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E guardo il mondo da un oblò
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E guardo il mondo da un oblò

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L’esperienza è fatta di piccoli episodi che a volte sembrano irrilevanti e che sono del tutto casuali. Che appartengano alla vita nostra o degli altri, che siano tristi o divertenti, recenti o lontani nel passato, per farne tesoro vanno osservati e analizzati. Ognuno lo fa dalla propria prospettiva.

L’autore, come Gianni Togni in Luna, da molti anni guarda il mondo dal suo oblò, una finestrella tonda che lo aiuta a scegliere le esperienze, filtrarle, trarne qualcosa di bello o di utile. In questo libro ci sono alcune cose che Gianfranco D’Amato ha visto e che ha deciso di conservare nella sua memoria.

Gianfranco D'Amato, all’anagrafe Giacomo, è ingegnere elettronico e scrittore per hobby. Manager in diverse aziende multinazionali e imprenditore, ha scoperto la scrittura da giovane ma solo dopo alcuni anni ha avuto il tempo per coltivarla. Gioca a basket ed è appassionato di sport in generale, di musica e della vita in mare.

Ha già pubblicato Mi ritornano in mente, un libro sulle canzoni italiane degli anni 70 e 80. E’ membro del team fondatore del blog Faremusic.it. Vive a Milano.

LanguageItaliano
Release dateNov 8, 2016
ISBN9788822863126
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    Book preview

    E guardo il mondo da un oblò - Gianfranco D'Amato

    origini

    Prefazione

    Le piccole storie raccontate in questo libro, sempre in bilico tra ricordo e annotazione attuale, potrebbero in apparenza sembrare facili esercizi di memoria, un puro divertimento dell’autore, ma così non è.

    Lo svolgersi della vita individuale, qualsiasi essa sia, e di un pensiero correlato, attraverso la parola scritta può rivelare sfuggenti particolari dell’affollato palcoscenico umano di cui spesso dimentichiamo l’importanza, soprattutto in momenti storici attraversati da esasperato individualismo, com' è il nostro.

    Conoscere e capire gli altri aiuta a conoscere e capire noi stessi, per arrivare così al senso compiuto di una convivialità diffusa; al contrario, se abdichiamo verso la strisciante autoreferenzialità, con inesorabile lentezza saremo spinti verso quella temuta solitudine di cui molti soffrono.

    Questo lavoro, lontano da fronzoli lessicali, contiene sia emozionanti esperienze giovanili, spesso condivise con altri, dove possiamo ancora assaporare la fragranza di un mondo sociale che non esiste quasi più, anche se poco distante negli anni, sia avventure contemporanee, in tutte le loro sfaccettature, sospese in una realtà oscillante tra dolce malinconia e divertente ironia.

    La consapevolezza della velocità con cui scorre il nostro quotidiano porta Gianfranco a fermarsi per riflettere sul significato dell’esperienza e l’arricchimento che questo gesto può regalare al futuro prossimo ancora da scoprire:

    "La nostra vita è un percorso, con mille diramazioni, che incrocia il percorso di migliaia di altre persone.

    Alcuni di questi incroci ci hanno insegnato qualcosa, altri ci riportano alla memoria vicende tristi o felici.

    Altri ancora ci ricordano quanto siamo stati fortunati."

    La semplice leggerezza è cosa difficile da raggiungere, soprattutto nell’arte, perché implica aver viaggiato prima in profondità e poi, spogliati da ogni sovrastruttura inutile, riuscire a fluttuare nell’aria. Le frasi in corsivo sopra riprodotte, prese dal racconto Agata, sembrano uscite dalla penna di chi sta compiendo tale virtuoso percorso. È riuscito il nostro eroe nell’intento?

    Forse, chissà. Lo scopriremo solo leggendo.

    All’amico Gianfranco con stima e affetto

    Gianni Togni

    Introduzione

    La capacità di evoluzione degli individui è legata essenzialmente ad una sola caratteristica principale.

    Sia che si tratti della sopravvivenza delle specie animali sul pianeta, sia di creare le condizioni migliori di vita sociale per gli esseri umani, la parola chiave è sempre la stessa: esperienza.

