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Il commissario Richard. Quattro inchieste
Il commissario Richard. Quattro inchieste
Il commissario Richard. Quattro inchieste
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Il commissario Richard. Quattro inchieste

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Per Andrea Camilleri, suo estimatore, Ezio D’Errico è un artista “dotato di una genialità rinascimentale”. E certamente unico, più volte imitato, è il suo indimenticabile commissario Richard, che con De Vincenzi è tra i personaggi più originali della storia del giallo italiano (e anche dei “mitici” gialli Mondadori). In questo libro sono raccolte quattro indagini del Commissario nato dalla penna di D'Errico: Qualcuno ha bussato alla porta, Il fatto di Via delle Argonne, L'uomo dagli occhi malinconici e La famiglia Morel. Introduzione di Loris Rambelli.
LanguageItaliano
Release dateNov 12, 2016
ISBN9788893040648
Il commissario Richard. Quattro inchieste

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    Il commissario Richard. Quattro inchieste - Ezio D'Errico

    2016

    QUALCUNO HA BUSSATO ALLA PORTA

    Finestra su Parigi

    di Loris Rambelli

    Ho fatto tre volte il giro del Palazzo della Prefettura al Quai des Orfèvres per cercare la finestra del secondo piano da cui il commissario Émile Richard, stando seduto alla scrivania del suo ufficio, vedeva le chiome degli alberi sottostanti e uno spicchio della torre di destra di Notre-Dame, e udiva le sirene dei battelli in transito sulla Senna in prossimità del Pont Neuf... Non sono affatto sicuro di averla individuata. Forse non è neanche mai esistita. Potrebbe essere benissimo una licenza poetica: una specie di schermo, attraversato da voli di rondini, percorso da cirri bianchi o nembi neri, su cui si proietta tutta la città, con i suoi suoni, odori e colori, variazioni di cieli nel susseguirsi delle stagioni, come in un quadro di Chagall, in cui anche le dimensioni del tempo oltre a quelle dello spazio possono confondersi con la naturale incongruenza dei sogni.

    Nel cimitero parigino di Père Lachaise ho visto però la tomba di Émile Richard. Dico davvero!

    Émile Richard era un personaggio storico, vissuto nella seconda metà dell’Ottocento, presidente del Consiglio municipale de la Ville de Paris, scrittore politico. Ha lasciato eredità di affetti alla moglie e ai numerosi figli... Chissà che D’Errico (che nei primi anni Trenta è vissuto per un certo periodo a Parigi, faceva il pittore, ha fatto anche la fame, e poi ha sempre detto che quelli erano stati i giorni migliori della sua vita)¹ non abbia visto anche lui la lapide, passeggiando per quel cimitero che in realtà è un immenso parco, e preso di lì il nome del suo personaggio.

    O forse si sarà ricordato che già nei primi romanzi in cui compare Maigret, come La casa dell'inquietudine, ancora firmato Georges Sim, si dice che il commissario abitava lungo il boulevard Richard-Lenoir. Infatti Simenon è lo scrittore che D’Errico ha scelto espressamente come modello per i suoi romanzi gialli.

    Simenon italiano è espressione giornalistica e generica, si potrebbe dire di chiunque. Negli anni Cinquanta è stata riferita a Franco Enna, che ha poco di simenoniano, e, negli anni Settanta, a Renato Olivieri, che invece ha molto di simenoniano. Ma Ezio D’Errico può vantare, se non altro, un diritto di priorità, visto che, nella seconda metà degli anni Trenta, ha continuato a modo suo le inchieste poliziesche di Simenon, quando Maigret era temporaneamente scomparso dalla scena letteraria, e Richard andava così ad occuparne il posto lasciato vacante. Basta il riscontro delle date. Nel 1934 Simenon manda in pensione il suo commissario; lo richiamerà in servizio circa dieci anni dopo, nel 1942. Ebbene, D’Errico dal 1936 al 1941, con un ritmo di produzione che ricorda quello stacanovista di Simenon, scrive i suoi venti romanzi polizieschi che non furono mai ristampati finché lo scrittore fu in vita (1892-1972). La prima avventura, Qualcuno ha bussato alla porta, è ambientata in una Parigi invernale: pioggia, vento, nebbia, neve, fanghiglia, «neve sporca» per dirla con Simenon. Una metropoli di quattro milioni di abitanti. Come Londra ai tempi di Sherlock Holmes.

    Alcune delle cose che sono state dette di Simenon si attagliano a D’Errico e alcune delle cose che si sono dette di Maigret si adattano altrettanto bene al commissario Richard.

    Per esempio, Simenon in una delle sue tante interviste ha detto: «Maigret è un commissario di polizia che fa il suo mestiere, il poliziotto, ma il suo mestiere non è la sua passione: la sua passione vera è quella di capire gli uomini». È esattamente il caso di Richard. E un’altra volta Simenon ha affermato che, se non avesse fatto il romanziere gli sarebbe piaciuto fare il pittore, uno di quei pittori fiamminghi che passano ore e ore su un particolare dei loro dipinti. D’Errico (che era anche pittore) in una lettera a Mondadori scrive: «Sì, è vero i miei romanzi polizieschi potrebbero essere più analitici. Ma io concepisco un romanzo come un quadro, creare atmosfere e ambienti pennellata dopo pennellata».

    Il commissario Richard, classe 1870, legato in modo indissolubile a Parigi dalla stessa pesante catena che lo tiene avvinto al duro mestiere, appartiene «a una generazione scomparsa di poliziotti pittoreschi come la Montmartre di Toulouse-Lautrec».

    Corpo di piccolo pachiderma, che un po’ ricorda il Nero Wolfe di Rex Stout (1934) o il Gideon Fell di John Dickson Carr (1935), cappelluccio a fungo sulla testa calva, sopracciglia cespugliose, occhi grifagni, volto accuratamente sbarbato, faccione da Budda solcato da rughe, cui fanno da turibolo il portacenere stracolmo di mozziconi di sigarette fumanti sulla sua scrivania oppure il piatto di zuppa con le spirali di vapore nella camera da pranzo di casa sua. Dobbiamo immaginarlo sempre con la giacca, nera, che si toglie soltanto in casi eccezionali: ritiene che mettersi in maniche di camicia, come del resto andare in giro a capo scoperto, sia un «obbrobrioso malvezzo americano».

    Richard che si asciuga il sudore sul testone calvo con uno di quegli enormi fazzoletti che portano all’angolo il monogramma floreale ricamato a punto croce dalla sorella Geneviève, si trova immediatamente a suo agio fra la gente di umile condizione sociale, fraternizza subito con carrettieri, lavandaie, portinaie, contadini, ubriachi, ma anche furfanti, con la gente dei sobborghi parigini, «dove era nato e con la quale da quarant’anni si azzuffava, amandola quanto più la combatteva, come il contadino ama la terra contro cui si accanisce a colpi di vanga».

    Il commissario in pantofole, colto nell’interno borghese del suo appartamento in rue Saint Augustin, dove divide con la sorella «agi e disagi di un doppio celibato», è molto diverso dal poliziotto in azione, ma ci sono momenti in cui i colleghi possono permettersi di dargli una pacca sulle spalle e con una manata fargli scendere il cappelluccio fino alle orecchie e farsi pagare, per di più, l’aperitivo: sono i giorni in cui il nipote, tenente di vascello, ritorna a Parigi in licenza e va a trovare gli zii, che stravedono per lui. E allora, in compagnia del nipote, emerge tutto ciò che di fanciullesco c’è ancora nel vecchio Richard («Oh, naturalmente diremo alla zia che oggi ne abbiamo combinate di tutti colori, intesi?»). Emerge il Richard popolaresco che si diverte alle fiere, alle sagre paesane, che ride alle buffonate dei pagliacci del circo.

    La pazienza, anzi «la cocciutaggine del pescatore alla lenza», è la sua principale virtù. Perché «prima o poi, presto o tardi, tutti finiscono dal vecchio Richard, che aspetta...che sta tutto il giorno rintanato fra le sue scartoffie, come fanno i vecchi investigatori francesi, invece di girare come Sherlock Holmes, armato di una lente gigantesca».

    I. 27, Rue Lepic

    Quando madame Rose Petigaux sentì battere ai vetri del suo stambugio, aveva appena ritirato la zuppa di cavoli dal fuoco. Allungò uno scappellotto al piccolo Marius che si ostinava a voler stanare col manico della scopa il gatto rifugiatosi sotto la credenza e andò ad aprire.

    «Entri, entri pure...»

