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...mi pare si chiamasse Mancini...
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Chi meglio di un figlio può raccontare la storia di suo padre? Soprattutto se il figlio ha vissuto accanto al padre le sue tante battaglie politiche, le vittorie, i trionfi, le giornate amare, gli attacchi, le aggressioni, oltre ai lutti e alle gioie familiari. Al professor Sabin, che con il suo vaccino antipolio salvò milioni di bambini, sembrò, come disse in un’intervista, che il ministro della Sanità dell’epoca, non narratore ma concreto -“Giacomo non fu tra i socialisti scrittori”, sottolinea Giuliano Amato-si chiamasse Giacomo Mancini(1916-2002) : governante efficiente, leader storico del socialismo italiano, politico “con la schiena dritta”, primo cittadino innovatore e moderno.

Il libro, introdotto da una brillante e godibile prefazione di Paolo Guzzanti-tra i giornalisti più noti e nei primi anni 70 protagonista de “Il Giornale di Calabria”, il primo quotidiano stampato nella regione- non è un monumento all’uomo infallibile, che ha commesso anche errori.

Ma è una carrellata di fatti, non pochi inediti, di tanti scontri politici, di vicende drammatiche, come la “strategia della tensione”, la rivolta di Reggio Calabria, la brutale sostituzione con De Martino al vertice del PSI, il processo kafkiano a Mancini. Da giornalista attento e ironico, Pietro Mancini consegna ai lettori e agli storici la vita, lunga e non facile ma vissuta con passione, fino alla morte, che lo sottrasse al suo ufficio-per Mancini il più gratificante, secondo l’amico Francesco Cossiga-di amatissimo e rimpianto Sindaco di Cosenza.

Secondo l’autore, Giacomo Mancini “ha dato alla politica e al Sud più di quanto abbia ricevuto”. Pietro Mancini concentra la sua analisi anche sui personaggi-big e comparse- della Calabria, della politica, del Sud, del giornalismo del dopo-Giacomo. Giudizi taglienti, con una narrazione tutt’altro che pesante, dalle quale emerge il rimpianto non solo per il padre, affettuoso pur se timido, come il figlio e il nonno, Pietro Mancini senior.

LanguageItaliano
Release dateNov 21, 2016
ISBN9788868224905
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    ...mi pare si chiamasse Mancini... - Pietro Mancini

    PIETRO MANCINI

    … mi pare

    si chiamasse

    Mancini …

    Proprietà letteraria riservata

    © by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy

    Edizione eBook 2016

    Isbn: 978-88-6822-490-5

    Via Camposano, 41 - 87100 Cosenza

    Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672

    Sito internet: www.pellegrinieditore.com - www.pellegrinilibri.it

    E-mail: info@pellegrinieditore.it

    I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

    "Canterò le mie canzoni per la strada

    ed affronterò la vita a muso duro,

    un guerriero senza patria e senza spada,

    con un piede nel passato

    e lo sguardo dritto e aperto nel futuro.

    E non so se avrò gli amici a farmi il coro

    o se avrò soltanto volti sconosciuti.

    Canterò le mie canzoni a tutti loro,

    e alla fine della strada

    potrò dire che i miei giorni li ho vissuti...."

    A muso duro, Pierangelo Bertoli (1942-2002)

    buon compleanno, caro giacomo!

    Da solo, e con Giacomo Mancini, ho partecipato a tante campagne elettorali. Le ricordo nel libro, che spero possa interessarvi.

    Mai ho trovata tanta disponibilità, riconoscenza, quasi che, nell’imminenza del centenario della sua nascita, tutti volessero ringraziare il Leone che, nel corso della sua lunga attività, ha dato, in primis alle istituzioni e alla politica, più di quanto abbia ricevuto.

    Palazzo Arnone, Cosenza: Convegno nel centenario della nascita di Mancini

    Il Vecchio Leone è stato sempre socialista, però mai dogmatico, ma inquieto, aperto alle novità, ricco di idee e di intuizioni, con un piede nel passato, importante, di suo nonno, Giacomo, a Porta Pia, nel 1870, con il Regio Esercito italiano, e di suo padre, Pietro. Ma, sempre, con lo sguardo diritto e aperto sul futuro.

