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Nina Tempesta e le ceneri di Hilde
Nina Tempesta e le ceneri di Hilde
Nina Tempesta e le ceneri di Hilde
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Nina Tempesta e le ceneri di Hilde

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About this ebook

Nel Regno dei Calderoni, e in particolare nella capitale Stregonessa, dove convivono umani e Gente Magica, Nina Tempesta, uno gnomo-detective diventata strega, si trova a fronteggiare una pericolosa lotta generazionale tra Streghe della vecchia e della nuova guardia.
Tra un’avventura e l’altra, mentre cerca di sventare i piani dell’ostinata e temibile Yvette, e tanti personaggi, scienziati, briganti, stregoni, soci in affari che litigano, scappano, pensano, corrono e si innamorano, Nina Tempesta si domanda che cosa conti davvero nella vita. Questa ed altre questioni, come la ricerca della verità, il rapporto tra scienza e natura e il senso dei valori sono i temi profondi trattati con leggerezza in questo romanzo ricco di movimento e di invenzione.
LanguageItaliano
Release dateNov 2, 2016
ISBN9788866903246
Nina Tempesta e le ceneri di Hilde

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    Nina Tempesta e le ceneri di Hilde - Nicoletta Parigini

    Nicoletta Parigini

    Nina Tempesta e le ceneri di Hilde

    EEE-book

    Nicoletta Parigini, Nina Tempesta e le ceneri di Hilde

    Prima edizione e-book: novembre 2016

    © EEE_book http://www.edizioniesordienti.com

    ISBN 9788866903246

    Tutti i diritti riservati, per tutti i Paesi

    Copertina: credits to Canstockphoto.com

    La ballata di Nina

    ovvero

    quello che accade prima dei fatti narrati in questo libro

    ovvero

    quello che accade in Nina Tempesta e il signor Schmitt

    Uomini, piccoletti e gente bruta

    stanno gomito a gomito, sull’isola perduta.

    Nina Tempesta e il suo socio Verdefoglia

    – cugino o buon amico, che dir si voglia –

    scendono da nord, oltre le foreste:

    seguono un cliente e cercano risposte.

    La famiglia di quel tale è complicata:

    Schmitt si chiama, per niente affiatata.

    La dicono Signora l’ex del suo cliente

    tra la Gente Magica è la Strega più potente,

    Nina la incontra al Sabba di Primavera,

    c’è in ballo roba grossa, diventa fattucchiera.

    Ma si è trattato di un abbaglio,

    di un semplice, crudele sbaglio:

    alla Schmitt la magia spettava di diritto

    lei che pur di averla, si macchiò di delitto.

    E poiché il malanimo matura in fretta,

    basta poco, Yvette dispone la vendetta.

    Ruba il Mandala, il gioiello degli eredi,

    di cui gli Schmitt sono custodi.

    La medaglia regala potere, magia...

    Yvette se la prende e in sua balia

    fa un colpo di stato, le Streghe rovescia,

    dichiara guerra, tregua non lascia.

    Difficile agire quando il cuore trasale,

    la paura ti strozza, il dubbio ti assale.

    Ogni strada che prendi ha un lato oscuro,

    cammini diritto ma non sei mai al sicuro.

    Fortuna che Verde fa ritorno di volata

    recupera la gemma che è stata violata.

    La regina s’infuria, è rimasta sola

    dal tetto del mondo giù a terra cola.

    O meglio, dalla cima del monte si sfracella

    Yvette la Schmitt che mai è stata bella.

    La guerra è finita, i soldati in feste

    Casa attende i Piccoli, oltre le foreste.

    Ma un granello brilla tra le ceneri, sul bastione:

    cercalo Nina, più dolce sarà la conclusione!

    Genealogia della Famiglia Schmitt

    Note: Marta fu la prima regina degli Uomini; Zoe, prima regina delle Streghe, le donò il Mandala. I discendenti di Marta, così, furono investiti del ruolo di Custodi del gioiello.

    La prima Schmitt dotata di poteri magici è Isabella: li ha ereditati da Hilde Theresa Cornelia Chiarodiluna Specchionero, Governatrice delle Streghe e moglie di Ivan Schmitt. Il matrimonio fra i due finisce poco dopo la nascita dei figli; Schmitt, in seguito, si unirà con Aurélie Giornofelice, madre di Dorothea.

    parte prima – la strega astrologa

    1 – Di nuovo in pista

    Li maledisse tutti quanti, urlò ogni possibile improperio al loro indirizzo, batté i pugni, si gettò per terra, spiccò un salto e poi saltò di nuovo e poi ancora. Finché saltò troppo vicino al ciglio dello sperone e finì giù. E per lei non ci fu scampo.