    L'uomo ebbe un attimo di esitazione, poi rendendosi conto della corrente d'aria gelata che s'infilava nella portineria, entrò. Aveva le mani nelle tasche di un impermeabile piuttosto unto, e in capo un feltro con la tesa spiovente sugli occhi. Era un individuo di media statura, magro, con una rada barbetta nera.

    Prima che aprisse bocca, madame Rose, che aveva l'occhio clinico, esclamò:

    «È per lo studio del sesto piano? La avverto che sono trecentocinquanta franchi anticipati e che l'acqua corrente è sul pianerottolo.»

    Sperava che l'altro se ne andasse e aveva già messo in tavola la zuppiera mentre i tre ragazzi prendevano posto sulle sedie, quando l'individuo disse:

    «Si può vedere?»

    La portinaia restò un momento incerta.

    «A quest'ora?»

    «Il fatto è... vede... se lo studio mi va, domani porterei la mia roba... ho un lavoro urgente da fare.»

    Madame Rose fece una smorfia ironica. Sapeva che cosa pensare di quei pretesti... il solito pittore sfrattato che cerca di piantare un altro chiodo. Tuttavia, come un vecchio soldato disposto a fare il suo dovere anche quando è convinto che non servirà a nulla, si buttò sulle spalle uno scialletto di lana, staccò la chiave da un gancio scegliendola fra le molte che vi erano appese e dopo una generica raccomandazione ai ragazzi di non toccare la minestra, pena una tempesta di scapaccioni, aprì la porta vetrata e incominciò ad arrampicarsi per il budello delle scale ansimando e soffiando ad ogni pianerottolo.

    Il pittore la seguiva sempre, con le mani nelle tasche del suo impermeabile striminzito, senza dire nulla.

    Quando furono arrivati alle soffitte, la donna aprì una porta, girò la chiavetta della luce e mostrò il locale che era squallido e freddo come una prigione, recitando con voce da grammofono la litania che chissà quante volte aveva ripetuto:

    «Esposizione a nordest, molta luce, possibilità di mettere una stufa in quell'angolo, l'acqua è nel corridoio e serve a tre inquilini, ma è a volontà.» Poi, calcando sulle parole, aggiunse: «Trecentocinquanta franchi anticipati, nessuna riduzione possibile... l'amministrazione ha già rifiutato due pittori prima di lei, perché avevano offerto trecento.»

    L'uomo girò lo sguardo per la spelonca e si limitò a dire:

    «Sta bene, possiamo andare.»

    La portinaia, incerta sul significato della frase, domandò ancora: «Non le piace?»

    «Ho detto che sta bene» ribatté l'uomo con voce leggermente alterata. «Non vorrà che versi il denaro qui dove si gela...»

    «Oh, non dicevo per questo, scendiamo, scendiamo... è stato solo perché mi era sembrato che lo studio non la interessasse... in quanto al freddo, si capisce, è sfitto da tre mesi... ma appena lei avrà messo la sua brava stufa, c'è da stare come un re... glielo dico io... e poi, in confidenza, le dirò che non ci sono concorrenti... lei è l'unico artista del palazzo... eh... no... dico questo perché abito a Montmartre da venticinque anni e so cosa vuol dire due artisti vicini...»

    Giunti al pianterreno rientrarono nella cucinetta calda dove i ragazzi aspettavano con aria compunta attorno al desco. Madame Rose si assicurò con un'occhiata che non avessero toccato nulla, ma non le sfuggì che il piccolo Marius aveva la bocca piena di pane e cercava di ingozzare il boccone girando la testa da un lato. Lo minacciò con la mano borbottando: «Birbante!» poi volgendosi al nuovo inquilino mormorò: «Scusi... sa, i ragazzi...»

    Da un cassetto pieno di gomitoli di spago, stracci, pezzetti di ceralacca e altre scarabattole, tirò fuori un boccettino d'inchiostro, e una penna che provò sull'unghia del pollice. In fondo a un altro cassetto, dopo molto rovistare, pescò il modulo prescritto dalla prefettura e sollevando un lembo della tovaglia mise questi oggetti sulla tavola.

    «Vuole riempire il modulo? È meglio farlo subito perché la polizia è talmente esigente...»

    L'uomo cavò le mani di tasca, prese la penna, ma aveva il dito indice della destra fasciato e provò difficoltà a scrivere. Dopo avere scritto le cifre della data, brontolò fra i denti qualche cosa contro i rasoi di sicurezza, poi volgendosi alla donna disse: «Vuole farmi il piacere di scrivere lei?, Mi sono tagliato proprio questa mattina.»

    Madame Rose inforcò gli occhiali e scrisse sotto dettatura: Charles Boyer del fu Gustave e della fu Clara Martin. Pittore. Luogo di provenienza Parigi, boulevard Raspail 164.

    Dopo ciò l'uomo tirò fuori da un portafogli consunto trecentocinquanta franchi, ai quali aggiunse due monete da cinque franchi borbottando: «Per le caramelle ai ragazzi.»

    Madame Rose che già si pentiva di averlo accolto piuttosto freddamente, si affrettò a rilasciare una ricevuta provvisoria, e intanto credette opportuno aggiungere che per qualunque piccolo servizio allo studio, lei sarebbe stata lieta di prestarsi: «Un po' di pulizia, sa... anche per la stufa c'è qui vicino un carbonaio che fa dei buoni prezzi e manda il combustibile fino in casa. In quanto al contratto, potrà andarlo a firmare con suo comodo dal signor Duchatel, rue de Miromesnil cinquantadue.»

    L'uomo si limitò a chiedere: «Domani mattina posso portare la mia roba?»

    «Certo... certo... dalle sette in poi il portone è aperto, intanto eccole la chiave... suppongo che non verrà a dormire subito domani?»

    «No... domani porterò solo il cavalletto, qualche sedia, i colori... le ho già detto che devo incominciare un lavoro d'urgenza... poi metterò la stufa, un letto e tutto il resto».

    «Ecco... ecco... ben detto... prima il lavoro... si vede che non è uno dei soliti, lei...»

    Ma l'uomo non parve accorgersi del complimento; si toccò la falda del cappello, e uscì abbastanza in tempo per udire il sospirone dei bimbi che avevano aspettato con visibile impazienza la fine di quel colloquio.

    La mattina dopo il tempo si era rimesso al bello, ma il freddo era aumentato. La Butte era ancora avvolta nella nebbia, ma la sommità dei palazzi di rues des Abbesses era indorata da un sole pallido. I bottegai di rue Lepic avevano incominciato di buon'ora a disporre le loro cataste di erbaggi dove tutta la gamma dei verdi era presente; da quello tenero dei primi cardi ancora odoranti di terriccio, al verde cupo dei carciofi che facevano macchia vicino al giallo chiaro delle carote.

    Verso le dieci un ragazzo che trascinava un carretto sul quale erano degli aggeggi da pittore, si fermò al numero 27 e andò a bussare ai vetri della portineria. Madame Rose che rientrava in quel momento con la sacca cerata da cui spuntavano i pennacchi verdi di quattro finocchi, capì subito di che si trattava.

    «È per il signor Boyer?»

    Il ragazzo si frugò in tasca e tirò fuori un pezzetto di carta gualcito.

    «Mi pare di sì... legga lei.»

    «Sì... sì... è il nuovo inquilino... hai la chiave?»

    «No... mi ha detto di farmi accompagnare dalla portinaia.»

    «Va bene... va bene... ora vengo.»

    Depose la sacca con la spesa, tolse dal gancio una chiave che portava un cartellino dello stesso colore di quella che la sera prima aveva consegnato al nuovo inquilino e si arrampicò verso le soffitte, seguita dal ragazzo che aveva incominciato a trasportare le cose più leggere: una tela su cui era dipinto un paesaggio, un mazzo di pennelli e una cassetta sgangherata che presumibilmente doveva contenere dei colori.

    Madame Rose lasciò la chiave nella serratura e se ne tornò al pianterreno non senza aver raccomandato al ragazzo di riportarle la chiave a operazione finita.

    Rientrando nel suo stambugio, diede un'occhiata al carrettino rimasto davanti al marciapiede con le stanghe all'aria, ma non le parve che contenesse gran che. Un cavalletto, due sgabelli, e una tenda verde stinta e rattoppata, avvolta attorno a un'asta di ferro come una bandiera.

    Abituata all'ambiente bohémien di quel rione, non vi fece troppo caso. Si limitò a pensare che il resto sarebbe arrivato dopo e incominciò a pelare le patate.