    Nel 1900, secolo caratterizzato dalla presenza sulla scena politica di tanti dirigenti socialisti ma di pochi grandi Capi e statisti, Giacomo Mancini – socialista sino al midollo, come lo ha definito Franco Gerardi (1923-2014), a lungo direttore dell’«Avanti!» – si è conquistato il diritto di essere collocato tra i leader di primo piano della sinistra non comunista. Non lo afferma il figlio, ma lo dicono, come leggerete, molti autorevoli politici, suoi compagni e avversari, storici, giornalisti. E lo testimoniano le sue realizzazioni e i passi in avanti, che è riuscito, in diversi settori, a far compiere al Paese.

    Io, che ho avuto la fortuna di vivere accanto al Leone tante battaglie, ho focalizzato, da cronista, spero puntuale e non pesante, numerose vicende, vissute da questo socialista inquieto, sempre con la schiena dritta, lucido, razionale, ma anche coraggioso e animato da un’intensa passione.

    Un socialista, insomma, di pura razza del secolo scorso che, fino agli ultimi anni della sua esistenza, ha spronato i compagni e gli amici, dopo le pagine buie di Tangentopoli, «a riacquistare un posto nella storia italiana, a fa riemergere ideali, mai dimenticati, di cui nessuno può privarci».

    E un obiettivo del libro è quello di far uscire Mancini dai confini del Mezzogiorno e della Calabria, delineandone le non poche e significative presenze e i segni lasciati nel teatro della grande Politica, nazionale e internazionale. Una attività, quella di Giacomo, lunga e complessa, che si è conclusa con la fascia tricolore di primo cittadino di Cosenza. Come sostenne l’ex premier francese, Michel Rocard (1930-2016), come Mancini leader originale e fuori dagli schemi, a lungo Sindaco di Conflans-Sainte-Honorine, «esistono responsabilità più importanti di quelle di un Sindaco. Ma poche più direttamente umane».

    Il convegno, da noi organizzato il 21 aprile 2016, è stato un motivo di orgoglio per la nostra Fondazione che, in questi 10 anni, grazie al caro Antonio Landolfi (1930-2011), a Giacomo junior e a tanti giovani amici, è cresciuta.

    Tra i relatori, avremmo potuto avere il Capo dello Stato, se Giuliano Amato, come da tanti – e anche, si parva licet, da me – fosse stato eletto al Quirinale.

    Si registrano, ancora, resistenze alla restituzione di un ruolo politico, dignitoso, alla tradizione del riformismo, di matrice socialista, di cui Mancini è stato un originale rappresentante.

    Nel bel docu-film, realizzato dal regista Giuseppe Petitto (1969-2015), purtroppo scomparso, Giuliano Amato dice: «Giacomo ha già un posto di rilievo nella storia del Paese. Scegliendo il vaccino Sabin, da ministro della Sanità, salvò milioni di ragazzi dalla poliomielite!».

    Nell’appendice di questo libro, troverete il sentito ricordo di Francesco Cossiga (1928-2010): al governo del Paese, Mancini si dimostrò un genio della concretezza.

    Non narrò, ma ci ha lasciato quelli che lo storico francese Fernand Braudel (1902-1985) definì i documenti di pietra: strade, autostrada, ospedali, Università, aeroporto.

    Legami con il Sud e la Calabria. Mancini, ha detto bene Rino Formica – anche il suo ricordo è in appendice – scelse la strada più difficile: sfidò i potenti, senza staccarsi, mai, dalle sofferenze.

    Rapporti stretti con la città di Cosenza, di cui ho scritto. Nella sua città, gli amici del cuore, con Mauro Leporace (1915-2014) in Aeronautica, a Novi Ligure, con il calabrese Raf Vallone (1916-2002) studente di legge, a Torino, che amava molto. Un legame saldo, che ho inteso sottolineare, con il convegno, riuscito, nella amata Città europea. E anche con la pubblicazione del libro con un editore, Luigi Pellegrini, legato a mio padre da un antico rapporto di stima e affetto. E il cui figlio, l’amico Walter, attuale titolare, ha seguito il mio lavoro con scrupolo, grande attenzione e sensibilità.

    Lo ringrazio, insieme al suo prezioso collaboratore, Mimmo De Luca. Preziosi l’aiuto e i consigli di mia moglie, Gemma Altimari, soprattutto nella ricerca e nella selezione delle immagini della antica e stimata famiglia Mancini di Cosenza, come la definiva il Leone.

    Errori? Ne ha fatti, certo, Mancini.

    Ma lo attaccarono perché voleva le industrie in Calabria, parlarono di industrie nel deserto.