    Toccò il suolo con un orribile tonfo prima che la draghessa facesse in tempo a riacchiapparla al volo.

    (da: Memorie dei Sei Regni, libro ventinovesimo)

    «Salvami!» ordinò mentre sbatteva sulla roccia nuda con un orribile, molle, tonfo. Sentì distintamente il rumore delle ossa che scricchiolano, delle carni tenere che perdono consistenza. Frollate come una buona bistecca.

    Ma niente di tutto ciò doveva essere successo veramente perché dopo lo schianto si alzò da terra con uno scatto e si acquattò di nuovo, più rapida che poté. Se faceva finta di essere morta, rifletté, avrebbe avuto salva la vita. Proprio come uno scarafaggio.

    Contò fino a cento, poi mosse la testa. Il maledetto drago era un punto lontano. Un piccolo neo sullo sfondo turchino, immacolato, del cielo. Si tirò in piedi, fece un passo verso l’orlo del precipizio, si sporse e guardò giù per un breve istante.

    Una goccia di sangue le macchiò la scarpa. Si guardò attorno: una scia di cerchietti vermigli, sfrangiati e slabbrati, spiccavano sulla pietra polverosa.

    Yvette frugò nella tasca e tirò fuori il fazzoletto. Tamponò il mento nel punto in cui sentiva la pelle tirare, ripiegò la pezzuola e strofinò via la macchia dal décolleté. Poi lasciò cadere quel cencio sporco oltre la sporgenza rocciosa. Il fazzoletto svolazzò giù, pigro ma deciso. E Yvette, seguendo il suo volo, si domandò come diavolo avrebbe fatto a scendere di lì.

    Ispezionò palmo a palmo la ristretta superficie in cui era confinata. Aveva la forma di una breve piattaforma quadrangolare, libera sull’abisso per tre lati e addossata alla montagna sul quarto. Era una delle terrazze che frastagliavano il profilo di quella specie di contrafforte sul quale l’aveva deposta il maledetto drago.

    Yvette si stese a terra e guardò giù: la scorza del pinnacolo appariva liscia e glabra. Non un appiglio, non una sporgenza, non un qualsiasi appoggio per il piede, si vedeva fino al terrazzo più vicino. E tentare di trovarlo scendendo alla cieca sarebbe stata follia. Yvette rotolò sulla schiena. Posò le mani sul petto e chiuse gli occhi. Tanto valeva arrendersi, aspettare la fine senza muovere un dito più del necessario.

    Il giorno si trascinò lento, inclemente come può essere l’attesa della morte. Al calare del sole, vide gli avvoltoi volare in circolo sopra di lei. Palpò il suolo, trovò una pietra, la scagliò in alto con un tiro sghembo. Il sasso rimbalzò sulla parete di roccia di fronte, tornò indietro, le ferì una gamba.

    Allora si alzò. Si trascinò carponi all’ombra della montagna, si appoggiò alla roccia con la fronte. La pietra conservava il calore del sole; Yvette assaporò quel tepore come se fosse stato quello di un abbraccio.

    Guardò su. Nonostante la vista dell’altezza le desse le vertigini, si disse che poteva provarci. Si spolverò la gonna e arrotolò le maniche del soprabito. Cercò un appiglio con le mani e i piedi, si issò con tutte le sue forze e cominciò a scalare la roccia.

    Non aveva corde, né chiodi, né moschettoni e, anche se li avesse avuti, non sarebbe stata in grado di utilizzarli. L’unico equipaggiamento in suo possesso era l’istinto di sopravvivenza che quella scheggia, ferendole la gamba, aveva risvegliato: scoprì che era appuntito quanto una scarpa chiodata e tenace quanto una fune robusta. Dopo qualche metro di arrampicata riuscì a issarsi su un’ampia sporgenza, invisibile dal basso: doveva essere lo spiazzo in cui l’aveva posata il drago. Guardò giù, verso il punto dal quale era partita; la vertigine era paralizzante. Distolse gli occhi, acquattandosi contro la parete alle sue spalle. Avrebbe voluto accucciarsi e non muovere più nemmeno un passo.

