Una canaglia per amante: I Famigerati Flynn, #2
5/5
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Info su questo ebook
Un romance storico di Jess Michaels, autrice bestseller di Usa Today
Con due libertini per fratelli, Annabelle Flynn ha scelto per reazione di essere un’icona di purezza. Ma non è immune alla sensualità che serpeggia in famiglia. La turbano pulsioni che non osa assecondare. Sorda ai richiami della carne, si divide tra la ricerca di un buon partito e il tentativo di salvare il fratello dalla rovina. Finisce così per seguirlo al Donville Masquerade, una bisca in mano al misterioso Marcus Rivers.
Di giorno, Annabelle è una signora che aspira a un matrimonio decoroso nell’Alta Società in barba alla pessima reputazione dei fratelli. Di notte, si immischia negli affari di Marcus … e si ritrova sedotta nel suo letto.
Ma cosa potranno mai avere in comune, fuori dalle lenzuola, una signora non proprio per bene e un improponibile dissoluto? Sarà Annabelle disposta a rinunciare alla passione per una fredda e calcolata ‘perfezione’?
Lunghezza: Romanzo in versione integrale
Livello di sensualità: Bollente
Il romanzo fa parte della serie “I Famigerati Flynn” ma può essere letto anche singolarmente.
Jess Michaels
Jess Michaels always flips through every romance she buys in search of "the good stuff," so it makes perfect sense that she writes erotic romance where she gets to turn up the heat and let it boil. She also runs the popular website The Passionate Pen and writes historical romance as Jenna Petersen.
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Anteprima del libro
Una canaglia per amante - Jess Michaels
CAPITOLO UNO
MC900026832[1]Aprile 1814
Le gocce di pioggia scorrevano sui vetri della finestra come lacrime su un volto di donna. Annabelle Flynn si ritrasse con un brivido. In quel momento, alle lacrime non voleva pensare. E neanche alle delusioni, ai fallimenti o alle umiliazioni. Non alla vigilia della sua prima Stagione nell’Alta Società. Accennò un sorriso in direzione del fratello Rafe e di Serafina, sposi da meno di un anno.
Era difficile non sorridere, vedendoli all’altro capo della stanza, la testa di lui che sfiorava quella di lei. Il fratello, un tempo libertino, teneva la mano teneramente appoggiata sul ventre della moglie, in attesa del prossimo calcio del nascituro. Erano il ritratto della felicità domestica e dell’amore vero e appassionato.
Tutti articoli che ad Annabelle non interessavano, né che si aspettava, decisa com’era a tuffarsi nelle profonde acque del bel mondo londinese.
«Serafina, qualche consiglio per il ballo di domani?»
La cognata arrossì alzando gli occhi dal pancione. Rafe rise.
«Non lo chiedi a me?» la punzecchiò staccandosi malvolentieri dalla moglie. «Il duca? Il tuo chaperon?»
Annabelle roteò gli occhi. «Il tuo titolo vale solo un biglietto d’ingresso in Società, fratellone. Sei duca da neanche un anno, cosa puoi saperne?»
Rafe barcollò all’indietro e si portò teatralmente le mani al petto come se fosse stato colpito. Serafina trasalì appena e Annabelle non mancò di notarlo. Il fratello era stato davvero ferito, non molto tempo prima, e la moglie ancora tremava al ricordo, come spesso le aveva confessato.
«Mi ferisci» la canzonò. Poi si strinse nelle spalle e si diresse al mobiletto a versarsi un bicchiere di Porto. «Ma non posso darti torto. Mia moglie è senza dubbio una migliore consigliera.»
Serafina si avvicinò ad Annabelle e le prese dolcemente le mani tra le sue. Annabelle sorrise. Con il passare dei mesi, si era affezionata alla moglie di Rafe. Erano diventate amiche, quasi sorelle. E, sicuramente, più che cognate. Una vera fortuna. Nella sua cerchia, quasi tutte le amiche detestavano i rispettivi parenti acquisiti.