    Si vive meglio, oggi, con la Calabria, che è un deserto senza industrie?

    Lanciò, inascoltato, allarmi sulla crisi dei partiti e sulla degenerazione della politica.

    Concludo, auspicando che, anche grazie al mio volume e ad altre iniziative, si approfondiscano meglio, e di più, le idee, le intuizioni, l’attività di Mancini. Lo notate anche voi: su Giacomo, rimpianto dal popolo, c’è il silenzio dei Palazzi.

    Il modo convincente di onorare la memoria di questo Gigante della politica del 1900 è lavorare, ognuno nel proprio ruolo, per costruire una sinistra moderna, riformista, concreta, libera dalle scorie nocive del giustizialismo e del massimalismo.

    Mi piace condividere, soprattutto con i tanti che sono ancora molto legati al suo ricordo, la memoria, incancellabile, del suo sorriso dolce, con lo sguardo da miope, ma proiettato verso il futuro.

    E nutrire la speranza che un Mezzogiorno e una Calabria, più moderne e proiettate verso il futuro, non dimentichino, ma si ispirino a uno dei suoi figli migliori.

    Pietro Mancini

    Lo chiamavano zio Giacomo

    Ma non, come avvenne, nel periodo di Mancini potente, riverito e temuto, in Calabria come a Roma, quando spuntarono tanti nipoti del ministro socialista, i quali postulavano assunzioni o promozioni, nelle banche, alla Rai, in prestigiosi studi legali, portando i saluti dell’illustre, presunto, caro zio.

    No, Alfredo Leonetti (1948-2003) e Giusi Santoro (1947-2004) si rivolgevano a mio padre, chiamandolo zio, perché legati, il primo, da parentela, il secondo, da grande affetto e stima.

    Ginevra Mancini-Leonetti e il piccolo Duccio Leonetti.

    Ho deciso di cominciare questo racconto, dal vivo, di Giacomo Mancini da loro, da Alfredo, che noi cugini chiamavamo Duccio, e da Giusi che, purtroppo, essendo scomparsi qualche anno fa, non hanno potuto essere presenti, il 21 aprile del 2016, alla riuscita e affollata celebrazione, a Cosenza, del centenario della nascita dello statista del fare, che ancora vive nella mente, e nel cuore, di tanti calabresi e di tanti italiani, illustri e sconosciuti.

    Hanno voluto bene a mio padre e a me, Duccio e Giusi. A loro sono legati tanti ricordi della mia infanzia e della mia giovinezza.

    A casa di Duccio, che era il figlio dell’avvocato Ugo Leonetti (1922-2005) e di Ginevra (1922-2005), una delle quattro, amate sorelle di Giacomo, poco più che bambino, una sera, sbattei l’anca contro lo spigolo di un mobile. Fu l’inizio di un lungo periodo di preoccupazione dei miei genitori per una malattia, che i medici di Cosenza non riuscirono a debellare.

    Fortunatamente, mio nonno materno, il generale dei Carabinieri Federico Gabriele (1899-1975), comandava la Legione di Livorno e disse a Tilde (1922-1959), la mia bellissima e sfortunata mamma, che conosceva, bene, un illustre medico, il prof. Oscar Scaglietti (1906-1993), all’epoca uno dei più eminenti ortopedici italiani. E così fui visitato e operato, a Firenze, da Scaglietti, che mi congedò, dall’ospedale, guarito, con un ricordino: il gesso, che avevo dovuto portare per lunghi, dolorosi mesi e che, subito, preso per mano da mia mamma, sorridente, buttai da uno dei ponti fiorentini sul fiume Arno.

    Federico Gabriele, Generale dei CC.

    Nonno Federico con Pietruccio.

    Pietro e Giosi Mancini.

    Politica e vita privata, sempre, intrecciate nella mia famiglia. Qualcuno ha definito i Mancini i Kennedy di Calabria: tanti successi ma anche sconfitte, amarezze e lutti. E, nella lunga attività politica di Pietro e Giacomo Mancini, e dopo di lui di chi scrive e di Giacomo junior, l’aspirazione, che è stata di Ted Kennedy (1932-2009), a tenere accese le idee e la politica dei suoi due fratelli uccisi, John (1917-1963) e Robert (1925-1968), senza diventare solo i testimoni di un rimpianto passato. Ma riuscendo ad alimentare idee nuove e coraggiose.