    Per fortuna i ragazzi erano a scuola, e il marito, che faceva il turno di notte come scambista alla stazione, era già rientrato e dormiva nella stanza vicina. Fino a mezzogiorno sarebbe stata tranquilla.

    Quando vide attraverso i vetri il ragazzo inerpicarsi col cavalletto sulle spalle, gli gridò di non sbrecciare i muri. Riavuta la chiave, andò ad appenderla con le altre e non ci pensò più.

    Sta di fatto però, che né quel giorno, né il giorno seguente, si fece vivo nessuno. Madame Rose notò la stranezza del caso soltanto la sera del venerdì e ne accennò al marito mentre lo aiutava a infilarsi il pastrano di servizio. Anzi fu l'uomo che parlando del tempo che si era rimesso al brutto, le fece ricordare la bufera di tre giorni prima e per associazione di idee l'affitto dello studio del sesto piano.

    «A proposito... sai, quel pittore che è venuto mercoledì sera, proprio mezz'ora dopo che eri uscito tu? Non si è fatto più vedere... Tanta fretta, tanta fretta...

    «Be'» rispose il marito «ha pagato?»

    «Figurati! A me non la fanno, sai... anzi domani verso i soldi al signor Duchatel...»

    «E allora vada a farsi impiccare dove vuole...»

    «Certo... certo... dicevo così per dire.

    Il marito uscì dopo aver preso la bottiglia di vino e il pacco di cibarie che la moglie aveva già sistemato sulla tavola. La portinaia preparò la cena per sé e per i ragazzi, poi li mise a letto e restò fino alle otto vicino alla stufa a rammendare biancheria.

    Un'altra mezz'ora la impiegò a farsi con la pomata i soliti massaggi alle ginocchia dove i dolori reumatici incominciavano a dare le prime avvisaglie sotto forma di fitte, alle quali rispondeva, come un campanello d'allarme, una puntura all'alluce del piede destro.

    Mentre compiva questa operazione, non riusciva a togliersi di mente la faccia dell'inquilino dalla barbetta, che non s'era fatto più vedere. Artisti strampalati ne aveva conosciuti altri, d'accordo, e poi un contrattempo può succedere sempre, tuttavia... quella fretta nell'affittare lo studio senza quasi nemmeno averlo guardato... e poi non farsi più vedere... aveva pagato è vero, poteva fare quello che voleva... e poi chi poteva asserire che non si fosse già installato proprio in quella mezz'ora... magari anche un'ora, via, diciamolo pure... durante la quale lei si assentava per fare la spesa?

    Questa idea era così semplice, che madame Rose si meravigliò come non le fosse venuta prima e decise subito di andare ad assicurarsene. Prese la chiave e si avviò per le scale. Prima busserò, pensava, e nell'ipotesi che sia dentro gli chiederò scusa... in fondo non può aversela a male se vado a chiedergli se ha bisogno di qualche cosa. Vedrò se ha provveduto almeno a piazzare la stufa, che non si sia illuso di poter aspettare... Madame Rose andava borbottando queste cose per giustificare quella visita anche davanti a se stessa, e per non voler confessare che si trattava di una pura curiosità di donna anziana, abituata ad essere al corrente di tutti gli affari degli inquilini.

    Quando fu davanti alla porta della soffitta, guardò dal buco della serratura. Buio pesto. Provò a bussare con le nocche, prima timidamente, poi più forte, ma nessuno rispose.

    La donna rimase un momento perplessa. Da un abbaino, giungeva il fastidioso tremolare di un vetro battuto dalla pioggia, l'aria fredda che faceva vortice nella tromba delle scale le si ingolfava sotto le vesti e il silenzio di quel pianerottolo male illuminato le metteva addosso una vaga sensazione di tristezza. Non era la prima volta che saliva di sera ai piani superiori del casamento, e mai le era passato per il capo che il corridoio delle soffitte potesse incuterle timore. Tuttavia pensò che avrebbe dovuto cambiare la lampadina polverosa dell'ultimo pianerottolo, la cui luce rossastra era assolutamente insufficiente ad illuminare tutti gli angoli. Provò a reagire a queste stupide sensazioni, bussando ancora una volta, poi, quasi per farsi coraggio, borbottò la frase del marito: «Ma sì... se non è venuto, vada a impiccarsi dove vuole!».

    Infilò la chiave nella toppa, aprì l'uscio, strisciando con la mano lungo il muro, girò la chiavetta della luce e spalancò la bocca cercando di dar libero sfogo all'urlo che le era salito fino alla strozza.

    Un impiccato penzolava dal gancio centrale del soffitto, con le mani rattrappite e il viso magro dalla barbetta nera orribilmente deformato in una smorfia spaventosa.

    Se le avessero chiesto come aveva fatto ad uscire da quella stanza, come non le fosse venuto in mente di chiamare qualche inquilino, per esempio la signora Michou che abitava porta a porta o il vecchio Lenormand che stava alla porta dopo... non lo avrebbe saputo dire.

    Non avrebbe saputo dire neanche come non fosse ruzzolata per le scale, tanto rapidamente le aveva discese, perché solo quando fu all'aperto, sul marciapiede battuto dalla pioggia, la strada e i lampioni accesi valsero a restituirle il fiato. Si attaccò al primo essere umano che vide: una ragazza che scendeva dalla Butte cercando con l'ombrello di riparare il viso dove la cipria e il rosso delle labbra si slavavano come i colori di un tessuto di cattiva qualità, e non seppe che mormorare con voce soffocata: «Presto... un agente... chiami un agente... vada all'angolo del boulevard... è successo qualche cosa qui da me... presto!»

    La ragazza voleva chiedere spiegazioni, ma l'altra la sospingeva ripetendo: «Presto... presto!»

    Allora anche la ragazza, come presa da un'inspiegabile paura, cominciò a correre verso il boulevard Clichy. Si calmò solo quando vide i lumi dei cabarets e quel po' di folla che ad onta del tempaccio sciamava sul marciapiede. Si fermò un poco a riprendere fiato, e un nuovo bizzarro sentimento la invase. Una specie di gioia per poter finalmente abbordare un agente della forza pubblica, lei che era sempre costretta a evitarli, e mostrare che una volta tanto era lei che serviva alla legge.

    Dopo pochi minuti la portinaia vide un gruppo di persone risalire la strada parlottando animatamente e riconobbe dal luccichio la mantellina cerata di un agente.

    Incominciò a respirare con più libertà. Con la guardia c'era la ragazza dal viso dipinto, una sua compagna incontrata strada facendo e due o tre sfaccendati male in arnese che si erano uniti al gruppo subodorando uno spettacolo sensazionale.

    Salirono le scale in silenzio per cercar di capire qualche cosa del racconto affannoso della portinaia, ma giunti all'ultima rampa, la donna si rifiutò di salire.

    «È là!... È là!...» e indicava con la mano il rettangolo luminoso della soffitta aperta.

    L'agente estrasse la pistola e di corsa fece gli ultimi gradini, seguito dagli sguardi di tutti; scomparve nel vano e dopo qualche secondo riapparve rimettendo la pistola nella fondina.

    «Cosa state a fare li? Andiamo! È un morto, via... non avete mai visto un morto?»

    E siccome gli uomini, oramai sicuri che non c'era più pericolo, s'erano buttati avanti, li respinse brutalmente:

    «Via! Via! Qualcuno vada a chiamare la pattuglia di servizio a place Blanche.»

    Il gruppo scese le scale in tempo per frenare l'irruzione dei curiosi che, attirati da non si sa quale misteriosa eco, facevano già ressa nell'atrio.

    L'agente ricacciò tutti in strada, chiuse la porta, poi, in attesa dei colleghi, entrò in portineria, sedette alla tavola e tirato fuori un taccuino incominciò a scrivere.

    «Il suo nome, per favore.»

    «Rose Launay... ma... ma... maritata Petigaux... di... di anni...»

    «Non fa niente... Lei è la portinaia dello stabile?»

    Fuori la pioggia scrosciava contro il portone e il vento faceva sbattere un'imposta al primo piano dove si sentiva un andirivieni di passi scalzi.

    II. Il commissario Richard

    Dalla scrivania del commissario Richard, si vedeva uno spicchio della torre di destra di Notre-Dame e la cima di qualche albero spoglio. Era tutto quello che concedeva la finestra i cui tendaggi polverosi avevano l'aria di risalire al secondo Impero. Il resto era nebbia, con qualche lamento sperduto di chiatta a motore che rimontava la Senna e inevitabilmente fischiava al passaggio del Ponte Nuovo.

