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Heart and Soul
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Heart and Soul

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Due giovani donne. Una è intrappolata nella sua stessa mente, non è mai riuscita a sopportare la pressione di essere etichettata come un promettente talento quand’era più giovane. Sta cadendo in un vortice e sembra incapace di trovare la forza di cambiare la sua vita per il meglio. Un evento la scuoterà, e si troverà costretta ad affrontare i propri demoni e a trovare un modo per andare avanti. L’altra ha perso qualcuno di veramente importante e resta intrappolata nel suo passato. Continua a cercare il modo migliore per uscirne e un incontro inaspettato la aiuterà a trovarlo. Razionalità e irrazionalità s’incontrano e si scontrano in una storia breve ma intensa, che mostra come la vita può essere affrontata e ripresa, anche quando sembra che stia ormai sul punto di sfuggire.
LanguageItaliano
Release dateNov 24, 2016
ISBN9788893690355
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    Heart and Soul - Benedetta Ruggeri

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    Italiano

    Lauryn

    Provo ad alzare lo sguardo mentre sento che fuori il mondo si prepara a girare nuovamente. Appena mi sveglio non so che ora sia, né che giorno sia. Intanto la mia testa sembra non voler obbedire agli impulsi del mio cervello, per quanto lo racchiuda con cura da così tanto tempo, con lo scopo di preservarlo, per fare in modo che non gli accada nulla e che le minacce del mondo esterno non lo scalfiscano. Ma non era da quelle che doveva essere messo al riparo. Doveva essere messo al riparo da se stesso. Il mio corpo si sta ribellando. Non c’è più nessun legame tra ciò che io sono all’esterno e ciò che sono internamente. Posso sentire il mio cervello dire Alzati, ma le mie gambe non vogliono sentire ragioni. Posso sentirlo dire Apritevi, ma i miei occhi odiano la luce. Non ho più il controllo del mio corpo, credo sia la naturale conseguenza del non avere più il controllo della mia mente. Cosa manca alla mia vita? Non lo so. Non ne ho veramente idea. E questo mi fa paura. C’è un traffico pazzesco nella mia testa. Ho sempre decine di pensieri qui dentro, lottano per uscire ma ci sono intrappolati. Si sentono intrappolati, come me. Mi sento come loro. Intrappolata. Sono intrappolata dentro la mia testa, e dentro la mia vita. Non vedo alcuna uscita.

    Non sono qui. Non so dove sono.

    Credo di essere rimasta dentro casa per più di una settimana. Devo aver ricevuto parecchie chiamate, ma non ho risposto a nessuna. Qualcuno è pure venuto a bussare alla porta qualche giorno fa. Non mi stupirei se mi piombasse in casa la polizia da un momento all’altro. Ho sempre avuto certi momenti. Momenti di avversione totale nei confronti della gente, nei confronti della vita. Devo ammettere di aver sempre peccato di una certa presunzione, quella che ti fa dire nessuno può capire. È presunzione, no? Quando si ha quasi la certezza che le persone non possano comprendere nulla di ciò che siamo, di ciò che ci sta succedendo, di ciò che abbiamo dentro la nostra testa. Ma è così vero, che nessuno può capire. Quando questi momenti mi capitano, tendo ad allontanare il resto del mondo. Non esiste più niente e nessuno per me. A parte qualche bottiglia d’alcol e una serie di flaconi di medicine.

    Prima di questa volta, successe circa sei mesi fa. Credo di avere ancora qualcuno da qualche parte là fuori, anche se non si direbbe che abbiamo alcun legame di sangue. Pensavano che mi fossi suicidata, perché non rispondevo al telefono. È stato divertente, perché mai avrebbero dovuto pensarlo? Inconsciamente o no, credo capissero cosa mi stava capitando. Non che abbiano mai sprecato molto del loro tempo a conoscermi, ma mi hanno fatto capire che in fondo sapevano. Sapevano del mio malessere, e solo nel momento in cui hanno avvertito la possibilità che mi potesse essere successo qualcosa, hanno deciso di rifarsi vivi. Mi succede qualcosa ogni giorno, ogni momento della mia vita. Il fatto che succeda all’interno della mia testa e gli altri non possano avvertirlo direttamente non significa che sia qualcosa di meno reale. È questo che mi fa isolare dal mondo. Loro non mi capiscono, e io non capisco loro.