    Disse di nuovo salvami! ma non accadde nulla. Il Mandala non rispose una seconda volta. Perché doveva essere stato quel benedetto, miracoloso medaglione a premetterle di sopravvivere allo schianto. Quel medaglione che le era stato preso con l’inganno. Pensò alle sudice mani invisibili che l’avevano toccata per sfilarglielo dal collo e rabbrividì.

    La collera le diede nuovo slancio; Yvette si rialzò e ricominciò a scalare. Il fianco della montagna non era liscio come le era sembrato. Si domandò se fosse stata la paura, la folle paura dell’altezza, a nasconderle gli appigli giusti quel mattino: doveva salire il più possibile finché ci fosse stata luce. Forse dall’alto avrebbe scorto un valico, una stazione di drago-navetta, una baita, un riparo qualunque. Pregò che la notte non la cogliesse durante la salita.

    Così non fu. Centimetro dopo centimetro Yvette strisciò, tremando e gemendo, fino a una nicchia circolare abbastanza capiente da permetterle di sostare in relativa sicurezza e quando la notte s’infilò, buia e tremenda, fin nei pertugi della roccia, Yvette, immobile nel suo buco, osò lasciarsi andare alla stanchezza.

    Poco dopo l’alba ricominciò a salire. Il silenzio e la solitudine della montagna, la grandezza degli spazi e del panorama nitido erano opprimenti quanto la penombra di una stanzetta angusta e Yvette si domandò per quanto avrebbe potuto tirare avanti. Aveva fame e sete e sentiva la speranza morire pian piano, soffocata dalla sensazione che la meta – qualsiasi fosse – era al di là di ogni ragionevole tentativo di raggiungerla.

    Un rumore la sollevò per un istante dai cattivi pensieri. Yvette lo sentì farsi sempre più vicino. Si bloccò in ascolto di quello sbatacchiare lento, ritmico, come di una vela alla bonaccia. Si guardò attorno, la parete rocciosa le celava la vista nella direzione da cui giungeva il suono. Poi lo sciabordio cessò. Del terriccio franò dall’alto, Yvette sentì la polvere negli occhi.

    Perché ci hai portati quassù? disse qualcuno sopra la sua testa. Era una voce che conosceva! Dove diavolo l’aveva sentita?

    Perché qui sono state bruciate le spoglie della Signora delle Streghe rispose un’altra voce. Una voce che aveva un che di metallico e feroce.

    La voce di un drago! indovinò Yvette. Un drago doveva essere atterrato in cima al monte.

    E allora? disse di nuovo la prima voce.

    Il drago rispose: Non sapete quella storia sulla magia delle ceneri delle Streghe? Dicono che tra le ceneri delle grandi streghe rimanga un granello di magia...

    Bubbole! pensò Yvette.

    Si distrasse seguendo il filo dei propri pensieri. La magia alla fine l’aveva tradita. Eppure, rifletté, in quel momento non avrebbe desiderato altro. Se avesse posseduto la magia, sarebbe stata lei la più grande delle streghe; l’unica dotata di solido senso pratico. Che gliene importava della retorica maghesca? Che se ne faceva del loro codice d’onore? Delle loro tradizioni, delle loro sciocche leggende? Tutte panzane!

    Un nuovo brandello di conversazione catturò il suo interesse: Finiremo che sarò già troppo vecchia per fare la strega catturamostri...

    Yvette tese le orecchie. Il cuore accelerò: che ci faceva Nina Tempesta in cima al Monte Cristallo? Cos’era tornata a fare? Stavano cercando il suo cadavere?

    Yvette strisciò cautamente verso un riparo. Trovò un buco e vi si nascose. Da lì le voci dei suoi nemici giungevano ovattate, confuse. Capì che i due mezzatacca, e la draghessa con loro, cercavano qualcosa. Qualcosa di piccolo forse, un oggetto perduto in cima alla montagna. Che fosse il Mandala? Potevano essere idioti al punto tale da averlo perso lungo la strada?

    Sentì la draghessa urlare trovato!; Yvette si allungò oltre la nicchia, li sentì discutere, poi l’aria vibrò. Una pioggia di scintille scese dalla cima della montagna. Yvette allungò una mano, ne acchiappò una; senza pensarci formulò il desiderio di essere al sicuro, lontana da quel nido di roccia. E quando la draghessa, magnifica nella sua ritrovata livrea rossa e arancio, prese a tessere la danza tra le nuvole, gli unici ad ammirarla erano Genzianina e suo cugino Verdefoglia.