    Il commissario Richard compulsava delle vecchie pratiche, estraendole da certe cartelle verdi fornite di legacci e ogni tanto dava un'occhiata alla pendola come se l'approssimarsi del mezzogiorno lo preoccupasse. Allora si passava una mano sulla grossa testa calva contro la quale da anni si esercitavano i frizzi dei colleghi, e brontolava: «Dannato Rops!»

    Veramente non era calvo del tutto; la sua era una calvizie precoce che gli rendeva lucida solo la parte superiore del cranio, a partire dalla fronte fino al vertice, lasciandogli tutt'intorno una corona fratesca di capelli neri, e, checché ne dicessero i colleghi, niente affatto tinti. Il viso sempre sbarbato e un po' flaccido, lo faceva rassomigliare più a un attore che a un funzionario di polizia, e un paio di sopracciglia nerissime e cespugliose mettevano sugli occhi piccoli e grigi due accenti circonflessi così caratteristici da far sì che, vista una volta, quella faccia non si poteva dimenticare più.

    «Grave difetto per un poliziotto» soleva dire il commissario Richard scherzosamente «è inutile che io mi travesta e mi trucchi, perché dal piantone che sta alla porta della prefettura, fino all'ultimo giornalaio di Parigi, tutti mi riconoscerebbero solo dalle sopracciglia.»

    Diceva questo scherzosamente, ma c'era una punterella di vanagloria, perché il commissario Richard, se aveva un debole, era appunto quello della popolarità, debole giustificato, se si pensa che l'uomo veniva dal nulla, aveva percorso faticosamente tutti i gradini della gerarchia e se il suo nome si era imposto negli ambienti polizieschi lo doveva soltanto a se stesso.

    Per quel che riguardava l'impossibilità di travestirsi e di truccarsi, c'era invece una punta di ironia. Il commissario Richard aveva un'avversione per quei tipi di investigatori teatrali, messi in voga dalla letteratura americana, che sono altrettanti trasformisti e si rendono ogni cinque minuti irriconoscibili.

    «Storie!» diceva. «Li vorrei vedere a Parigi tutti questi trasformisti... li vorrei vedere alle prese, non dico coi delinquenti, ma soltanto coi monelli del mio quartiere... Da noi lo spirito di osservazione e l'umorismo sono innati e povero quell'agente che volesse andare in giro vestito da spazzino o da prete, raccoglierebbe tutti i torsoli di cavolo inutilizzati dei vari mercati rionali.»

    Un'identica antipatia mostrava per i colleghi di Scotland Yard, con i quali però aveva qualche volta dovuto collaborare.

    «Brava gente, ma troppo calma... e poi siamo sempre lì, la letteratura li ha rovinati... la cenere del sigaro, il bottone della giacca, il pelo del cane color marrone... non fatemi ridere. Coi bottoni e la cenere del sigaro, a Parigi, non si è mai arrestato nessuno... pazienza ci vuole; naturalmente, anche un po' di fiuto, e poi... e poi conoscere gli uomini... non gli uomini come li descrivono sui libri, che sono o tutti eroi o tutti farabutti, ma gli uomini come sono nella vita reale, ossia mezzo eroi e mezzo farabutti... ecco il segreto. Il difficile è capire la proporzione della miscela, una volta capita la formula, si intuiscono le reazioni... ogni uomo ha un debole... sarà il gioco, saranno le donne, sarà la collezione di francobolli, la gola, l'arte, la politica... insomma, ogni uomo nella vita tende a qualche cosa che, di solito, è diversa e distante dal suo mondo quotidiano. Quando quella tale proporzione fra eroismo e farabutteria pencola a favore del secondo ingrediente, si ha un precipitato di criminalità. Questa è la vera chimica, non quella di Sherlock Holmes. E per conoscere gli uomini, bisogna aver fatto, come me, venticinque anni di piantonamenti, di pedinamenti, di soste sotto la pioggia insieme agli scaricatori della Senna, bisogna aver sentito le confidenze dei ballerini di Montparnasse e dei deputati in orgasmo per la caduta del ministero, bisogna aver trincato coi duri delle Halles, quando all'alba, dopo una notte passata a scaricare i quarti di bue, vanno a prendere il cicchetto all'osteria dell'Escargot o alla taverna del Vecchio Granatiere, bisogna aver passato qualche ora a colloquio col condannato a morte, nella cella della gran sorveglianza, mentre i compari del signor Deibler montano il rasoio nazionale al boulevard Arago.»

    Quando il commissario Richard faceva questi discorsi, i colleghi ridevano e finivano per dargli una gran manata sul testone calvo, ma Richard era di temperamento bonario e stava volentieri allo scherzo.

    Quello che invece lo rendeva nervoso era la mancanza di precisione e di puntualità. Per esempio, l'ispettore Rops gli aveva telefonato: Sarò a casa per le undici; orbene, le undici erano trascorse, e anche le undici e mezzo, e l'ispettore Rops non era ancora rientrato a casa come si diceva nel gergo poliziesco, per indicare il vecchio palazzo del Quai des Orfévres, dove sono riuniti tutti gli uffici direttivi della polizia parigina.

    Quando sentì bussare alla porta, borbottò: «Avanti» e, invece di guardare l'ispettore Rops, guardò la pendola, aggrottando gli accenti circonflessi delle sopracciglia, in modo significativo.

    L'ispettore Rops, che era un biondino vivace e tutto nervi, sparò le sue giustificazioni tutt'in un colpo: «Un imbottigliamento sul boulevard Magenta, commissario!... Un filo dell'alta tensione spezzato, due ustionati, ci ho messo un quarto d'ora per arrivare al Métro

    «Va bene... va bene... Novità?»

    «Niente di straordinario... sono passato dalle agenzie di cambio Marcel per l'affare delle false cedole e ho la lista dei titoli; sono andato alla Villette per interrogare il segretario del Soccorso Rosso, naturalmente mi ha detto che il rifugiato polacco non risulta sovvenzionato... poi mi ha telefonato Dubois della brigata speciale e ho dovuto fare una corsa in rue Lepic dove si è impiccato un pittore... un fatto comune per quanto un po' strano...

    «Perché strano?»

    «Così... niente di strano che un pittore si impicchi, ma è curioso che questo qui abbia preso in affitto uno studio apposta, pagando in anticipo trecentocinquanta franchi... Poteva buttarsi nella Senna, non le pare? Sarebbe stato più economico in tempo di crisi...»

    «Allora?»

    «Allora niente... il pittore è un certo Charles Boyer, orfano, abitante in boulevard Raspail... non ha lasciato niente... tutto in ordine nella soffitta di boulevard Raspail, tutto in ordine in rue Lepic... c'è solo quel particolare di non essersi impiccato in casa sua... perché? Forse per non impressionar la moglie... un'ex modella... Catherine Boinot, orfana anche lei, trent'anni, con un marmocchio che ha avuto dal pittore. La donna non ha precedenti... già visto al casellario... anche il morto era impregiudicato...»

    «Cosa dice la donna?»

    «Piange, si dispera, e giura che è impossibile che il suo uomo si sia ucciso... intanto ha dovuto riconoscere il cadavere... anche la portinaia di boulevard Raspail lo ha riconosciuto...»

    «Amici? Abitudini? Debiti? Altre donne?»

    «Commissario... me ne sto occupando solo da due ore! Il morto è stato trovato questa notte dalla pattuglia di place Clichy.»

    «Non hai detto che si è impiccato nello studio?»

    «Sì... la pattuglia è stata chiamata dalla portinaia dello stabile... Rose Petigaux...»

    «Lascia stare i nomi... è una mania la tua! Avresti dovuto fare il giornalista... Bene... oggi farò un salto in rue Lepic... è ancora là il cadavere?»

    «È ancora là; si aspetta il giudice istruttore e il medico.»

    «Telefona che ritardino l'invio alla Morgue, fino al mio arrivo... Io ho un ospite a colazione... mio nipote, il tenente di vascello...»

    «Un ufficiale di marina?»

    «Sì... un ufficiale di marina... cosa credi, che tutta la mia famiglia faccia il nostro schifoso mestiere? Un ufficiale di marina... quello che avrei voluto fare io, se mio padre non fosse morto troppo presto...»

    Anche questa della marina era un'altra delle piccole debolezze del commissario Richard che, ad onta del suo nome, asseriva di essere di origine bretone e sosteneva che tutti i suoi avi erano stati marinai. Lui non aveva potuto, perché traversie di famiglia l'avevano obbligato a restare a Parigi e a guadagnarsi il pane arruolandosi a diciotto anni come agente della forza pubblica... la storia era conosciuta in tutta la casa e l'ispettore, che la sapeva a memoria, sapeva anche che su quell'argomento non c'era da scherzare.