«Abbiamo ripassato così tante volte regole e aspettative, da quando hai annunciato il tuo interesse per la Stagione. Le conoscerai a menadito, ormai» la rassicurò. «Sii semplicemente te stessa, in barba alle norme, e nessuno potrà fare a meno di adorarti.»
Annabelle tenne il sorriso stampato sulle labbra, ma si sentì mancare. Essere se stessa. Oh, no! Era l’ultima cosa da fare. Da mostrare a chicchessia.
La sua vera natura era non poco pericolosa. Era meglio occultarla.
«Se soltanto potessi venire con me» sospirò.
Serafina si toccò ancora il pancione. «Verrei, se non si vedesse già così tanto.» Rivolse un sorriso a Rafe. «Ma ho pregato tuo fratello di comportarsi come si conviene. E poi, hai fatto amicizia con Georgina Hickson. Sarà una guida perfetta.»
Annabelle annuì. Aveva incontrato Georgina a uno dei ricevimenti organizzati da Serafina alcuni mesi prima. Figlia di uno dei rampolli più giovani del Marchese di Willowbath, la coetanea conosceva alla perfezione le regole del bel mondo. Erano diventate amiche.
Non sarebbe stata sola. Anche se a volte era così che si sentiva.
Avvertendo su di sé gli occhi di Serafina, Annabelle scacciò quei pensieri. Meglio non angosciare la cognata.
«A nostra madre è dispiaciuto non poter essere dei nostri, stasera» divagò. «Non riposa bene ed è affaticata.»
L’affermazione bastò a spegnere il sorriso di Rafe. «Sì, non aveva una bella cera l’ultima volta che siamo stati da lei. Cosa la tiene sveglia?»
Annabelle inarcò il sopracciglio e incrociò lo sguardo interrogativo del fratello. «Prova a indovinare?»
Rafe si lasciò sfuggire un lungo sospiro. «Crispin?»
«I guai di nostro fratello sembrano aumentare di giorno in giorno. Non l’ho mai visto così sregolato.»
Serafina abbassò la testa, con evidente senso di colpa. «Da quando ci siamo sposati, sembra non avere pace.»
Rafe guardò la moglie e scosse la testa. «Le decisioni di Crispin sono solo sue. Non puoi accollartene la responsabilità, tesoro.»
Anche Annabelle provò a rassicurarla. «È vero» rincarò stringendole la mano. «Da tempo nostro fratello è alla deriva. Non è stato il vostro matrimonio a cambiare il quadro.»
«Lo ha solo peggiorato» mormorò Serafina.
Rafe scrollò le spalle. «Lo supererà. L’ha sempre fatto.»
Annabelle si tese. Rafe lo ripeteva da mesi, ma a lei non sembrava che Crispin stesse superando alcunché.
«Come possiamo aiutarlo? Cosa dovremmo fare?» lo incalzò.
«Non c’è nulla che possiamo fare. Se Crispin ha deciso di distruggersi, possiamo soltanto attendere che rinsavisca.»
Rafe si allontanò e Annabelle si strinse nelle spalle. Ne aveva discusso così tante volte con lui, Serafina e sua madre, da sapere che non avrebbe cambiato idea. Il fratello era sempre stato legatissimo a Crispin, ma ora lei temeva che non gli riuscisse di vedere la verità. Almeno la verità che lei riusciva a vedere.
Crispin stava precipitando in una spirale fuori controllo, con grave danno per sé, ma anche per lei. Il delicato processo di accettazione della famiglia Flynn nell’Alta Società poggiava unicamente sul titolo che Rafe aveva ereditato l’anno prima da un disgraziato cugino.
