inquadrare i miei compagni, non riuscivo a definirli in alcun modo o ad associarli ad alcun profumo. Nessuno di loro condivideva i miei interessi, erano molto diversi da me. A essere sincera, ero io a essere diversa da loro e dal mondo intero. Alle volte mi sentivo come un alieno catapultato sulla Terra, in mezzo a persone totalmente differenti da me. Solo una ragazza aveva attirato la mia attenzione. Si chiamava Caterina e spesso se ne stava sola, proprio come me. Non avevamo mai avuto grandi dialoghi perché non ero mai riuscita a trovare un argomento adeguato su cui avremmo potuto scambiare quattro chiacchiere. C’era qualcosa in lei che però mi attirava. Il suo isolarsi, il suo modo di abbassare lo sguardo quando le parlavano e il suo tono flebile di voce mi facevano quasi tenerezza. Non vestiva alla moda, non si truccava, non l’avevo mai vista né con lo smalto, né con un solo capo firmato. Era la semplicità fatta persona e forse era per questo che era l’unica che consideravo lì dentro. L’avevo associata all’odore delicato del mare, di quando le onde si infrangono a riva dopo aver lottato inutilmente per rimanere in vita. Presumo che in classe non avesse molte amicizie a causa del suo aspetto fisico: piccolina, molto magra, con capelli lisci e castani lunghi fino alle spalle e un paio di grossi occhiali neri, che non permettevano di ammirare adeguatamente i suoi grandi occhi scuri. Sembravano due voragini, ci si poteva perdere all’interno ancor prima di accorgersene. C’era qualcosa in quegli occhi, però, che mi lasciava incerta, che non mi permetteva di inquadrarla fino in fondo. Nonostante avesse quasi sempre la stessa espressione, impassibile, i suoi occhi tralasciavano un’ombra di inquietudine e agitazione, come se le fosse impossibile essere totalmente serena. Avrei tanto voluto sapere cos’era che la preoccupava.

    Avete due ore di tempo, non un minuto di più esordì il professore mentre stava distribuendo i compiti. Aurora, avrei bisogno di parlarti a fine lezione sussurrò quello, quando fu davanti al mio banco. Annuii appena, cercando di non farmi vedere dai miei compagni, anche se tutti sapevano che cosa voleva dirmi il professore. Me compresa. Le due ore passarono molto velocemente tra una domanda e l’altra. Mi ero sempre ritrovata in Pirandello, studiarlo era un piacere. Mi sembrava di essere la chiara e limpida rappresentazione del contrasto pirandelliano tra persona e maschera. Io stessa ero una maschera, l’involucro di me stessa. Le perdite di mio fratello e di mio padre, insieme al tracollo di mia madre, mi avevano profondamente trasformata, resa insensibile. Era come se, di punto in bianco, mi fossi trasformata in un’altra persona, una persona che non rispecchiava la vera me. Questa era nascosta, sepolta, faticava a uscire perché intrappolata in una gabbia di ferro. Da allora avevo iniziato a indossare la mia maschera personale, ad adeguarmi passivamente alle forme della vita, sperando non potessero più ferirmi come già avevano fatto precedentemente. Ecco perché mi era così difficile relazionarmi con gli altri e aprirmi. Avevo paura di mostrarmi per quello che ero ma, ciò che più mi premeva risolvere era la domanda: chi ero io realmente? La ragazza di ora o quella di un tempo? Ecco perché riuscivo a trovarmi nei personaggi di Pirandello. Mi erano famigliari: anche loro avvertivano lo stesso sentimento di estraneità dalla vita che provavo io, anche loro trovavano difficile comunicare con il mondo esterno, anche loro tendevano a isolarsi ed escludersi dal resto della società. Pirandello mi faceva sentire meno sola, più compresa, e in questi momenti ringraziavo mentalmente mia madre per avermi regalato la passione per la letteratura. Quel giorno le promisi che, qualunque cosa fosse successa, avrei ultimato gli studi per entrambe.