    Ricordo esattamente cosa feci quel giorno di più di una settimana fa prima di chiudermi dentro me stessa. Avevo deciso di procurarmi il maggior numero di film, libri e dischi possibile, surrogato di quel mondo che avevo intenzione di tenere al di fuori dei miei pensieri.

    Ho passato tutto questo tempo a guardare film. Ricordo di aver visto per primo Viale del tramonto. C’era qualcosa in Norma Desmond, nella sua austerità, nel suo disprezzo per un mondo e un tempo a cui lei riteneva di non appartenere, nel suo stare aggrappata ad un passato che non sarebbe inevitabilmente più tornato che ricordava me stessa. Siete Norma Desmond, la famosa attrice del muto. Eravate grande! - Io sono sempre grande, è il cinema che è diventato piccolo. Mi sentivo così, ancora grande.

    Quando qualche anno fa la gente mi riteneva ancora una persona interessante, quando tutti vedevano del talento in me, a me sembrava di non essere in grado di poterlo sviluppare. O forse non volevo. Non avevo neanche vent’anni, quando scrissi il mio libro. Appena terminato, sapevo dentro di me che non avrei mai potuto fare meglio. All’inizio pensavo che fosse colpa mia, non avevo tutto quel talento di cui la gente parlava, non lo avvertivo, non lo toccavo. Non riuscivo a svegliarmi al mattino e sentire qualcosa muoversi dentro di me, dentro la mia testa. Ero come gli altri, ero una persona normale. Col tempo, ho iniziato a dare la colpa agli altri, e al mondo intero. Sentivo di non poterci stare dentro. Era tutto così diverso da quello che mi aspettavo, da quello che io volevo, e inconsciamente o no, ho iniziato a scavare un fossato che mi separasse dagli altri. Il più profondo possibile. Avevo paura che, trattandosi di persone che mai avrebbero capito la mia vera essenza, cosa che in fin dei conti non riuscivo ad afferrare nemmeno io, mi avrebbero giudicato nella maniera sbagliata. Chi poteva mai capirmi? Perché tutti avevano un’idea di me che io stessa non riuscivo a condividere e a comprendere? Il disprezzo che credevo di provare per tutti loro, forse in realtà lo provavo per me stessa. Non sono riuscita a superare quello stadio, credo. Ora ci sono io, Norma Desmond, e il mondo fuori. Io continuo ad essere grande, il mondo si fa sempre più piccolo.

    Ho guardato anche Freaks, in quel primo giorno. Una scelta saggia, penso, perché oltre sentirmi così grande, mi sentivo anche piuttosto disadattata. Non capivo perché Cleopatra facesse tante storie. Avrei dato qualsiasi cosa pur di partecipare a quel banchetto. Io, una freak.

    Ho visto decine di film, penso, in questi ultimi dieci giorni. A occhio e croce dovrebbero essere stati dieci i giorni, sì, ma non ne sono sicura. La mia giornata tipo è stata più o meno questa: sveglia (nessun orario predefinito), tre o quattro film di fila; libro, credo di aver letteralmente divorato almeno cinque libri; verso sera mettevo su qualche disco, e provavo a scrivere ancora, e ancora, ma niente veniva fuori dalla mia testa. Il tutto era ovviamente condito da vodka, scotch, birra, lorazepam, alprazolam. Ricordo che mia madre usava prendere Xanax a ogni ora del giorno, così come ricordo la passione di mio padre per l’alcol e l’erba. Lui lavorava all’Haçienda nei fine settimana, quando io ancora non ero nata, e là ne girava tanta, di roba. Ma cosa rende il loro abuso di sostanze più socialmente accettabile del mio? Assolutamente niente. È esattamente la stessa cosa, le ragioni forse possono cambiare, ma il risultato è sempre lo stesso.