    Insomma, sforzandoci di leggere i fenomeni e le novità – e mio padre vi riuscì, in anticipo – senza rinunciare all’impegno a cambiare le cose, a rinnovare la politica, il Sud, il Paese.

    Come quelle dei Kennedy – i grandi ritratti dei 3 fratelli, giovani e sorridenti, riempiono una parete del mio studio, a Cosenza, accanto a quelli di mio nonno e di mio padre – furono tante le sfide coraggiose, lanciate da Giacomo Mancini, caratterizzate da un intreccio fruttuoso tra idealità e pragmatismo.

    Mio padre e mia madre si incontrarono grazie alla conoscenza e alla stima reciproca tra Pietro Mancini e Cesare Gabriele (1889-1976), zio di Tilde, avvocato e, per il Pli, sottosegretario alle Finanze nell’ultimo governo del socialista Ivanoe Bonomi (1873-1951). I miei genitori si sposarono il 15 gennaio del 1949.

    Giacomo Mancini e Tilde Gabriele nel giorno del loro matrimonio.

    A Duccio e al fratello, Arrigo, che è più vecchio di me, solo di un anno, è legato un altro episodio, triste, della mia infanzia.

    San Lucido (Cs): Pietro e Giosi con i genitori.

    A 7 anni e mezzo, nella mia sino ad allora serena esistenza, vissuta nella casa dei miei nonni, Pietro Mancini (1876-1968) e Giuseppina de Matera (1890-1980), si affacciò la triste signora, che 2 giorni dopo il Natale più brutto della mia vita, quello del 1959, si portò via, a soli 37 anni, mia madre. E zio Ugo, in una mattinata plumbea e piovosa, venne a prendermi nell’abitazione di via del Liceo, portandomi a casa sua, in via dei Martiri, nel popolare quartiere della Massa, dove si trovava il Mulino.

    Pietro con i genitori all’Aria Rossa

    Pietro con la mamma.

    E, nelle conversazioni di bambini, soprattutto in quelle con Arrigo, ricordo che, pur non essendo entrambi consapevoli del senso tragico della morte, entrò il distacco da Tilde «strappata alla vita a solo 37 primavere», come annunciò, in un breve e commosso ricordo, distribuito a parenti ed amici, mio nonno, Pietro, che definì Tilde Gabriele «un’angelica creatura nella vita di sposa, di madre, di donna». E aggiunse, commosso:

    Tilde – la nostra Tilde – è passata dalla vita, che le sorrideva, accanto al marito e negli occhi promettenti dei due figlioletti, Pietruccio e Giosettina, nel ricordo e nel compianto; un ricordo, che si esaspera contro la sorte malvagia, e un compianto, che non si addolcisce nemmeno nella memoria felice delle sue rare virtù.

    E come cercò di spiegarmi mio padre, che mi parlò, nello studio di via Liceo, con le librerie stracolme di volumi di diritto e procedura penale e delle tante arringhe di uno dei più illustri avvocati italiani. Adesso quei libri, per volontà di mio nonno, sono custoditi nella mia abitazione di Cosenza.

    Una perdita, quella di mia madre, che ha pesato, molto, nella mia vita.

    Non è un mistero che, una volta trasferitomi, per decisione di mio padre, a Roma, non sia riuscito affatto a legare, per usare un eufemismo, con donna Vittoria Vocaturo (1919-2009) – prima compagna e poi seconda moglie del deputato cosentino – che non mi ha mai amato, privilegiando, negli affetti, i suoi tre figli, nati durante il primo matrimonio.

    Giacomo Mancini nella biblioteca paterna.

    Con Duccio, Arrigo e gli altri miei cugini, che vedo ormai di rado, ho condiviso un nonno importante che, nel suo testamento, si rivolse a me, il suo nipote preferito, chiamandomi, con dolcezza, «Pietruccio».

    Il padre di mio nonno, Giacomo I, fu un bersagliere «biondo e bellissimo», che varcò, nel 1870, la breccia di Porta Pia. Era un contadino di Malito, diventò socialista, convincendo i suoi a pagare le raccoglitrici di castagne con la metà e non più un terzo del raccolto, fece 13 figli.