    «Certo... certo... gran bella cosa la marina... ma vede, commissario, io preferisco che lei sia rimasto a terra... se no dovrei subirmi un superiore come Chanel, come Valmy...»

    «Cerchi di lisciarmi, eh?»

    Il commissario si alzò puntellandosi con le braccia alla scrivania che scricchiolò, e, calcandosi sulla zucca pelata il cappelluccio rotondo dalle falde ondulate che godeva di una notorietà vasta quanto quella della testa che ricopriva, uscì dall'ufficio borbottando: «Tre e mezzo precise a rue Lepic... numero?»

    «Ventisette, commissario.»

    «Ventisette... sta bene... Oh... ho detto tre e mezzo e non c'è imbottigliamento che tenga...»

    «Sì, commissario... stia tranquillo».

    Chi fosse entrato mezz'ora dopo nel quartierino di rue Saint Augustin dove il commissario Émile Richard divideva con la sorella Geneviève gli agi e i disagi di un doppio celibato, avrebbe visto i due maturi zitelloni affaccendarsi attorno a un giovanotto bruno, slanciato, che teneva testa come poteva all'affettuosità degli zii.

    «Non ti potrò dunque mai vedere in uniforme» sospirava la zia Geneviève correndo dalla cucina alla saletta da pranzo per tener d'occhio tavola e fornelli.

    «Ma zia... ti ho mandato il ritratto in grande uniforme da Tolone, non l'hai ricevuto?»

    «Tua zia ha ragione» esclamava a voce alta il commissario, poi a bassa voce aggiungeva: «ma hai ragione anche tu a venire a Parigi in borghese...»

    «Ma no zio, ti assicuro...»

    «Va là, va là... credi che non capisca che cosa vuol dire per un ufficiale di marina fare una scappata a Parigi? A proposito, quanti giorni di licenza hai avuto?»

    «Dovevano essere quindici, ma sono stato sorteggiato fra quelli che andranno a completare i quadri dell'incrociatore Jean Ben che farà la campagna idrografica nel mar Rosso... e allora me li hanno ridotti a dieci.»

    «Hei sentito, Geneviève? Va nel mar Rosso.»

    «Vergine Santa, un'altra crociera? Ma com'è che ci sono di quelli che non si muovono mai dal ministero della Marina?...»

    «Quelli sono i poltroni» tuona il commissario Richard.

    «Ma no... ma no... è una questione di turno» obietta il giovane.

    «Va là, Mimil,.. che la so lunga io.»

    Veramente l'ufficiale si chiama Émile, come lo zio, ma da quando era ragazzo l'hanno sempre coccolato col vezzeggiativo di Mimil che gli è rimasto.

    Con l'arrivo della zuppa di piselli, che è una delle molte specialità gastronomiche di Geneviève, si ingaggia la solita battaglia.

    Il commissario Richard vorrebbe che l'ufficiale gli parlasse esclusivamente di navi da guerra, di sottomarini e di crociere su tutti i mari.

    Invano Geneviève insiste con un'ansia materna nel viso rugoso, per sapere se la zuppa è venuta come si deve e se il cosciotto di montone è cotto al punto giusto. Il fratello che è praticissimo di problemi marinari per aver digerito intere biblioteche sull'argomento, si ingolfa nei pregi e nei difetti degli incrociatori tascabili, in rapporto con la teoria del naviglio pesante. Il nipote, per converso, è curioso, come tutti quelli che vivono fuori dell'ambiente, di problemi polizieschi e vorrebbe che lo zio gli raccontasse qualche fatto sensazionale.

    Tira di qua e tira di là, naturalmente la vittoria resta al giovane che sa toccare le corde sensibili dello zio.

    «Sai che quest'inverno durante la visita ai porti inglesi ho letto il tuo nome sul Times

    «Ma va là... non dire sciocchezze.»

    «Parola! A proposito dell'affare della ballerina tagliata a pezzi... ricordi?»

    «Ma sì... ma sì... un affare banale in fondo...»

    «Banale? Io l'ho trovato interessantissimo... anzi a quell'epoca leggevo appunto un giallo americano...»

    «Ti ho detto tante volte di non parlarmi di romanzi polizieschi...»

    «Eppure ti assicuro...»

    «Ma fammi il piacere, tutte storie fantastiche e puerili. Eh... giovanotto mio, come ti illudi... se la nostra vita fosse quella che descrivono i romanzi polizieschi...»

    «Tuttavia qualche imbroglio intricato l'hai sciolto...»

    «Sciocchezze, ti dico... la nostra vita è fatta di ordinaria amministrazione... ladruncoli che confessano piangendo di aver portato via il borsellino alla massaia distratta... ubriachi che distribuiscono stupide coltellate, perché hanno bevuto un bicchiere di più... nevrastenici che s'impiccano, perché l'amante li ha traditi... Non più tardi di questa mattina, si è impiccato un pittore... rue Lepic... dopo colazione dovrò andare a vedere il suo muso, perché uno dei miei ispettori pretende che questo signore non doveva impiccarsi in quel modo.»

    «In che modo si è impiccato?»

    «Come fanno tutti... è montato su uno sgabello, ha legato una corda al gancio del soffitto, ha fatto un cappio, ci ha infilato la testa e ha dato un calcio allo sgabello...»

    «Émile! Ti prego... stiamo mangiando.»

    «Ma, cara Geneviève, se è lui che vuol saperlo... e poi non è colpa mia se non si è trovato ancora un modo più elegante per impiccarsi.»

    La buona Geneviève scappa in cucina turandosi le orecchie, mentre l'ufficiale ride come un ragazzo e vuol sapere altri particolari.

    «Ma non so nient'altro... devo andare oggi, appunto per vedere se c'è qualche cosa d'interessante, ma vedrai che quell'idiota di Rops non gli ha neanche frugato nelle tasche, se no avrebbe trovato la solita lettera romantica che spiega tutto».

    «Chi è Rops?»

    «Un mio ispettore, buon figliolo, ma non ha esperienza... svelto, coraggioso... ti ricordi due anni fa quando buscai quella revolverata nella gamba?... Be'... l'avrei avuta nello stomaco, se Rops non avesse fatto deviare il colpo con un cazzotto magistrale.»

    «Vedi... e poi dici che non è interessante!»

    «Ma no... sciocchezze... un idiota che aveva la mania del tiro a segno...»

    «Insomma, mi volete dire come trovate queste pesche ripiene?»

    «Ottime, ottime... anzi dammene un'altra».

    «Oh, finalmente... non capisco che gusto ci sia a parlare di quelle cose spaventose... già io non vedo l'ora che tuo zio vada in pensione.»

    «Mi vuol vedere vecchio a tutti i costi.»

    «Ma no... ti voglio veder tranquillo, nella nostra villetta di Neuilly, a pescare le trote.»

    «Ah, birbante di uno zio! Ecco perché ti piacerebbe fare il marinaio... Per la pesca.»

    «Ma sì, prendimi in giro anche tu adesso...»

    «Be', io la smetto, a un patto.» «

    Quale?»

    «Che oggi mi porti con te al sopraluogo... mi hai promesso tante volte di farmi assistere a un'inchiesta...»

    «Proprio oggi che dovevi accompagnarmi ai giardini delle Tuileries...»

    «Sii buona, zia, ti ci accompagnerò domani... oggi lasciami andare con lo zio.»

    Fu così che verso le tre, i due uomini presero il Métro dell'Opéra direzione Blanche-Pigalle. Veramente all'ingresso della galleria sotterranea, il commissario Richard aveva detto al nipote: «Di' la verità... è stata una scusa per liberarti della zia... A me lo puoi dire, se hai un appuntamento con... con qualche amico... sei libero... tra uomini ci intendiamo.»

    Ma l'ufficiale aveva protestato per la sua assoluta buona fede, e aveva confermato il desiderio di assistere all'inizio di un'inchiesta, e, per quanto lo zio lo ammonisse che sarebbe stata una delusione, restò irremovibile, come un ragazzino che vuole andare per forza allo stadio.

    Nella squallida soffitta di rue Lepic, trovarono Rops che scribacchiava delle note su un tavolino formato da una vecchia cassa prestata dalla portinaia. In un angolo, sulla barella dell'assistenza ospedaliera, giaceva il corpo dell'impiccato, coperto da un lenzuolo. Un agente era piazzato di guardia sul pianerottolo per tenere a bada gl'inquilini che a turno venivano a curiosare, con la scusa di riempire una brocca d'acqua al rubinetto del corridoio.