    Mangiavo pochissimo, per cui le medicine facevano il doppio dell’effetto. Ogni tanto ricordavo di avere un telefono, e ci trovavo qualche messaggio. Lo leggevo e lo cancellavo. Oppure lo cancellavo senza nemmeno leggerlo.

    Ieri sera ho messo su la discografia completa del mio gruppo preferito.

    Mentre Ian cantava

    walk in silence

    don’t turn away, in silence

    your confusion

    my illusion

    worn like a mask of self-hate

    confronts and then dies

    don’t walk away

    in silence

    don’t walk away[1]

    facevo fuori le ultime pillole che mi erano rimaste.

    Devo dire la verità, credevo che non mi sarei svegliata. Purtroppo l’ho fatto, e ora devo trovare il modo di muovere il mio corpo. Devo raccogliere le poche forze che mi sono rimaste e sollevare questo corpo sfatto e quest’anima ubriaca che è tutto quello che resta di me al momento. Heart and soul, one will burn. Forse il mio cuore è già bruciato. La mia anima persiste, ma versa in condizioni particolarmente critiche al momento.

    Non so come ci riesco, ma mi alzo e apro la finestra; vedo un cielo ancora nero e una nebbia molto fitta ricoprire la mia Manchester. Fa freddo, ma adoro l’aria pungente delle prime ore del mattino. Mi fa sentire più viva di quanto non lo faccia il sole a mezzogiorno, anche se qui il sole si può vedere raramente. Le strade di sotto sono quasi deserte e il rumore delle poche auto che passano mi infastidisce. Quell’appunto appeso lì sulla libreria mi aiuta a ricordare cosa mi aspetta questa mattina. Ho una lezione alle nove, anche se devo ancora realizzarlo del tutto. Con molta fatica dopo qualche minuto riesco a farlo. Le vacanze sono finite. Non ho chiaramente alcuna intenzione di uscire di casa, ma devo farlo.

    Passo dal divano alla cucina, in cerca di qualcosa da mettere sotto i denti. Muoio dalla fame. Apro il frigo e ci trovo due uova e una lattina di birra. Apro subito la birra e inizio a berla; mentre rompo le uova e vedo il guscio infrangersi sul lato del piatto immagino che al loro posto ci sia la mia testa, con la differenza che dentro queste uova qui qualcosa c’è, nella mia testa non c’è proprio più niente - a maggior ragione dopo le ultime giornate che ho passato.

    Finito il mio lauto pasto, mi faccio una doccia gelata per riprendermi del tutto, e quasi ci riesco. Inutile ripetere che non ho la benché minima voglia di andare a lezione, il che è dovuto in parte al dopo sbronza che, andando avanti con gli anni, faccio sempre più fatica a superare, ma soprattutto al fatto che i miei pseudo-alunni non sono altro che un’accozzaglia di teste vuote e strafottenti e io a volte credo di detestarli. Amare il proprio lavoro dovrebbe essere una di quelle cose che aiuta a trascorrere la vita nel miglior modo possibile, ma la cosa non mi tocca. Veramente, di questi tempi non mi tocca proprio più niente. Non che quello che faccio mi ripugni, ma so che è perfettamente inutile. Ad ogni modo, mi infilo i primi jeans, la prima maglietta e le prime scarpe che trovo, prendo una giacca e esco di casa portandomi dietro qualche libro per la lezione di oggi.

    La signora Morgan del piano di sotto è una vecchia un po’ rincoglionita che a malapena mi sopporta dalla volta che ho vomitato sopra il suo zerbino, di quelle vecchie sole con un mucchio di gatti che girano per casa e appestano l’aria con la loro puzza di piscia. Comunque, la rispetto. Le passo a fianco mentre scendo le scale e, consapevole del fatto che sia sorda come una campana, le sorrido e faccio: «LE STANNO RUBANDO LA PENSIONE!» e lei mi risponde: «Arrivederci», mentre ritira velocemente la sua posta e si chiude dentro casa.