    Quando terminarono le due ore, seguii il professore fuori dall’aula, in attesa delle solite domande che ogni anno mi sentivo propinare a destra e a manca.

    Manca poco all’anniversario della morte di tuo fratello, Aurora. Come ti senti? mi sentii domandare.

    Bene. Anno dopo anno va sempre meglio risposi, cercando di non lasciar trapelare nessuna emozione dai miei occhi, che troppo spesso mi tradivano.

    Lo so che ogni anno ti senti ripetere gli stessi discorsi, Aurora, ma questo è l’ultimo, e non vorremmo che il riaffiorare dei ricordi possa compromettere la tua ottima carriera scolastica. Sarebbe un vero peccato.

    Mi sembra di aver dimostrato più volte di non correre questo pericolo affermai.

    Ne sono profondamente convinto sospirò il professore, solo che... alle volte le cose bisogna sentirsele dire.

    Il riaffiorare dei ricordi non comprometterà in alcun modo la mia ottima carriera scolastica affermai cercando di ripetere le esatte parole dell’insegnante, d’accordo?

    D’accordo rispose quello, lasciando filtrare una nota di delusione.

    Sapevo perfettamente che cosa sperasse io dicessi. Tutti gli insegnanti speravano che io mi aprissi, che mostrassi qualche emozione, anche solo rabbia, purché fosse qualcosa. In questo caso, il mio maggior problema non era tanto l’introversione e non predisposizione a mostrare sentimenti, quanto invece la mia più totale incapacità nel poterli provare. Era come se la morte di mio fratello, e ancor più quella di mio padre, mi avessero completamente stremata. La totalità delle mie energie era stata utilizzata nel disperarmi e nel piangere per la loro assenza. Ora, tutto ciò che ero in grado di fare era vivere e muovermi come un semplice automa, un robot, registrare nella mente i vari avvenimenti e andare avanti, come se non li avessi vissuti in prima persona.

    Avevo già affrontato la morte di mio fratello quando avevo iniziato il liceo, ma non quella di mio padre. Mia madre mi aveva dato la terribile notizia a metà anno, nel dicembre dei miei quattordici anni. Avevo rischiato parecchio per questo motivo. Mi ero assentata da scuola per un mese buono, non riuscivo a varcare la porta della mia camera. Avevo passato intere giornate sotto il piumone, con le coperte tirate fino al collo e la testa sotto il cuscino. Non avevo il coraggio di guardare il mondo esterno, non ne valeva la pena se in quel mondo non c’era mio padre. Tutto ciò che avevo sperato era sentire mia madre entrare in camera, chiamarmi e dirmi Aurora, svegliati, tuo papà è in salotto ad aspettarti per uscire, ma questo non era mai successo. Era stato allora che avevo iniziato a tagliarmi. Era accaduto un sabato pomeriggio di gennaio. Era passato circa un mese dalla morte di mio padre e avevo ricominciato solo allora a uscire dalla mia camera, decisa a reagire e a farmi forza, come avrebbe sicuramente voluto mio padre. Avevo sentito l’estrema necessità di parlare con mia madre quel giorno, sfogarmi, raccontarle le mie paure e i miei timori. Il lunedì sarei dovuta tornare a scuola e per me non era facile. Avevo iniziato il liceo senza che conoscessi nessuno e, a causa della mia timidezza, avevo fatto molta fatica a instaurare anche solo un debole rapporto con i miei compagni. Mancare un mese da scuola, così di punto in bianco, non mi aveva di certo aiutato ad approfondire i rapporti. Sapevo perfettamente che gli insegnanti li avevano informati di quanto mi era successo e infatti qualcuno si era presentato a casa mia per chiedermi come stavo, ma io non avevo voluto vedere nessuno. Non sapevo cosa sarebbe successo il lunedì, avevo paura, e avevo bisogno di sentire mia madre a fianco. Questa era tornata poco dopo aver iniziato a preparare la cena. Avevo voluto preparare qualcosa di carino, uno dei suoi piatti preferiti, così che attraverso la cena potessimo trovare un, seppur piccolo, conforto: lei mangiando e io cucinando. Mi piaceva tanto cucinare e sperimentare ricette nuove per gli altri, mi sentivo utile. Questa passione mi era stata donata dai miei genitori: la preparazione della cena era spettata sempre a loro, era un particolare momento della giornata in cui sentivano la necessità di stare insieme, loro due, parlando delle rispettive giornate. Cucinare li aiutava a scaricare la tensione. Quella sera avevo deciso di cucinare a mia madre il pollo in agrodolce con l’ananas. Diversamente da me, aveva la passione per la cucina asiatica. Diceva che le piaceva perché i sapori si combinavano tra loro in maniera naturale, senza forzature. In quel particolare piatto, il sapore leggermente acidulo dell’ananas si sposava perfettamente con la salsa agrodolce, che donava al piatto quella punta di esoticità, che avrebbe voluto tanto assaporare più spesso. Avevo già preparato la salsa, affettato le verdure necessarie e disposto le padelle sui rispettivi fornelli. Quando mia madre era arrivata, avevo appena iniziato a tagliare accuratamente il pollo, cercando di sporcarmi il meno possibile e creando pezzetti uguali, in modo che la cottura fosse uniforme e più semplice. Mia madre odiava la carne cruda o bruciata.