    Nato, nel 1876, a Malito, nella Valle del Savuto, Pietro, dopo essersi laureato in filosofia, con Arturo Labriola, insegnò nel liceo classico «Bernardino Telesio» di Cosenza, e fu un grande penalista. Pietro – lo stesso nome di chi scrive e del bel bimbo di mio figlio, Giacomo, nato nel 2004, e di donna Michela Felicetti – fu, nel 1921, il primo deputato socialista della Calabria.

    Alla Camera, mio nonno pronunciò una durissima requisitoria sui torti dello Stato verso la Calabria (e sui misfatti di un carabiniere, che taglieggiava i paesani, chiedendo «galli, capretti, uova, verdura, frutta e tutto il mangiabile») e un ricordo funebre di Vladimir Lenin (1870-1924). Poi, chiuso il Parlamento, venne mandato al confino.

    «Pericoloso nei riflessi dell’ordine pubblico» definì «don Pietro» – come lo chiamavano, con affetto, i compagni più giovani – una relazione di polizia, in quanto «oratore spigliato ed arguto», che riusciva, «nei pubblici comizi, a conquistare le masse» (Roma, Arch. centr. dello Stato, Casellario politico centrale, b. 2974, f. Mancini Pietro, scheda biografica).

    Inevitabilmente, Mancini, durante il periodo della dittatura, divenne oggetto delle aggressioni squadriste che, anche in Calabria, cominciarono a moltiplicarsi, nel corso del 1922.

    L’episodio più grave si verificò, il 23 ottobre, quando, in viaggio sul treno Catanzaro-Cosenza, il deputato socialista venne assalito e insultato da una squadra fascista che, dopo aver cercato di scacciarlo dal treno, dovette desistere per la ferma resistenza di Mancini e per l’intervento di alcuni passeggeri e ferrovieri.

    Nel medesimo clima di paura e di intimidazione, si svolse la campagna elettorale del 1924: «uno scomposto movimento – denunciò Mancini – che si gabella come lotta elettorale» («Avanti!», 4 apr. 1924). Nonostante ciò, i socialisti conservarono i due seggi e mio nonno fu confermato deputato.

    Dopo il feroce delitto di Giacomo Matteotti (1885-1924), di cui Mancini era amico, il deputato calabrese si oppose alla secessione dell’Aventino: contestava la presenza del PSI in una formazione troppo eterogenea, sul piano politico, e proponeva, invece, un’intesa di soli partiti proletari, in particolar modo con il PCd’I.

    Nel corso del 1925, Mancini accentuò il proprio dissenso nei confronti della linea del partito e, stando anche a una relazione di polizia, progettò la fondazione di un nuovo giornale a sostegno delle proprie posizioni (Roma, Arch. centr. dello Stato, Casellario politico centrale, b. 2974, f. Mancini Pietro, relaz. dell’8 sett. 1926).

    Ma la sospensione, decisa nel 1926 da Benito Mussolini (1883-1945), delle libertà politiche, pose fine a questa esperienza e aprì una fase del tutto nuova.

    Dichiarato decaduto da deputato, Mancini fu assegnato al confino a Nuoro.

    Dopo aver ottenuto la libertà condizionata, tornò a Cosenza, dove, nonostante la vigilanza e le formali diffide, si mantenne in contatto con i vecchi compagni di partito e si astenne dal voto al Plebiscito del 1929.

    Suscitò, così, la preoccupata attenzione delle autorità locali che, reputandolo un non lieve pericolo per una più seria e concreta azione antinazionale, ne suggerirono il rinvio al confino (ibid., relaz. del 16 apr. 1929).

    Nuovamente condannato, fu mandato a Gaeta.

    Scontata la pena, negli anni Trenta, si dedicò alla professione di avvocato, astenendosi, almeno pubblicamente, dallo svolgere attività politiche e di propaganda. Conservò, comunque, intatta la sua antica fede politica, tanto che nel giugno del 1943 una relazione della polizia evidenziava come il Mancini dovesse ancora considerarsi elemento pericoloso, a cagione della sua elevata cultura e dei suoi sfavorevoli precedenti (ibid., relaz. del 29 giugno 1943).

    Infatti, non appena cadde il fascismo, Pietro Mancini fu uno dei protagonisti della ricostituzione del partito socialista in Calabria; si mise in contatto con i leader nazionali, soprattutto con Pietro Nenni (1891-1980), e si adoperò per la riapertura di circoli e sezioni.

    Il 7 novembre del 1943, all’arrivo degli Alleati, e per indicazione del Comitato antifascista, fu nominato prefetto di Cosenza.