Le possibilità che Annabelle trovasse un buon partito e si assicurasse un ordinario e sereno futuro erano incardinate nei comportamenti, oltre che nel rango. In passato, entrambi i fratelli le avevano messe a repentaglio e Crispin avrebbe potuto farlo ancora, se le sue bravate gli avessero fatto perdere definitivamente il controllo.
Non voleva che i guai di Crispin potessero danneggiare lei o Rafe.
Serafina la cinse con un braccio e la riportò al presente, «Ti fermi da noi stanotte?»
Annabelle sorrise. Era diventata ormai una consuetudine per lei dormire a casa di Rafe e Serafina, chiacchierare fino a notte fonda e trascorrere lunghe mattinate felici in compagnia della cognata.
«Naturalmente» le confermò. «Rafe mi ha detto che avete finito di arredare la nursery.»
Il volto di Serafina s’illuminò e la sua bellezza, già radiosa, si fece abbagliante. «Sì.»
«Mi piacerebbe vederla» disse Annabelle abbracciandola.
«Vieni.» Serafina le fece strada nella stanza con Rafe al seguito. «Vorrei un tuo parere sui colori.»
Annabelle sorrideva e annuiva alla gioiosa descrizione degli arredi, ma non riusciva a impedire alla mente di divagare. L’attanagliava la paura che il suo debutto in Società si tramutasse in un fallimento e che un’unica larga pennellata cancellasse per sempre ogni futuro.
MC900026832[1]Marcus Rivers percorse a grandi passi l’ampio atrio del Donville Masquerade con l’abituale sicurezza che lo contraddistingueva. Dopotutto, quello era il suo regno, la sua fonte di reddito, il suo lavoro, la sua vita. E poco importava che l’ingente fortuna fosse stata accumulata gestendo un equivoco locale molto privato, all’insegna di sesso e gioco d’azzardo.
Quasi non faceva più caso alle dissolutezze che vi si consumavano in ogni angolo. Gli avventori mascherati, le donne discinte, gli uomini che ipotecavano vita e futuro scommettendo sulla velocità alla quale una goccia d’acqua fosse scivolata sul vetro di una finestra … nulla per Marcus faceva più nessuna differenza.
Era un mezzo per raggiungere un fine.
Girò attorno a un tavolo e si diresse alle scale che conducevano all’ufficio al primo piano. Una donna inguainata in un abito da sera scarlatto, scandalosamente impalpabile, con il volto celato da una maschera piumata, gli finì addosso ridendo. Lui l’afferrò per le braccia per impedirle di cadere all’indietro e dal sorriso capì che l’aveva fatto di proposito. Gli faceva le fusa, strusciandogli il seno florido contro il petto.
«Oh, signor Rivers, che passo veloce e che mani forti» mormorò.
L’accento impeccabile gli confermò che doveva essere un’aristocratica venuta ad alleviare la noia facendo sesso o giocando a carte o facendo entrambe le cose. Era morbida e flessuosa, ma lui la scostò con fermezza.
«Lieto di esservi stato d’aiuto» esclamò. «Buona serata.»
Fece per allontanarsi, ma lei gli serrò il braccio, con una presa sorprendentemente vigorosa. «Non gradireste un po’ di compagnia in quel vostro solitario ufficio lassù, signor Rivers?» azzardò. Batté le ciglia e s’inumidì le labbra, ma il corpo di lui non reagì.
«Temo di no, milady» declinò con un cenno del capo.
Mentre si allontanava la udì sbuffare, con un misto di rabbia e frustrazione. Non si voltò nemmeno quando la sentì strillare. «Non mi riconoscete?»
Marcus rise. «No, milady. E vi consiglierei di non rivelare la vostra identità. C’è un motivo per cui teniamo riservati i nomi dei nostri soci.»
Tanto bastò a zittirla e Marcus poté tranquillamente coprire la distanza che lo separava dalle scale. Un suo uomo ne sorvegliava l’accesso e teneva clienti e seccatori lontani dall’appartamento privato con annessa camera da letto.