    Sto preparando la cena avevo affermato, continuando il mio lavoro. Mia madre non aveva risposto, ma avevo percepito il suo sguardo incredulo fisso su di me. Sicuramente non si aspettava che sua figlia sarebbe uscita dal bozzolo proprio quel giorno, per preparare la cena poi. Avevo alzato appena gli occhi, giusto per incrociare il suo sguardo.

    Non manca molto, se vuoi puoi iniziare ad apparecchiare la tavola avevo proseguito.

    Dovresti aumentare le porzioni aveva annunciato lei, Roberto si ferma qui a cena.

    D’accordo avevo detto sospirando. Erano anni che mia madre frequentava mio zio, ma non avevo mai instaurato un buon rapporto con lui e averlo a cena quella sera, proprio quando avevo finalmente trovato la forza di uscire per affrontare il mondo esterno, mi era sembrato inappropriato. Avevo continuato ad affettare il pollo. Quando mi ero accorta che due pezzi non erano di uguale misura avevo deciso di buttarli, tutto doveva apparire perfetto ai miei occhi.

    Lunedì, mamma, torno a scuola avevo annunciato, cercando di catturare inutilmente l’attenzione di mia madre. Si era girata appena due secondi per guardarmi, perché poco dopo qualcuno aveva bussato alla porta. Quando lei era andata ad aprire, aveva sorriso e fatto spazio a Roberto.

    Ciao Aurora aveva esclamato quello sorridendo, che odore delizioso. Cosa bolle in pentola?

    Non c’è nessuna pentola avevo sibilato, pensando a quanto potesse essere sciocco che un adulto non riuscisse ancora a distinguere una pentola da una padella. Mia madre si era schiarita la voce, facendomi capire che era il caso di moderare i toni. Sto preparando la ricetta preferita di mia madre.

    Mi sa che Lisa ha cambiato piatto preferito l’altra sera. Le ho fatto provare i gamberi con la glassa di aceto balsamico affermò Roberto facendo l’occhiolino a mia madre. Dovresti provarli anche tu, Aurora.

    Avevo cercato di mascherare la smorfia che era comparsa sul mio volto. Avevo inspirato profondamente, cercando di controllare la rabbia che già mi ribolliva dentro. Avevo continuato a sminuzzare il pollo, questa volta non facendo più attenzione che i pezzi risultassero uguali. Non importava che tutto fosse perfetto, mi bastava che quello strazio finisse il prima possibile.

    I gamberi cucinati in quel modo erano a dir poco deliziosi, Roberto si era complimentata mia madre, ma ancora non hai sentito le prelibatezze che cucina mia figlia.

    Avevo sorriso appena, ma non mi era riuscito molto bene. Sapevo che mia madre aveva detto l’ultima affermazione solo per farmi contenta,

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