    Gli incarichi pubblici si moltiplicarono rapidamente. Fu, infatti, designato ministro senza portafoglio nel secondo governo Badoglio (22 aprile-18 giugno 1944); poi fu chiamato, a Roma, come ministro dei Lavori pubblici nel governo Bonomi (18 giugno-12 dicembre 1944) e venne eletto vicepresidente della Consulta nazionale.

    Infine, nel 1946, si candidò nelle file del Partito socialista di unità proletaria (PSIUP) per l’Assemblea costituente e riuscì eletto, con un alto numero di preferenze.

    Fece parte della Commissione dei 75, che formularono lo schema della Costituzione, lavorando nella prima sottocommissione.

    Senatore di diritto, nella prima legislatura repubblicana, durante la quale fu membro sia della giunta per il regolamento sia della VII commissione (Lavori pubblici e Trasporti), rinunciò al seggio nel 1953, essendosi candidato alla Camera il figlio Giacomo, eletto deputato nel 1948, per la prima delle sue 10 legislature.

    Alla vigilia del 18 aprile del 1948, il senatore Mancini stava facendo a Vibo Valentia uno di quei comizi in cui, come raccontava mio padre, «partiva da Honoré de Balzac (1799-1850) per arrivare alla Terza Internazionale».

    Mentre parlava, passò un frate, con processione salmodiante di disturbo. Cosa disse mio nonno, non si sa. Ma «Parola di Vita» , il giornale diocesano, scrisse che il vecchio Mancini, alla vista del pio corteo, avrebbe bestemmiato contro il Papa e i preti, al punto che il buon Dio, da lassù, l’avrebbe fatto secco.

    Una bugia, che venne diffusa, il giorno dopo, dal vescovo di Crotone, che commemorò il presunto morto, additando la sua fine ad «esempio per tutti i rossi». Finché, da Reggio, dove erano apparsi manifesti, che ridimensionavano la cosa, dicendo che comunque il peccatore era stato colpito da paralisi e perdita della parola, partì un telegramma, che diceva: «Venga senza meno. Stop. Urgentissimo smentire punizione celeste».

    Ritiratosi dalla politica attiva, e la rinuncia gli pesò, Pietro Mancini mantenne alte cariche all’interno degli organi forensi, in qualità di rappresentante della Calabria nell’Ordine superiore forense e Presidente della Cassa di previdenza per avvocati e procuratori; nel 1964, fu nominato giudice costituzionale aggiunto.

    4-2-49

    Ai carissimi compagni socialisti per ricordarmi come li ricordo io e per tenermi presente anche quando non sarò più tra di loro. Il Partito fu sempre la mia Casa ed i compagni sempre i miei fratelli. Viva il Socialismo!

    Pietro Mancini

    A causa della perdita della vista, in conseguenza della malattia, contratta nei confini fascisti, mio nonno mi chiese, negli ultimi anni della sua vita, di leggergli, ad alta voce, le pagine dell’«Avanti !», diretto da Pietro Nenni, ritratto in una bella e commovente foto, che ho portato nel mio studio, mentre stringe, sorridente, le mani del suo vecchio e caro compagno in tante battaglie, nel Parlamento e nel Paese.

    Quattordici anni di differenza di età non furono di nessun ostacolo alla scelta di Pietro Mancini di sposare Giuseppina de Matera, secondogenita di Arrigo de Matera e Ginevra Vercillo. Quella di nonna Giuseppina era una delle più antiche famiglie di Cosenza, apparteneva alla nobiltà cittadina, che prevedeva, per le figlie femmine, la rinuncia al patrimonio a favore dei figli maschi. Giuseppina, «Peppinella», come la chiamavano il marito e i familiari, seguì la tradizione, donando tutte le cospicue proprietà a suo fratello, Luigi, avvocato.

    Giuseppina de Matera-Mancini.

    Mia nonna, in un’epoca molto più difficile di quella attuale, fu una donna orgogliosa e dignitosa. E amorevole con i 5 figli, che assistette, quando Pietro Mancini, fondatore del Partito socialista in Calabria, fu spedito al confino dallo spietato dittatore fascista, Mussolini.

    Mio padre era molto legato alla cara mamma. La chiamava, anche quando i molti impegni politici lo tenevano lontano dalla casa di via del Liceo. E io ero il suo nipote prediletto. Nonna Giuseppina, severa ma affettuosa, provvide alla mia educazione, dopo che, a soli 7 anni, persi mia mamma, come ho raccontato, che era una delle più belle donne di Cosenza. Penso spesso, con affetto, ai miei nonni e a mia madre, che mi mancano.