    Prendo il tram che si ferma a due minuti dalla scuola. Ogni volta che ci viaggio vedo sempre le stesse facce, e mentre percorro mezza città in mezzo alla pioggia mi piace immaginare la vita delle persone che mi stanno davanti. Ad esempio c’è la signora che porta a scuola il figlio, quello stronzetto con la maglia del City... O il vecchio signore che ogni giorno occupa sempre lo stesso posto a fianco all’uscita del tram, che legge il suo Manchester Evening News e ogni tanto guarda fuori come se stesse aspettando che salga qualcuno ma non sa chi. Io poggio la testa sullo schienale e chiudo gli occhi per concentrarmi meglio sul rumore della pioggia che batte sui finestrini al mio fianco, e mi chiedo se riuscirò a sopportare un altro lunghissimo giorno.

    Aileen

    Quando ho conosciuto Michael studiavo a Barcellona. Una mattina andavo a lezione, non usavo la metro perché era un periodo un po’ difficile quello, fra una minaccia di attentato da parte dell’ETA e l’altra, preferivo evitarlo. Sono sempre stata un po’ paranoica per certe cose. Mi piaceva camminare comunque, e i venti minuti che separavano casa mia nel centralissimo Eixample e la facoltà di Lettere sulla Gran Via non mi pesavano affatto. Mi piaceva percorrere quel tratto di Valencia e Pau Claris, sentire il profumo dei dolci che proveniva dalla pasticceria sotto casa, vedere i bambini che entravano a scuola e la gente che andava a lavoro in bicicletta, e sbucare in P. de Gracia, dove il traffico si faceva sempre più intenso, il centro di una città che non dormiva mai, attiva ad ogni ora, ogni giorno dell’anno. Mi manca, a volte. È un mondo così diverso da quello in cui vivo.

    Mentre camminavo verso la prima delle tre entrate dell’Università, vidi arrivare in quello stesso istante tre camion della polizia. C’erano già decine di poliziotti che bloccavano le tre entrate, e non appena ci arrivai e mi avvicinai a un gruppo di colleghi che stava lì ad aspettare, uno dei poliziotti in perfetta tenuta antisommossa ci disse: «Fareste meglio ad allontanarvi alla svelta.»

    La piazza di fronte era completamente invasa da studenti che, dopo mesi di occupazione degli edifici dell’Università, erano stati allontanati quella mattina. Non so come sia iniziata, ma di lì a pochi secondi mi ritrovai nel mezzo di quella che sembrava essere una guerra. Presi la decisione oltremodo idiota di attraversare la piazza per dirigermi alla Ronda Universitat, in modo da raggiungere velocemente Pl. Catalunya, luogo in cui credevo di essere al sicuro. Avevo fatto la scelta sbagliata, e intorno a me non vedevo altro che i poliziotti alzare i loro manganelli e gli studenti afferrare qualsiasi cosa trovassero, persino le sedie dei numerosi bar che si trovavano sulla piazza. Nel frattempo i negozi abbassavano le serrande, le persone che si trovavano per caso sul posto cercavano riparo negli androni dei palazzi. Avevo una paura terribile, non mi era mai capitato di trovarmi in mezzo a una situazione simile. Ad un certo punto sentii qualcuno urlare una frase in inglese e in pochi secondi vidi un poliziotto correre verso di me con l’intenzione evidente di colpirmi. Se avessi tentato di scappare, quella sarebbe stata sicuramente una specie di ammissione di colpevolezza, o qualcosa del genere. Non c’entravo nulla, ma ero semplicemente al posto sbagliato nel momento sbagliato. In ogni caso, la stessa persona che avevo poco prima sentito urlare in inglese mi aveva presa per il braccio e trascinata via da quel casino. Era Michael.

    Da quel giorno sono passati sei anni. Entrambi siamo tornati in Inghilterra e abbiamo continuato a vederci. Era il migliore amico che si potesse desiderare.

    Ora siedo nella sua casa di Macclesfield, insieme alla sua famiglia e a un mucchio di altre persone che gli volevano bene. Tutti adoravano Michael.

    Non c’è cosa peggiore che vedere qualcuno che ami soffrire. Quando la scorsa notte ho ricevuto la chiamata di sua sorella, quella chiamata che aspettavo da giorni, ho pianto. Ma questa mattina è stata la prima mattina in cui mi sono svegliata con un senso di pace, perché sapevo che lui aveva smesso

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