Leila della tempesta: Un’avventura di dialogo tra le culture
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About this ebook
Dialoghi multiculturali trasposti in forma di prosa e poesia, frutto dell'esperienza di incontri pluridecennali tra un monaco cristiano e detenuti arabi/musulmani. Leila, giunta in Italia come clandestina, attraverso il mare, durante una tempesta sul Mediterraneo conoscerà in carcere un volontario con il quale intreccerà nel corso dei mesi un intenso rapporto, fatto di scoperte reciproche, scontri e incontri, sul filo di una scommessa: trovare punti comuni al di là di tutte le differenze reciproche.
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Book preview
Leila della tempesta - Ignazio De Francesco
Altrimondi
1
Ignazio De Francesco
Leila della tempesta
Un’avventura
di dialogo tra le culture
Presentazione di Piero Stefani
Postfazioni di Paolo Branca e Valerio Onida
Zikkaron
Collana Altrimondi
Iniziativa dell’Associazione Zikkaròn a.p.s.
Editing : Maria Caterina Bombarda
Illustrazioni copertina e interno : Maria Cristina Ghitti
ISBN: 978-88-99720-34-6, A stampa 978-88-99720-03-2
© 2016 Edizioni Zikkaron
42100 Reggio Emilia
e-mail: koinonia.montesole@gmail.com
www.zikkaron.com
Tutti i diritti riservati
Indice
Presentazione (Piero Stefani) vii
Leila della tempesta 1
Chiavi di lettura 131
Paolo Branca
Des Hommes et des Dieux 133
Valerio Onida
Una Costituzione in dialogo con le culture? 141
Ignazio De Francesco
Con Leila sui sentieri dell’anima 147
Presentazione
Piero Stefani
Il volto dell’Altro; andare incontro all’altro; conoscere l’altro; dialogare con l’altro. Quante volte abbiamo sentito ripetere simili inviti. Ormai sono frasi diventate quotidiani modi di dire più che di agire. Il fatto che stentino ad avere ricadute pratiche fa insorgere il sospetto che il discorso sia meno convincente di quanto non appaia a prima vista. Per scoprirlo occorre mutare prospettiva. Leila della tempesta ci aiuta a farlo. Basta scorrere l’elenco dei personaggi per accorgersi che tra essi ve n’è uno qualificato semplicemente come Altro. Il termine è riferito però proprio al protagonista che cerca di conoscere, di andare incontro e di prendere l’iniziativa di dialogare. In definitiva, l’«altro» siamo noi. Almeno ciò vale, in modo eminente, per il carcere, la situazione specifica in cui avvengono gli incontri raccontati in questo libro. Né va dimenticato che, nel trenta per cento dei casi, la popolazione carceraria è formata da immigrati.
I dialoghi si collocano dietro le mura di un penitenziario. Là vi è un’abbondanza di misure di controllo che demarcano una insuperabile diversità. Si è in un luogo separato, soggetto a regole rigide che tracciano un vero e proprio spartiacque tra «dentro» e «fuori». Tutto in quell’area è controllato. Quando la programmazione diviene cogente, l’autenticità di ogni incontro è già insidiata. Per saperlo non occorre essere in carcere: sono tante le situazioni in cui sono gli orari o le disposizioni esterne a dettar legge (i figli di coppie separate lo sanno a loro spese).
In prigione non si dà una piena bilateralità. Sia pure nel rispetto di regole precise, dall’esterno è dato recarsi di propria volontà all’interno, ma non viceversa (le eventuali uscite sono solo temporanee e stabilite da altri). I visitatori oltrepassano l’ingresso in un senso e in un altro, i carcerati attendono. La vita del visitatore che entra e esce resta caratterizzata soprattutto dal suo collocarsi nel «mondo di fuori»: l’ambito in cui ci si sposta, si lavora, ci si innamora e ci si sposa, si mettono al mondo figli; in cui si incontrano le persone per affari, per diletto, per caso o più semplicemente dove si è bagnati dalla pioggia o baciati da un sole non filtrato attraverso le grate. Nel penitenziario c’è chi liberamente viene e liberamente va, mentre c’è chi rimane. In simili circostanze si è davvero, per più aspetti, «altri agli altri». Anche ai visitatori più rigorosi con se stessi non è dato emanciparsi dal proprio ruolo. Pure loro varcheranno la soglia che li conduce all’esterno e là si muoveranno in un «mondo altro». Lo faranno anche quando il loro pensiero e il loro affetto rimangono dietro le sbarre. Nell’istituzione nata per segregare, ogni incontro è, per propria natura, asimmetrico.