    «Santi Numi!» borbottò Yvette comparendo all’imbocco di un vicolo squallido e mal illuminato. Il frastuono prepotente di un giovane corso d’acqua faceva fremere l’aria. «Non si finisce mai di imparare...»

    Lisciò la gonna, spianò le maniche e si avvicinò al cartello AFFITTASI che pendeva sghembo sulla porta del suo vecchio ufficio. Le poche settimane di abbandono avevano spalmato i vetri di sporcizia: la scrivania si intravedeva appena e il vecchio calendario, sulla parete di fondo, era un rettangolo bianco coperto di scritte a penna e numeri sbiaditi.

    In giro non c’era nessuno, Yvette sollevò lo zerbino e recuperò la chiave; schiuse il battente con cautela, spingendo di lato la posta accumulata dietro alla porta. Diede una rapida occhiata alla stanza e poi alla strada dietro di lei, e si affrettò a entrare.

    L’ufficio era polveroso e immobile, Yvette puntò dritta alla scrivania e si lasciò cadere sulla poltrona. Era sfinita.

    Allungò le gambe sotto il tavolo, stese lentamente il palmo della mano. La scintilla diede un ultimo fremito e poi rimase immobile, scura e opaca.

    Di nuovo la magia. Di nuovo si era salvata grazie alla magia. La magia che la lambiva, sfuggente ed estranea. La magia che non riusciva a fare propria.

    Yvette raccolse il fascio di lettere e le scorse una a una. Tra vecchie bollette e pubblicità (che cestinò immediatamente), trovò una busta sigillata senza mittente. La soppesò per un istante, indecisa. Poi l’aprì.

    La carta portava in filigrana uno stemma bizzarro: un becco Bunsen che sprizzava scintille magiche sotto un alambicco panciuto, coronato da una ghirlanda di rotelle dentellate.

    Yvette si soffermò sull’intestazione. La lettera arrivava dal Laboratorio di Lillo Incantaunicorni, Magiscienziato e Inventore.

    Fece mente locale delle sue conoscenze: chissà se era un collega di suo fratello Ivan, si domandò, il titolare della Veleni & Co. di Fine di Forra; il primo Uomo ad aver avviato un’industria chimica nel Regno dei Calderoni. La Gente Magica – o almeno la maggior parte di essa – faticava ad accettare le novità e Schmitt era diventato subito il simbolo del cambiamento. Della ricerca, del progresso, della condivisione tra i popoli. Qualcuno, allora, lo aveva definito munifico e coraggioso pioniere della scienza!

    Solo il cielo sa quanto ci ha guadagnato Schmitt di tutti questi anni di liberalità, pensò Yvette. In realtà suo fratello era stato uno stupido ipocrita, si disse, e ora che la Veleni & Co. era distrutta, era rimasto con un pugno di mosche in mano. Uomo fra gli Stregoni. Creatura impotente in mezzo a un popolo di privilegiati.

    In fondo se l’era cercata.

    Yvette guardò il pulviscolo galleggiare in un raggio di sole che entrava diagonale dalla porta a vetri. Sapere che la fabbrica di Ivan era stata divorata dalle fiamme per colpa sua le dava un certo disagio. Non proprio rimorso, più una vaga amarezza. In verità Yvette aveva la sensazione che se suo fratello e il resto della sua famiglia l’avevano sempre sottovalutata, ora, dopo tutto quello che era successo, l’avrebbero addirittura ignorata.

    Tornò alla lettera di Lillo Incantaunicorni. Contemplò le righe, dense e regolari come file di formiche, fino alla firma. Colse qualche parola. Tecnologia... nuova scienza... opportunità... futuro.

    Ripiegò la lettera a formare un aeroplanino e lo lanciò contro la parete.

    Cosa avrebbe fatto ora? Se si fosse scoperto che era sopravvissuta, l’avrebbero arrestata e condotta nelle prigioni: tanto sarebbe valso, allora, perire contro la roccia.

    Si alzò, attraversò l’ufficio e sparì dietro la breve parete che celava l’entrata della toilette. Aprì la porta e un paio di scarafaggi s’infilarono dietro la tazza del water, Yvette fece un balzo e si aggrappò al lavandino. Alzò il viso, incontrò la sua immagine allo specchio. Trasecolò.

    Abbassò il coperchio del water e si sedette; tremava. Si costrinse a toccarsi: la pelle era liscia, molliccia. Del tutto insensibile.