    Si dice che una nota multinazionale finlandese che si occupa di telecomunicazioni, proprio nel suo periodo di massimo splendore, scegliesse con cura i suoi dirigenti di primo livello tra coloro che in passato avessero commesso un grave errore manageriale. La cultura di quella azienda era appunto basata sul principio che solo chi ha sbagliato ha la possibilità di imparare dai propri errori ed evitare di ripeterli in situazioni teoricamente più pericolose. In fin dei conti applicare l'esperienza sarebbe facile. La realtà dimostra che non è così.

    Spesso non è l'esperienza a prevalere ma la cocciutaggine insensata, l'ideologia assoluta e miope, la mancanza di senso critico. E allora sono guai.

    Dalle guerre assurde che vanno avanti da decenni fino alle storie quotidiane di chi sbatte la testa e non riesce ad uscire dal tunnel, grandi e piccoli problemi dell'umanità dipendono quasi sempre dalla mancata capacità o volontà di utilizzare l'esperienza.

    Ognuno ha la propria, e in fin dei conti è fatta di piccoli episodi, che a volte sembrano irrilevanti e che spesso sono del tutto casuali.

    Questi episodi, della vita nostra o degli altri, tristi o divertenti, recenti o lontani nel passato, vanno osservati e analizzati. Ognuno lo fa dalla propria prospettiva.

    Io li osservo e li analizzo attraversò il mio personale oblò, una finestrella tonda che mi aiuta a sceglierli, filtrarli, trarne qualcosa di bello o di utile. Presi uno per uno non significano granchè. Ma tutti insieme, quando si accumulano con il tempo, diventano una riserva di saggezza e di buon senso.

    Ho pensato di racchiudere in questo libro alcuni dei miei sguardi sul mondo e sul passato attraverso questo oblò. Il destinatario principale di questa raccolta di brevi capitoletti è ovviamente mia figlia. Alcuni episodi li conosce già per averli sentiti, altri no. Se e quando vorrà, li leggerà, magari tra qualche anno, per capire qualcosa di più su come la pensa suo padre.

    E magari li aggiungerà a quelli che nel frattempo avrà visto attraverso il suo oblò e conservato nella memoria.

    * * *

    Come spiego nel seguito del libro, la mia evoluzione personale mi ha portato a cambiare vita in età piuttosto matura. Una circostanza grazie alla quale ho potuto finalmente dedicare del tempo a delle attività che avevo sempre dovuto accantonare, come la musica e la scrittura.

    La prima cosa che ho fatto è stata quella di combinare queste due passioni realizzando un piccolo sogno: scrivere un libro sulla musica.

    In Mi ritornano in mente ho raccontato le storie, gli aneddoti, gli episodi che ci sono dietro le canzoni della memoria degli italiani. Quelle che tutti, ma proprio tutti, conosciamo.

    Per farlo, ho raccolto i dietro le quinte di centinaia di canzoni direttamente dalla voce degli autori che le hanno scritte. Un’esperienza fantastica per un appassionato come il sottoscritto, curioso com’ero di sapere il più possibile su questa materia. Questo era l’obiettivo principale nel preparare il lavoro e credo di averlo raggiunto.

    Quello che invece non potevo prevedere era che avrei trovato anche dei cari amici proprio tra quel genere di persone che ammiro di più, quelli che hanno un talento speciale per la musica. E, addirittura, ritrovarmi amico di alcuni idoli della mia adolescenza.

    Evidentemente la passione comune, a prescindere dal talento, ha creato con molti di loro un’empatia speciale.

    Uno di questi grandi artisti è Gianni Togni.

    Mi ricordo perfettamente quando andai a trovarlo a casa sua nel centro di Roma la prima volta. Erano passati molti anni da quel favoloso 1980, in cui avevo sedici anni e tutti noi adolescenti ascoltavamo due canzoni: Video killed the radio stars e Luna.

    Luna. La canzone del primo liceo, i nuovi professori e la scoperta della filosofia, un bellissimo campionato di pallacanestro, le prime fidanzate. Ricordi dei sedici anni, ricordi indelebili.

    Mi tornò tutto in mente mentre camminavo per le vie intorno a Piazza Navona alla ricerca della casa di Gianni. L’incontro con lui fu la materializzazione di quella che era stata nei trentatre anni precedenti soltanto la voce di molte bellissime canzoni.

    La chiacchierata durò molte ore, bel oltre il previsto. Alla fine Gianni mi fece un grandissimo regalo: si mise al piano a cui l’aveva composta e mi cantò Luna.