    Il commissario Richard fece le presentazioni: «L'ispettore Rops della terza Brigata Mobile... mio nipote il tenente di vascello Émile Bréguet... che partirà fra breve per il mar Rosso... Be'... questo non c'entra... Dov'è il cadavere?»

    Andò a scoprire la faccia dell'impiccato, osservò un poco quel viso magro con la barbetta nera, poi borbottò fra sé: «Mai visto...»

    Intanto l'ispettore Rops lo metteva al corrente dell'inchiesta.

    Prima di tutto referto medico: Morte per soffocamento in soggetto linfatico a costituzione normale. Nessun segno di violenza e nessuna ferita, eccettuato un piccolo taglio all'indice della mano destra, dovuto probabilmente a una lama di rasoio. L'esame delle pupille lascia supporre che al momento di darsi la morte l'individuo fosse in preda all'azione di uno stupefacente, ipotesi che ha bisogno di essere confermata dall'esame degli organi interni. Se questo esame fosse negativo si potrebbe pensare a fatti di natura epilettica insorti al momento dell'impiccagione.

    Dopo aver letto questa tiritera, l'ispettore Rops confermò che l'identità del morto era fuori dubbio: «Si tratta di Charles Boyer di trentadue anni, pittore, abitante in una soffitta di boulevard Raspail insieme con la moglie Catherine Boinot, dalla quale ha avuto un figlio, due anni fa. La coppia conduceva vita ritirata e modestissima, anzi era quasi in miseria; interrogata la donna, lei non riesce a spiegarsi dove il pittore abbia trovato trecentocinquanta franchi per affittare questa soffitta. Asserisce che mai l'uomo ha esternato propositi di suicidio e non riconosce né il cavalletto, né il quadro dove è dipinto quel paesaggio. Il morto aveva in tasca la somma di otto franchi e cinquanta centesimi; una contromarca per l'ingresso al circo Medrano, un lapis, un fazzoletto e un portafogli con poche carte insignificanti. La Catherine Boinot asserisce di aver conosciuto casualmente il Boyer tre anni fa, di aver fatto vita comune con lui solo dopo il matrimonio; lo descrive buono, ma orgogliosissimo della sua arte e intransigente per tutto quello che riguardava la sua pittura.»

    «Come viveva? Vendendo quadri?»

    «No... la donna asserisce che il Boyer era un fanatico del cubismo e quindi vendeva poco... Si adattava a fare delle illustrazioni pubblicitarie; eseguiva soprattutto disegni per stoffe per una ditta di Lione alla quale spediva ogni mese un certo numero di bozzetti. Non aveva amici, o per lo meno la donna dice di non avergliene conosciuti. Era un tipo melanconico, un po' solitario, dai modi quasi aristocratici.»

    «Beveva? Prendeva droghe?»

    «La donna dice di no...»

    Il commissario restò un momento silenzioso poi chiese: «Che cosa concludi?»

    «Così sui due piedi... non so. Per ora, di sicuro abbiamo solo questo: l'individuo ha affittato il locale mercoledì sera, perché c'è il modulo della prefettura, con la data e la firma che lo comprova. Mercoledì notte ha dormito con la moglie in boulevard Raspail. Giovedì mattina è stato in casa; nel pomeriggio è uscito per comperare delle matite, e al ritorno ha detto alla donna: Ne ho comperate solo due, perché sono aumentate ancora di prezzo. La sera di giovedì è uscito verso le nove, asserendo di voler fare due passi e non è tornato più. La portinaia di questo stabile ha trovato il cadavere la sera di venerdì, quindi la morte deve essere avvenuta tra le nove di sera di giovedì e le nove di sera di venerdì. Siccome il medico che ha fatto l'esame del cadavere questa mattina alle undici, ha detto che la morte risale a circa trentasei ore, bisogna dedurne che il Boyer si è impiccato all'incirca fra le dieci e le undici della sera di giovedì.»

    «Usciva tutte le sere per fare due passi?»

    «La donna asserisce che c'erano dei periodi in cui passava tutte le sere in casa e dei periodi in cui usciva tutte le sere.»

    «Aveva debiti?»

    «Qualche debituccio coi fornitori del rione, ma poca cosa.»

    «Faceva parte di associazioni artistiche?»

    «Non risulta.»

    «Politiche?»

    «Nemmeno.»

    «Allora... concludendo?»

    «Concludendo, per ora l'unica cosa certa è che il Boyer ha trovato qualcuno che gli ha dato trecentocinquanta franchi, ha affittato questo locale, si è fatto portare un cavalletto e due sgabelli comprati forse da un rigattiere...»

    «Perché l'avrebbe fatto?»

    «Forse per non tornare più a casa e abbandonare la donna... forse per fare qualche lavoro di pittura che non voleva che altri vedesse... poi... non so... magari preso dallo scoraggiamento è montato su quello sgabello, ha attaccato la corda al gancio, e...

    «Chi sono i vicini di casa?»

    «Una certa madame Michou, modesta pensionata delle ferrovie e il cromista Lenormand che fa i calchi delle incisioni per una litografia della Butte.»

    «Precedenti?»

    «La Michou impregiudicata, il Lenormand è stato condannato due volte per lievi reati.»

    «Hanno sentito niente?»

    «Il Lenormand dice che la notte dal giovedì al venerdì ha dormito profondamente e non ha sentito nulla... credo che avesse bevuto... La vecchia dice che verso le dieci di sera qualcuno ha bussato alla porta di questo studio...»

    «E poi?»

    «Poi nulla... la vecchia dice di non aver più sentito alcun rumore.»

    «Nessuno è andato ad aprire dopo che qualcuno ha bussato?»

    «La vecchia dice di non aver sentito nulla.»

    Il commissario Richard fece due o tre volte il giro della stamberga, poi tornò ad esaminare il morto ordinando a Rops di farsi aiutare dall'agente di guardia, per voltarlo in tutti i sensi.

    «Nessuno ha toccato nulla qui?»

    «Nessuno.»

    «Quello sgabello è nel posto dove l'hanno scaraventato i calci dell'impiccato?»

    «Sì.»

    «Quindi possiamo concludere che proprio quello è lo scanno che è servito al Boyer per salire all'altezza del gancio.»

    «Pare anche a me... infatti porta impronte di pedate, mentre l'altro è pulito.»

    Il commissario Richard, che aveva già osservato lo sgabello, si buttò il cappelluccio sulla nuca, si fregò vigorosamente la pelata, poi disse con calma: «Già... nella tua ricostruzione, caro Rops, va tutto bene, fuorché una cosa...»

    «Quale?»

    «Guarda le scarpe del morto... sono a punta, con suole liscie... guarda le impronte rimaste sullo sgabello, sono quadre con suole di gomma a righe...»

    Vi fu qualche secondo di silenzio, durante i quali Rops esaminò a lungo lo sgabello, poi, volgendosi al commissario balbettò un po' pallido: «Con questo... vorrebbe dire...»

    «Niente di straordinario... soltanto che chi ha legato la fune al gancio, aveva delle scarpe diverse da quelle del Boyer, ma non basta...: siccome la sera di giovedì pioveva, anche le scarpe del Boyer avrebbero dovuto lasciare qualche traccia, almeno al momento di salire sullo sgabello fatale.»

    «Ma allora...»

    «Allora, siccome il Boyer non può aver infilato la testa nel cappio spiccando un salto, bisogna pure che qualcuno lo abbia aiutato, abbia tirato la corda, poi sia risalito sullo sgabello per assicurarla... come vedi, le impronte sono parecchie, ma sempre della stessa suola di gomma a righe... e finalmente bisogna che colui che chiameremo l'uomo dalle scarpe di gomma, abbia lanciato lo sgabello a un metro di distanza per dimostrare che ciò era avvenuto per i calci dell'impiccato, mentre non vi è traccia di calci sul legno. Tutte le impronte sono abbastanza nette e nessuna è di striscio.»

    «Ma come può supporre che un uomo si lasci impiccare senza lotta?»

    «Io non suppongo niente, faccio delle constatazioni.»

    Ci fu un altro silenzio abbastanza lungo, poi il commissario tese la mano all'ispettore e disse al nipote: «Andiamo?» Volgendosi a Rops gli disse di avvisare la donna perché si presentasse l'indomani mattina nel suo ufficio e di far portare il cadavere ai frigoriferi dell'obitorio a disposizione del commissario Richard. Fuori aveva ripreso a piovere e le lampade si accendevano su tutti i ritrovi di Montmartre, creando cento fantasmagorie che non riuscivano a rompere il tedio del pomeriggio invernale. Mentre si avviavano a prendere l'aperitivo al bar Pigalle, l'ufficiale di marina che non aveva ancora aperto bocca, azzardò: «Ma tu veramente credi...?»