    Si alzò di nuovo, cautamente, e tornò a guardarsi allo specchio. L’occhio e il sopracciglio sinistri scendevano orribilmente verso l’orecchio che penzolava, largo e piatto come una frittella, fino alla nuca, i capelli erano praticamente inesistenti. Il naso era tutto bugne e bozzi; bocca e guancia sbandavano verso la spalla. Un brutto taglio segava il mento in due come una pagnotta. Coprì la parte sinistra del viso con una mano: una lacrima scese dall’angolo dell’occhio buono e precipitò sul lavandino.

    Poi spostò la mano sulla parte sana. Riflessa nello specchio, vide un’altra persona.

    2 – Ritorno a Stregonessa

    ...e Nina sparì per ricomparire dopo un solo istante, strega da capo a piedi.

    (da: Memorie dei Sei Regni, libro trentaduesimo)

    Nina Tempesta si materializzò a Stregonessa.

    Passò lentamente tra macerie e accampamenti, prendendo tempo. Perdendo la strada.

    Finché, a pochi metri dalla tenda che faceva da quartier generale degli Stregoni, incappò nel signor Schmitt in persona che urlò: Ragazzi! Nina è tornata! e l’istintivo, inspiegabile moto di timidezza che aveva provato all’idea di ripresentarsi ai suoi amici dopo aver detto loro addio, si assottigliò e sparì. Soffiato via come fumo leggero.

    «Ma come hai fatto?» chiese Nadir Schmitt stringendola in un abbraccio. «Sei di nuovo strega!»

    Nina alzò una spalla. «Un regalo postumo di tua madre...» rispose.

    «Mia madre?»

    «Cosa c’entra nostra madre?»

    Nina e Nadir guardarono il rettangolo di luce oltre l’uscita della tenda. La figura di Isabella si disegnava contro il chiaro del mattino. La figlia di Hilde, Therese Cornelia Chiarodiluna Specchionero, Signora delle Streghe, si fece avanti.

    «Che c’entra mia madre?» disse di nuovo.

    «Credo si tratti del Granello di Magia...» indovinò lo stregone Cuordiradice.

    «È così» ammise Nina. «La draghessa mi ha portato sulla cima del Monte Cristallo e lì abbiamo trovato il Granello di Magia tra le ceneri della Signora. Così un attimo prima ero gnomo poi, improvvisamente, mi sono trasformata.»

    Cuordiradice tossicchiò. «La magia delle ceneri è potentissima, tuttavia...»

    «Erano le ceneri di mia madre!» lo interruppe Isabella. «Il Granello spettava a me!»

    La sensazione di disagio che aveva sfiorato Nina appena si era materializzata a Stregonessa l’avvinghiò soffocante come la stretta della Madreselva. Ora era più precisa: sapeva di inadeguatezza. Di illegittimità.

    Nina abbassò gli occhi. «Non ne avevo idea... Mi spiace» fu l’unico commento che riuscì a formulare. Alzò lo sguardo appena in tempo per vedere la sorella di Nadir uscire dalla tenda. La chioma scura che ondeggiava sulla schiena come un mantello.

    «Non dispiacerti troppo...» commentò lo stregone Cuordiradice quando Isabella fu fuori. «Il Granello decide da solo se farsi vedere. Non è detto che Isabella l’avrebbe trovato.»

    «Ci stai dicendo che il Granello è dotato di volontà propria?»

    Lo stregone non fece in tempo a rispondere. Un caposquadra dei soccorritori entrò nella tenda e si avvicinò con il passo deciso di chi non è abituato a bighellonare. Era completamente coperto di fuliggine; la barba e la divisa erano bruciacchiate qua e là.

    «Volontario Magico, squadra quartieri ovest, signor Cuordiradice!» si presentò. «All’Orto Botanico chiedono rinforzi: le carnivore sperimentali sono uscite di senno; hanno preso in ostaggio le colombe Spargiamore e hanno fatto capire che ne uccideranno una l’ora se non verrà loro assicurato un pasto a base di manzo al giorno!»

    «Le Dionaea Draconis, immagino...» disse Cuordiradice. «Le chiamano Venere Acchiappamosche.»

    «Proprio quelle...» confermò lo stregone. «Sparano fuoco: io mi sono salvato per un soffio.»

    «Allora non c’è tempo da perdere!» disse Cuordiradice. Si voltò verso i ragazzi, li salutò strizzando un occhio e sparì insieme allo stregone bruciacchiato.