    Eravamo tornati per tre minuti nel 1980, quando io ero un ragazzino di sedici anni e lui un giovane di ventiquattro che entrava in milioni di case con una canzone fantastica. Un’emozione indimenticabile.

    Gianni iniziò con la sua voce inconfondibile: "E guardo il mondo da un oblò…"

    Anche io da molti anni guardo il mondo dal mio oblò come lui.

    Nel seguito di questo libro ci sono alcune cose che ho visto.

    Il bivio

    In famiglia se ne era parlato. Agli amici l’avevo detto da tempo. Una trentina d’anni passati prima a studiare roba assurda e poi a districarsi nei meccanismi infernali delle multinazionali rappresentano un pezzo di vita ragguardevole. Ne avevo abbastanza e mi ero detto: Basta. A cinquant’ anni cambio vita.

    E’ sempre difficile abbandonare il certo per l’incerto. Siamo tutti, chi più chi meno, legati alle consuetudini, alla quotidianità, alla tranquillità di quello che conosciamo. Diffidiamo dell’ignoto per questioni ancestrali. Ma il fatto è che alcune situazioni lavorative hanno tutti i difetti: da un lato la quotidianità le rende sempre uguali, dall’altro non sono affatto tranquille ma, al contrario, comportano ogni santo giorno dosi massicce di stress e tensione.

    E allora, dopo decenni di questa vita, uno comincia a farsi delle domande molto serie.

    Oddio, non tutti se le fanno.

    In realtà i commenti di molti furono: Vuoi lasciare questa situazione così favorevole ? Ma sei matto ? Oppure: In tanti vorrebbero essere al tuo posto. Commenti comprensibili. Ma provenienti da chi vedeva le cose dall’esterno.

    Capiamoci, lungi da me l’idea di lamentarmi. Appartengo alla schiera dei fortunati che hanno sempre avuto scelta e che hanno deciso liberamente quello che volevano fare. Con la mia professione ho potuto realizzare cose interessanti, e ho avuto diverse soddisfazioni.

    Ma c’è un momento per ogni cosa.

    Da giovane neolaureato guardavo alle multinazionali come ad una specie di mondo ideale, internazionale, in cui si viaggiava, si lavorava con persone di grande esperienza, che conoscevano chissà quante cose. Insomma il mondo degli yuppies che vedevo in TV e al cinema mentre finivo gli studi dopo la metà degli anni 80, l’epoca dell’ottimismo più sfrenato degli ultimi sessant’anni. Sembra un secolo fa.

    Con la laurea ancora arrotolata e non ancora incorniciata dovevo solo scegliere l’azienda in cui lavorare.

    Prima scelsi la città, Roma, poi con calma l’azienda che, a occhio, mi ispirava di più, una multinazionale svedese. Volevo quel contesto e quell’ambiente, volevo vivere qualche anno all’estero. E’ andata esattamente così. Ho fatto esattamente quello che volevo.

    I primi anni me li ricordo come una specie di vacanza. Molta gente racconta di fatiche pazzesche affrontate con il primo lavoro. Per me fu il contrario. Dal punto di vista intellettivo, mai e poi mai avrei potuto affrontare situazioni più complicate di quelle dello studio all’università.

    Nel tempo ne ho viste di tutti i colori e ho dovuto mettere in campo molte conoscenze ed abilità molto diverse da quelle accademiche, ma le complicazioni inumane tipiche di certi esami non le ho mai più incontrate.

    Poi c’è il fatto che ero un ragazzo, quindi al riparo dalle grosse responsabilità. I dirigenti sudavano e si prendevano le grane grosse, i ragazzini facevano il lavoro leggero. Io ero al marketing, avevo scelto la collocazione più lontana possibile dalle questioni prettamente tecniche, per le quali con lo studio avevo superato il livello di saturazione.

    Quell’attività, a metà tra la conoscenza del prodotto e gli aspetti commerciali, mi piaceva, mi era congeniale. La dimestichezza con l’inglese aveva fatto il resto e mi aveva immediatamente proiettato nel contesto internazionale. Mi mandavano dappertutto a rappresentare l’Italia o a presentare le nostre soluzioni ai clienti. Mi divertivo.

    Poi i primi riconoscimenti da parte dei capi, gli anni all’estero, i cambi di mansione, di azienda. Un percorso di crescita che presupponeva situazioni economiche sempre più vantaggiose, responsabilità di rilievo, staff significativi, nonostante l’età fosse ancora quella di uno junior.