    «Io non credo niente... In materia di polizia giudiziaria è inutile credere o non credere... bisogna lasciar parlare i fatti...»

    «Ma la tua opinione?»

    «La mia opinione è che un Cinzano seltz è preferibile a un amaro Picon, perché, ove tu non lo sapessi, i vermouth italiani sono quanto c'è di meglio in fatto di apertivi.»

    E siccome erano entrati nel bar, il commissario, volgendosi familiarmente a un cameriere, gli lanciò questa curiosa frase: «Di'... vecchio Franois... due Cinzi con lo schizzo e un'ombra di limone.»

    Di là delle vetrate, s'udiva la voce stridula di una donna che urlava: «Paris Soir... Misterioso suicidio in rue Lepic...»

    III. Il sistema di Cuvier

    Nell'ufficio del commissario l'aria era diventata irrespirabile per il fumo, e i mozziconi traboccavano dal portacenere, riempivano la conchiglia dove normalmente stavano gli spilli e incominciavano ad invadere anche la vaschetta di cristallo delle penne. Erano in due a fumare, zio e nipote, con l'unica differenza che il nipote fumava sigarette americane e lo zio le Gitanes.

    L'ispettore Rops, soprannominato signorina per il suo aspetto esile e perché non fumava, era uscito da quel colloquio tossendo e sbuffando, col viso congestionato.

    Finalmente il commissario si alzò e andò a spalancare la finestra, restando un momento assorto nella contemplazione della piazza dove l'ombra viola avvolgeva già la cattedrale che sfumava nella nebbia come un castello magico. Poi si rivolse all'ufficiale che era rimasto sprofondato nella poltrona, esclamando giovialmente:

    «Be', non sei ancora stanco? Lo sai quante ore sono che parliamo di questo stupido affare? Quattro ore questa mattina e quattro ore nel pomeriggio... mi pare che, dopo otto ore, abbiamo diritto di andare a respirare una boccata d'aria, no? Questa sera Geneviève mi ha promesso il coniglio in fricassea e ci tengo a mangiarlo di buon appetito.»

    L'ufficiale accese un'altra sigaretta e mormorò:

    «È straordinario.»

    «Straordinario che cosa?»

    «Tutto... la morte di quel poveraccio... le parole della vedova...»

    «Già... l'hai esaminata bene quella donna?»

    «Sì... mi è parsa sincera... una donna insignificante in fondo... non si capisce neanche come ci sia stato un tempo in cui era modella.»

    «Già... già... sincera sì... almeno per quel che riguarda il suo affetto per il morto... anche per il figlio... ma non sincera completamente per quel che riguarda la sua vita privata.»

    «Credi?»

    «Hai sentito il rapporto di Rops? Quando alla sera l'uomo usciva, dopo poco usciva anche lei... la portinaia di boulevard Raspail è stata esplicita su questo punto.»

    «È vero... ma dove credi che potesse andare?»

    «Ah... questa è un'altra questione; sta di fatto, però, che lei l'ha negato, o meglio ha ammesso di essere uscita qualche volta per fare piccoli acquisti di cui si era dimenticata durante il giorno... Invece la portinaia... hai sentito anche tu che è stata categorica: tutte le volte che usciva l'uomo, subito dopo usciva anche lei.»

    «È vero... e, dimmi un'altra cosa, perché ti sei fatto portare qui le scarpe del morto, la sua fotografia, il suo portafogli, e la contromarca del Circo Medrano?»

    Il commissario Richard sorrise, poi, prendendo sotto braccio il nipote e uscendo dall'ufficio, incominciò a parlare con quella sua voce pacata e monotona cui solo qualche pausa e qualche contrazione di sopracciglia conferivano una speciale espressione.

    «Vedi... io non ho metodi speciali... Quelli che ti parlano di metodi polizieschi, sono dei bluffìsti... anzi, se si può chiamare metodo... ma no... è piuttosto un'abitudine la mia... ecco... io ho l'abitudine di far completamente astrazione dal delitto... o dal supposto delitto.

    «Come sarebbe a dire?»

    «Ascoltami... visto che vuoi passare questa breve licenza a seguire le elucubrazioni di un vecchio maniaco come me, invece di seguire le indossatrici di rue de la Paix... come farei io al tuo posto...

    «L'hai fatto davvero quando eri giovane?»

    «No... ma tu sei un brillante ufficiale, io alla tua età ero viceispettore costretto a passare il tempo impalato a un angolo di strada, per sorvegliare uno spaccio clandestino di tabacchi o di liquori adulterati... Ma lasciamo andare... Dunque, ti dicevo... io faccio astrazione dal presunto delitto, e credo che non ci sia peggior cosa che fissarsi nell'idea che un delitto è stato commesso. Io mi fermo invece sui protagonisti del fatto... per ora non ne abbiamo che uno... Charles Boyer... ebbene io mi fermo su Charles Boyer, me ne imbevo, mi compenetro in lui, rivivo idealmente la sua vita quale presumibilmente è stata, soffro i suoi dolori, condivido le sue speranze, frequento se posso gli ambienti che frequentava lui, insomma ripeto la sua esistenza, con la maggior precisione possibile, e intanto, con i pochi oggetti che ho a mia disposizione... in questo caso un paio di scarpe, una tessera teatrale, la fotografia del morto, un portafogli contenente poche carte inutili, cerco di ricostituire la sua figura fisica e morale.»

    «Il metodo di Cuvier, con le ossa degli animali preistorici» interruppe ridendo l'ufficiale.

    «Ecco... proprio... il metodo di Cuvier... Ma attento a non lavorar troppo di fantasia... a non far parlar il bottone della giacca e la cenere del sigaro, se no ricaschiamo nel sistema inglese delle deduzioni, che io non posso soffrire.»

    «Ma perché ce l'hai a morte con le deduzioni?»

    «Perché sono fantasticherie da romanzo... guarda, per esempio, le uscite clandestine di Catherine Boinot, quante cause possono avere? Moltissime. La donna poteva uscire per andare da un amante, oppure da un parente del quale, per una ragione che noi non sappiamo, la donna vuol nascondere l'esistenza; o poteva anche seguire l'uomo per motivi di gelosia... poteva, insomma, uscire per cento motivi, non escluso quello delle piccole spese come sostiene lei.»

    «Sì... ma la portinaia...»

    «La portinaia può avere del rancore, della gelosia, non ricordare bene e sostenere una versione per la stupida paura di contraddirsi... il valore delle testimonianze è quasi nullo, ogni giudice te lo potrebbe confermare.»

    «E allora?»

    «Allora siediti a questo tavolino, così vediamo passare un po' di gente... beviti un Martini come te lo farò preparare da Totò che è un ex barman di casa Rothschild, e poi segui il mio ragionamento... Tutto quello che sappiamo di certo, è che il pittore Charles Boyer, del quale non è stato possibile trovar traccia all'anagrafe, e che quindi chiameremo il sedicente Boyer, era un genialoide; vagamente conosciuto negli ambienti di Montmartre, per avere esposto due volte agli Indipendenti. Quest'uomo conduceva vita ritiratissima e voleva bene a sua moglie e al suo bambino; tutti i vicini di casa concordano in questo. Viveva miseramente, ma tuttavia manteneva se stesso la donna e il bimbo. Con quali mezzi? Quadri non ne vendeva. Il lavoro dei bozzetti pubblicitari o dei campioni di stoffa gli rendeva qualche cosa come milleduecento franchi al mese... abbiamo le fatture della ditta Lafarge di Lione che ce lo comprovano...

    «Milleduecento franchi a Parigi bastano per non morire di fame; però, in questi primi tre giorni di indagini, l'ispettore Rops, che in queste cose è abbastanza preciso, ha potuto rifare meticolosamente il bilancio di casa Boyer, e mi ha detto che gli mancano almeno quattro o cinquecento franchi per equilibrare le entrate con le uscite. Tu dirai che quattro o cinquecento franchi al mese poteva trovarli la donna, magari all'insaputa del pittore... è un'ipotesi, ma non più di un'ipotesi; quello invece che è certo, è che quando il Boyer si è presentato alla portinaia di rue Lepic, aveva più di trecento cinquanta franchi in tasca. Dove li aveva trovati, lui che il giorno prima aveva comperato solo due matite perché erano rincarate

    Il commissario Richard trangugiò l'aperitivo, poi riprese a parlare con aria distratta lasciando vagare il suo sguardo sulla folla che sciamava lungo i marciapiedi.