Il carcere non è metafora, è realtà. Tuttavia, a patto di non negarne la dimensione effettiva, è dato intenderlo pure come simbolo di varie situazioni nelle quali l’incontro tra «altri» solo in parte corrisponde ai sinceri tentativi di divenire reciprocamente prossimo. Non tutti i muri sono di cemento, non tutte le grate sono di ferro. Non di rado le reciproche appartenenze sono paragonabili a inferriate. Le sbarre non precludono ogni scambio, i quadrati vuoti consentono agli occhi di vedersi, alle mani di toccarsi, agli orecchi di ascoltare le parole dell’interlocutore; con tutto ciò l’abbraccio resta precluso. Tra le gabbie metaforiche vi sono anche quelle identitarie: da un lato proteggono, dall’altro limitano lo scambio. Ciò vale in modo particolare quando l’identità la fa da padrona. È così anche per l’appartenenza a comunità religiose. Per queste ragioni, in anni recenti, una domanda è divenuta sempre più pressante: lungo quali itinerari i fedeli dell’una o dell’altra religione possono aprirsi all’incontro?
L’Altro conosce l’islam molto più a fondo della maggioranza dei musulmani. Per lui non fa problema neppure l’esistenza dei muri babelici: il Corano e gli scritti tradizionali sono letti nell’originale; l’arabo parlato affiora sciolto sulle sue labbra. Conoscere la lingua dell’«altro» è una forma di accoglienza rara. Di norma sono, infatti, le minoranze a doversi conformare all’idioma della maggioranza; ciò avviene sempre, anche quando non c’è alcun potere dittatoriale o coloniale che impone a tutti la propria lingua. Eppure, nonostante queste profonde conoscenze, malgrado un’empatia priva di incrinature, anche l’Altro si scontra con frammezzi immateriali. L’appartenenza di Leila all’umma, al pari della sua sincera adesione a determinate regole islamiche, condiziona in maniera palpabile gli incontri. L’appartenenza alla comunità musulmana impone norme vincolanti che delimitano un «dentro» e un «fuori». Esse pesano sui destini personali.
Limitiamoci a casi presenti in Leila della tempesta: a un musulmano è consentito di sposare una donna appartenente alla Gente del Libro (in primis, ebrei e cristiani), ma non viceversa; nonostante che ci sia un unico Dio a cui tutti devono la propria esistenza, il termine «fratelli» è riferibile solo ai membri dell’umma; ci sono, quanto meno, forti dubbi sulla sorte eterna di chi, dopo aver conosciuto la verità, non vi ha aderito; alcuni comportamenti presenti in altre comunità religiose risultano non solo incomprensibili, ma anche opposti a quanto prescritto da Dio. Giocano un loro ruolo anche altri fattori, tra essi usi e costumi che con il tempo si sono saldati con l’appartenenza religiosa; anch’essi incidono e non poco. Nei rapporti tra uomini e donne le esemplificazioni sono immediate. L’Altro lo sa e rispetta queste prassi. Una stretta di mano, un gesto nella Chiesa cattolica diventato persino liturgico, si effettua tra i due soltanto una volta per suggellare un congedo che ha tutta l’aria di essere definitivo.
Chi è animato dallo spirito aperto all’incontro e al dialogo (e ciò vale non solo nell’ambito interreligioso) vive all’insegna di due spinte divaricanti: da un lato è mosso dall’esigenza di superare steccati e di liberarsi da convenzioni discriminanti, dall’altro si propone di rispettare, anzi persino di amare, le convinzioni e le pratiche dell’«altro». Il cristiano che, come dice la parola antica, non si distingue dagli altri uomini per lingua, foggia del vestito o per un particolare modo di vita, è obbligato a misurarsi con chi vive l’appartenenza alla propria collettività all’insegna di regole distintive più vincolanti. Proprio nei momenti in cui è più intenso il desiderio di incontrare l’«altro», si tocca con mano che siamo noi a essere «altri per gli altri». Diviene allora pressante la necessità di trovare una base comune che, senza negarli, non sia circoscritta dai ricchi, eppur limitanti, recinti delle rispettive appartenenze religiose. Come ci si deve comportare quando ci si trova di fronte a regole che stabiliscono un lecito e un proibito non fondato su norme condivise da una coscienza etica orientata all’universale?
Secondo un approccio fenomenologico, le religioni sono, di solito, definite in base a tre parametri fondamentali: mito, rito, ethos. Per «mito» s’intende l’insieme dei principi e dei racconti fondativi di una religione; per «rito» le sue prassi cultuali, cerimoniali o di altra natura (per es. regole alimentari); dal canto suo l’ethos riguarda i comportamenti assunti nei confronti degli appartenenti alla propria comunità, delle altre componenti della società in cui si vive, o, a più vasto raggio, di tutti gli altri esseri umani. Nelle società liberal-democratiche rispetto alla sfera del mito è concesso a ognuno il diritto di professare liberamente le proprie convinzioni. Riguardo al rito, i membri di una comunità religiosa godono del diritto sia di comportarsi all’interno secondo le modalità loro proprie, sia di poter seguire anche all’esterno alcune delle loro peculiari prassi rituali. Il caso delle preghiere canoniche musulmane o del rispetto delle regole alimentari islamiche esemplifica bene i termini della questione. Più articolato è il discorso relativo all’ethos. Da una parte è certo che i comportamenti prescritti da ogni religione sono saldamente collegati ai principi, ai racconti fondativi e ai riti propri di ogni singola comunità; dall’altro è vero che l’ethos comporta un’interazione pure con persone e gruppi che non appartengono ad altri universi culturali