    Ho sempre pensato che le sfide si devono accettare. Con coraggio. Al limite si cade e poi ci si rialza. La sensazione più brutta è il rimpianto. Portarsi dietro tutta la vita frasi come: chissà cosa sarebbe successo se avessi accettato di…, non era per me.

    E così ho fatto quasi sempre delle scelte molto azzardate lasciando lidi sicuri per situazioni a rischio. Una volta anche con una figlia appena nata ancora in ospedale, per mettere in piedi la consociata italiana di una multinazionale che non aveva nemmeno la partita IVA.

    E’ andata sempre bene.

    A pensarci oggi, guardando quello che succede alla gente che ha un lavoro normalissimo e che fa i salti mortali per non perderlo, sembrano scelte da pazzi e sembra passato davvero un secolo. Ma erano appena gli anni 90.

    Ma a un certo punto le cose cominciarono a cambiare.

    Un po’ per l’età che avanzava, un po’ per le sfide che diventavano sempre più spinte, un po’ perché nel frattempo ero arrivato in un contesto diverso e competitivo oltre ogni logica, cominciai a vedere con altri occhi quel mondo che mi era congeniale.

    La nuova azienda, a stelle e strisce, adottava criteri troppo aggressivi e sprezzanti, in una fase di mercato in cui serviva prudenza.

    I ritmi diventarono quasi impossibili. Le mie responsabilità, soprattutto a proposito del lavoro di moltissima gente che nemmeno conoscevo e che dipendevano da me in diversi paesi del mondo, aumentarono e diventarono molto serie. I viaggi massacranti. Il tempo per il resto praticamente inesistente.

    L’episodio che mi fece riflettere fu un compito sul papà di mia figlia, che aveva sette o otto anni. Scrisse: Voglio molto bene al mio papà, ma non lo vedo quasi mai.

    Forse avrei resistito ancora. Non mi mancava la forza. Ma venne a mancare la voglia a causa del clima in cui si lavorava, della tensione continua di giornate interminabili. Posso certamente affermare che il 30% del tempo era dedicato effettivamente a raggiungere dei risultati, a volte ambiziosissimi, a volte assurdi e al limite del ridicolo, ed il 70% a coprirsi le spalle, alla politica.

    Chi vede parlare in televisione i politici si accorge dell’abisso che esiste tra la capacità di gestire le situazioni dialettiche, in cui tantissimi sono maestri, e quella di fare le cose, questione molto più complicata.

    Pochi tra i non addetti ai lavori sanno che non è così solo in parlamento ma anche nelle aziende. Non in tutte forse, ma in moltissime. E più il fenomeno è accentuato più l’azienda in questione è a rischio di implosione. La ragione è evidente: i manager affinano al massimo le proprie capacità politiche, che sono del tutto personali, e non hanno tempo per affrontare i problemi reali lavorando in team. In teoria si rema tutti insieme per il bene dell’azienda, in pratica assolutamente no. Appena le difficoltà aumentano tutti sono preparati a scaricare la colpa sugli altri, ma questo non evita che la barca affondi.

    Certe riunioni degli ultimi tempi erano diventate insopportabili. Certi riti disgustosi. Ricordo le cosiddette pre-riunioni. Si trattava di riunioni tra pochi manager del gruppo, due o tre dei dieci/dodici che gestivano la multinazionale. Si tenevano la mattina prestissimo, verso le 7.00, prima della riunione del board. Servivano a stabilire alleanze, a mettersi d’accordo su cosa dire e in quale particolare momento della riunione per convogliare discussione e decisioni nella direzione voluta o per mettere in minoranza l’avversario di turno.

    Mi ricordo questo bar anonimo di Manhattan in cui ci trovavamo in segreto prima della riunione ufficiale che aveva una sala nel retro. Noi discutevamo con l’attenzione già a mille di prima mattina, mentre ai tavoli vicini gente assolutamente tranquilla beveva caffè e mangiava bagel con crema di formaggio e marmellata. Odiavo quel bar e invidiavo qualsiasi poveraccio vicino al mio tavolo che faceva colazione tranquillamente e si accingeva ad una giornata in cui nessuno avrebbe tentato di colpirlo alle spalle.

    Poi andavo alla riunione mensile, per piombare in quel clima pesante, di sospetto, di tensione continua. Tutti sulla difensiva, preoccupati di uscire dalla sala delle riunioni con vista sui

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