    «Noi abbiamo di positivo solo un paio di scarpe, delle quali non c'è traccia sugli sgabelli, un portafogli, con poche carte inutili, e una tessera del Circo Medrano. Per quel che riguarda le scarpe, è positivo che il Boyer non ha mai posseduto scarpe con la suola di gomma, lo ha confermato anche la donna, e siccome il ragazzo che ha portato il cavalletto, gli sgabelli e la tenda verde, è stato descritto dalla portinaia come inferiore ai quindici anni, è molto difficile che avesse dei piedi lunghi la bellezza di trentasette centimetri come quelli che hanno lasciato le impronte sullo sgabello... escluso quindi che il ragazzo nel montare la tenda verde davanti all'unica finestra di quel malaugurato studio, abbia lasciato le sue impronte salendo su uno sgabello, a parte il fatto che il ragazzo, sempre a detta della portinaia, era alto non più di un metro e cinquanta. Ora chi ha messo a posto la tenda, pur montando sullo sgabello, doveva essere, o alto come il Boyer, che era un metro e settanta, o più alto.

    «Allora è certo che un altro individuo, oltre il Boyer, è entrato nello studio...»

    «È molto probabile, ma non pensarci...»

    «Ma mi pare che questo sia il bandolo della matassa.»

    «Già, ma ti riporta al delitto e invece tu al delitto non ci devi pensare... tu devi supporre che il Boyer sia ancora vivo, hai capito? Anzi supporre che io sia Boyer... mi spiego? O se preferisci di esserlo tu, fingi tu di essere Boyer.»

    «Strano, mi pare un gioco.»

    «Appunto, un gioco...»

    «E ammesso che io sia Boyer, che cosa debbo fare?»

    «Mah... uscire questa sera a far due passi... io, naturalmente, ti accompagnerò.»

    «E dove andremo?»

    «Nell'unico posto dove possiamo supporre, su dati di fatto abbastanza certi, che, almeno una volta, il Boyer sia stato.»

    «Ossia.»

    «Ossia al Circo Medrano... Cameriere! Quanto due Martini? Ecco... Tenga il resto... Andiamo, che il coniglio in fricassea ci aspetta.»

    Mentre l'equilibrista sul filo si concentrava sui suoi pericolosi nonché monotoni esercizi e l'inevitabile pagliaccio al centro dell'arena infilava sciocchezze a rotazione, il tenente di vascello seduto in una poltrona di platea vicino al commissario Richard, andava almanaccando che relazione poteva avere quello spettacolo con l'impiccato di rue Lepic. Perché, aveva un bel dire lo zio che al delitto non bisognava pensarci, in realtà l'ufficiale non pensava che a quello, fino ad esserne addirittura ossessionato e gli faceva un po' rabbia vedere un uomo sulla cinquantina come lo zio, ridere fanciullescamente alle scempiaggini dei pagliacci. Giunti alla fine della prima parte, mentre il solito inserviente, seguito da un codazzo di pagliacci, faceva il giro dell'arena inalberando il cartellone con la scritta Dieci minuti di riposo, l'ufficiale credette doveroso rispondere allo zio che gli chiedeva se si era divertito:

    «Sì... non c'è male, per quanto io immagini che i numeri migliori si produrranno nella seconda parte.»

    «Già» rispose il commissario «peccato che questa seconda parte difficilmente la potremo vedere.»

    E prima che l'ufficiale potesse chiederne la ragione, il corpulento uomo fendeva la folla in direzione dell'uscita, fermandosi poi nell'atrio dove gl'inservienti distribuivano le contromarche al pubblico che sciamava verso il bar. Richard osservò a lungo quei rettangoli di cartoncino di vario colore, recanti su una faccia il timbro della direzione e sull'altra un annuncio pubblicitario, poi come se prendesse un'improvvisa risoluzione, si diresse verso una porticina sulla quale era scritto Direzione.

    Dopo aver bussato, zio e nipote furono ammessi in una specie di stambugio che aveva le mura tappezzate di fotografie e si trovarono in presenza di madame Medrano in persona che, vestita di un impeccabile abito da sera, stava discutendo con due signori che avevano tutta l'apparenza di artisti di varietà. Voltasi ai nuovi arrivati, la signora Medrano, con un lieve aggrottare di sopracciglia, chiese che cosa desiderassero.

    Il commissario salutò col migliore dei suoi sorrisi e fece il gesto di mostrare il risvolto della giacca. Prima ancora di aver visto la placchetta metallica la signora aveva licenziato i due interlocutori con un cenno della mano ingioiellata e con un altro cenno aveva invitato i nuovi arrivati ad accomodarsi.

    «Scusi, madame Medrano... si tratta di una piccola informazione.»

    «Dica pure, signor...»

    «Commissario Richard...»

    La signora accese una sigaretta e si dispose ad ascoltare.

    «Un momento fa, nell'atrio, osservavo gli impiegati mentre distribuivano le contromarche al pubblico.»

    «Ebbene?»

    «Ebbene, non ne ho vista nessuna del tipo di questa» e in così dire il commissario esibì la contromarca trovata nelle tasche del morto.

    La signora Medrano prese il rettangolo di cartone e restituendolo subito al commissario rispose:

    «È molto semplice... questa non è una contromarca, ma è quella che nel nostro gergo si chiama un biglietto di passaggio ossia un biglietto provvisorio, valevole per l'ingresso al palcoscenico, che la direzione rilascia al personale avventizio del quale si ha bisogno per determinati spettacoli.»

    «Per esempio...?»

    «Per esempio... uomini di fatica... figuranti... vestiaristi... comparse.»

    «E questo biglietto viene restituito alla direzione dopo l'uso?

    «No... come vede, porta la data del giorno di rilascio... allora, non essendo più utilizzabile per il giorno dopo non ha più valore.»

    «E lei tiene nota delle persone alle quali distribuisce questi biglietti?»

    «Certamente... che data porta quello?»

    «Sette novembre...»

    La signora Medrano schiacciò il mozzicone di sigaretta in un portacenere a ferro di cavallo, suonò un campanello, e volgendosi a un ometto occhialuto che era comparso da una porticina laterale, disse con voce leggermente autoritaria: «Signor Guillemet, il registro dei biglietti di passaggio.»

    L'ometto scomparve silenziosamente, e dopo poco ritornò consegnando alla direttrice un quadernetto rivestito di tela cerata. La signora Medrano lo sfogliò, e porgendolo al commissario, esclamò con un lampo di soddisfazione negli occhi:

    «Guardi sotto la data del sette novembre... ecco le firme di quelli che hanno ricevuto il biglietto di passaggio... Qui non si fa nulla che non sia regolato come un orologio.»

    Il commissario approvò sorridendo con un piccolo cenno della testa e si mise ad esaminare le firme elencate sotto il timbro viola del sette novembre. Quasi tutti nomi stranieri, in genere russi e tedeschi, ma non mancava qualche nome francese. Alcune firme erano poco chiare, altre chiarissime; fra queste balzava subito agli occhi il nome di Charles Boyer.

    Il commissario ricopiò coscienziosamente su un pezzo di carta l'elenco dei nomi poi disse:

    «Signora... è possibile sapere quali mansioni hanno espletato i firmatari di questo foglio?»

    «Ah, questo non glielo saprei dire, signor commissario, bisognerebbe chiedere a tutti i capireparto... capiscuderia, magazzinieri, attrezzisti, vestiaristi... ma la avverto che non sempre i capireparto conoscono per nome gli avventizi che vengono magari per un giorno solo e poi non si fanno più vedere.»

    «Charles Boyer è venuto per dodici sere di seguito» ribatté tranquillamente il commissario sfogliando il quaderno di tela cerata.

    La signora Medrano accese un'altra sigaretta per nascondere il suo turbamento, poi chiese con un leggero tremito nella voce:

    «È successo qualche cosa di grave?»

    «Niente che possa danneggiare lei... Si tratta di questo... il signor Charles Boyer si è impiccato.»

    In quel momento giunse attraverso l'assito delle pareti una fragorosa risata del pubblico; evidentemente la seconda parte dello spettacolo era incominciata. Nello sgabuzzino ci fu un attimo di silenzio, poi la signora Medrano premette nuovamente il tasto del campanello.

    «Signor Guillemet, faccia venire uno alla volta tutti i capireparto.»

    Incominciò quindi la sfilata del personale direttivo del dietroscena.

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