    1974, Referendum sul divorzio. Giacomo Mancini con la madre davant al seggio n. 1, nel vecchio Liceo di Cosenza.

    «Andiamo velocemente indietro, nella macchina del tempo a quell’aprile del 1916 – ha detto il giornalista Paride Leporace, a Cosenza, esattamente, 100 anni dopo – nel pieno della prima guerra mondiale, quando il figlio di Pietro Mancini e di Giuseppina de Matera nasce in una Cosenza ben diversa da oggi. Con dei ceti popolari, che lottano per il salario e che ha l’attenzione di una borghesia, che sta dalla parte degli umili e degli oppressi.

    Aria Rossa. Giacomo Mancini adolescente con i genitori.

    Sicuramente, ce ne dà luce chi è stato suo biografo, non si può prescindere da Giacomo, senza ricordare la figura del padre. Lo immagino questo ragazzino quando, nel 1922, all’indomani del delitto Matteotti, apprende che bande fasciste, in un treno, a Catanzaro, lo hanno aggredito. Sono stati respinti e così vivrà a fianco di un padre confinato, perseguitato, che è un punto di riferimento nazionale per quello che accade tra Calabria e Basilicata. Giacomo ha avuto molto anche dalla mamma. Una educatrice di primo ordine e nei suoi ricordi sappiamo che i ragazzi di questa famiglia sentivano questa signora cantare e insegnare la Marsigliese ai bambini, che possono abbeverarsi, da un padre di grande intellettualità, dai libri, che sono memoria storica, che sono arrivati fino a noi nella sua casa, di fronte al Liceo, quel liceo dove studierà per poi, anche per le vicende di quel periodo, trasferirsi a Torino, dove andrà a studiare diritto e che formerà molto questo avvocato del Sud, come lui si definirà, in un momento, molto particolare, della sua vita personale e politica».

    Giacomo Mancini a Novi Ligure: indossa la divisa di tenente dell’Aeronautica presso l’aeroporto militare.

    Dall’unione dei miei nonni nacquero 5 figli, 4 femmine e un maschio: Teresa, detta Ninì, Franca e Giacomo, nella casa di Largo Vergini, accanto alla Camera del Lavoro, incendiata dai fascisti, nel 1923.

    Giuseppina de Matera con i figli: Giacomo, Ninì, Franca e Ginevra.

    In seguito, venne costruito, in via del Liceo, all’interno del prestigioso Palazzo de Matera, l’appartamento dove nacquero Ginevra e Anna, detta Pupà, l’ultima figlia che, rimasta vedova, ritornò ad accudire i genitori, oltre che me e mia sorella, Giosi, dopo la morte di nostra madre.

    Mio nonno morì a Cosenza il 18 febbraio 1968 e fu salutato da un’immensa folla, che ascoltò, nella piazza del vecchio Tribunale, l’orazione funebre, pronunciata da Francesco De Martino (1907-2002), allora vicepresidente del Consiglio dei ministri.

    Cosenza, 20 febbraio 1968: Francesco De Martino commemora Pietro Mancini.

    Mio padre amava raccontarmi le vicende della sua famiglia e i rapporti con suo padre, che non sono stati facili, come quelli tra me e lui.

    Giacomo con la mamma e la moglie Vittoria commossi ai funerali di Pietro Mancini.

    Gli faceva piacere ricordare il dono, un’agenda di cuoio rosso, che il sindacato dei postelegrafonici aveva fatto al suo presidente, Pietro Mancini, nel 1921, per la sua prima elezione a deputato. Sulla porta del sindacato c’era una scritta, che ha resistito, per molti anni, durante la fase buia della dittatura di Mussolini. Viva Pitruzzo d’a pinna russa!, si leggeva nella scritta, che si riferiva all’appartenenza di Mancini al partito dei rossi, dei socialisti, nel cui distintivo c’era, appunto, la pinna russa.

    Rispetto allo scrivente, che perse nell’infanzia sua mamma, quella di sua madre, per il figlio, Giacomo, è stata una presenza forte, affettuosa, costante, un punto di riferimento centrale, nelle gioie e nelle tempeste, come lo era stata per suo marito. Mio padre sottolineava il coraggio di

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