    Nina, Nadir e il signor Schmitt rimasero soli nella tenda.

    «Di nuovo strega...» disse il giovane. «Potresti venire a stare con noi, qui a Stregonessa. «Insomma... voglio dire: finché non troverai una casa tutta tua, al quartiere delle Streghe... Sai, gira la voce che quest’usanza della separazione tra Streghe e Stregoni sarà la prossima a saltare.»

    «Tutte sciocchezze!» commentò il signor Schmitt sollevando gli occhi dai dispacci che stava esaminando. «La Gente Magica non lascia mai la strada vecchia...»

    «E se la nuova Governatrice delle Streghe fosse un’innovatrice?»

    «Non esistono innovatrici tra le streghe!» ribadì Schmitt. «E nessuna di loro oserebbe tanto.»

    «Nina potrebbe candidarsi: lei è senza dubbio una faccia nuova!»

    Il signor Schmitt alzò una spalla. «Senza offesa...» disse. «Chi la voterebbe?»

    «Io!» esclamò Nadir.

    Suo padre sorrise. «Scusatemi» disse «vado all’Orto Botanico: Cuordiradice potrebbe aver bisogno di aiuto.»

    «Quando è stanco diventa pessimista» disse Nadir appena il signor Schmitt li lasciò.

    «Devi ammettere che l’idea della candidatura è piuttosto ridicola» commentò Nina. «Una strega che era gnomo in corsa alle elezioni!»

    «E l’idea di trasferirti da noi?»

    «A essere sinceri...» balbettò. A essere sinceri avrebbe dovuto chiedere la felicità al Granello, pensò incoerentemente, e non credere di sapere cosa fosse o dove trovarla. Suo cugino Verdefoglia gliel’aveva sempre detto che era una bella presuntuosa.

    «A essere sinceri pensavo di andare dal Re dei Draghi: Miranda merita di riavere il brevetto per l’uso del fuoco. Volevo aspettare che il mio socio tornasse dalle ferie ma dalle mie parti dicono di non fare domani quello che si può fare oggi.»

    Nadir ridacchiò. «Hai concesso le ferie a Verdefoglia?»

    «In realtà se le è prese da sé...»

    «Non credo che Re Ferdinando accetti ingerenze di questo tipo» disse Nadir, tornando a parlare dei draghi.

    «Glielo dobbiamo... Se siamo riusciti a togliere il Mandala a Yvette è stato merito di Miranda. Il piano era suo.»

    «Lo ha fatto per puro interesse... Voleva il trattamento di bellezza promesso da Dorothea.»

    «Dunque secondo te non merita di riavere il brevetto?»

    «Non so se lo meriti o meno...» sbottò Nadir «ma non è necessario che tu te ne vada subito!»

    Nina non replicò.

    «Ti va di salutare Dorothea?» disse Nadir, impacciato dal silenzio che era calato tra loro. «Lavora per l’emergenza Distruzione dell’Istruzione.»

    «Cioè?»

    «Si è unita al gruppo di volontari che si stanno dando da fare in Biblioteca. Le macerie sono state sgomberate e adesso bisogna recuperare la montagna di libri danneggiati dai crolli...»

    Uscirono dal tendone. «Camminiamo?»

    Nina scosse la testa. «Troppo sole» disse e sparì.

    «Come mia madre...» borbottò Nadir, d’istinto, prima di teletrasferirsi. E il pensiero lo atterrì.

    Una parte dell’edificio della Biblioteca era crollata e quello che rimaneva era stato puntellato con delle travi di legno. Un anziano Magingegnere stava stava eseguendo una serie di incantesimi di rinforzo. Nina si avvicinò, lo vide sollevare le braccia e borbottare una sequenza di equazioni. Una delle travi s’ingrossò sensibilmente e il vecchio riposò per un istante, soddisfatto.

    «Che disastro, eh?» disse Nadir, comparendo accanto a loro.

    Il vecchio sollevò il caschetto e si asciugò sudore con la punta della lunghissima barba. «Non me lo dire, figliolo. È quasi come il terremoto del seicentosettanta. Che terribile tragedia quella, c’era distruzione e morte e disperazione ovunque. E pensare che l’epicentro era molto distante da qui e dai grossi centri abitati. Dicono che i picchi accanto al Monte Cristallo sprofondarono diversi metri nella terra. I topografi

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