«Buona sera» lo salutò Marcus. «Sei Carlton, vero?»
Il giovanotto annuì. «Sì, signore.»
«Molto bene. Abbot passerà più tardi a consegnare i pagherò, una volta finito il giro. Per il resto, non ci sono per nessuno.»
Indicò con un cenno della testa la signora in rosso che ancora ribolliva di rabbia, e il cui sguardo truce sembrava volergli trapassare la schiena.
Carlton annuì. «Naturalmente, signore. Come sempre, signore.» Marcus stava per avviarsi nelle sue stanze quando il giovane scosse la testa. «Non so come riusciate a farlo, signore» esclamò.
Marcus esitò e gli rivolse uno sguardo interrogativo. «Fare cosa?»
«Rifiutare tutte le avance» rispose quello con un sospiro. «Ogni notte si gettano tra le vostre braccia – dovreste sentire le scuse che s’inventano per salire da voi. Cosa non offrono alle guardie e alla servitù per uno scampolo del vostro tempo. Non so come riusciate a dire sempre di no.»
Marcus lo squadrò dalla testa ai piedi. Il ragazzo aveva appena dieci anni meno di lui, ma quanto a esperienza lui poteva essere suo nonno.
«Lascia che ti dia un consiglio che potrebbe tornarti utile quando avrai fatto carriera.»
Carlton spalancò gli occhi e annuì con un entusiasmo che lo fece sorridere. O quasi.
«Non cagare dove mangi, figliolo» lo istruì, inarcando le sopracciglia per sottolineare il concetto. Poi si lanciò su per le scale lasciando il giovane a meditare su quelle parole. Rozze, certo. Ma innegabilmente vere.
Sfilò una chiave da un grosso anello che portava alla cintura e aprì l’ufficio. Entrò e ne inspirò l’odore di cuoio e legno. L’odore del successo, o quanto meno quello che da sempre vi aveva associato.
E per lui il successo era imprescindibile.
Restò un istante con le spalle poggiate contro la porta, poi avanzò nella stanza per mirare dall’alto il pianoterra, attraverso le ampie finestre, che aveva fatto installare quando aveva ereditato il locale dieci anni prima. Da lì poteva seguire tutto ciò che accadeva nelle sale principali, ogni scandaloso convegno sessuale, ogni partita, ogni conversazione o appuntamento.
Si sentiva al comando, al potere. Era una sensazione che adorava.
Motivo per cui era vissuto secondo il motto che aveva appena insegnato a Carlton. Il ragazzo aveva ragione. Le donne gli si gettavano continuamente tra le braccia. Belle, morbide e così diverse dalle creature rozze, dure e volgari con le quali era cresciuto. Potevano davvero essere una tentazione, ma lui non aveva mai ceduto. Le sue voglie se le toglieva altrove e di mezzo non c’era mai nessun coinvolgimento.
Era meglio così. Le relazioni, specialmente con il gentil sesso, erano troppo complicate.
Dei colpi alla porta lo riscossero. Marcus si voltò sorpreso. «Avanti.»
Paul Abbot, il contabile, entrò nell’ufficio e lo salutò con un cenno del capo. «Rivers.»
«Abbot.» Marcus sfilò l’orologio dal taschino del gilet e ne fece scattare il coperchio. «Non ti aspettavo prima di un’ora. Non puoi aver già finito il giro ed è troppo presto perché ci sia bisogno di cambiare banconote. Cosa c’è che non va?»
Mentre Marcus richiudeva l’orologio, Abbot sorrise. «A volte dimentico che per te gli orari del circolo sono una scienza esatta.»
«Non potrebbe essere diversamente.» Marcus mosse un passo in avanti. «Devo supporre che ci sia un problema.»
Abbot si fece serio. «Temo proprio di sì. Il, ehm, la persona della quale abbiamo parlato la settimana scorsa, è di nuovo qui.»
Marcus serrò le labbra. «Capisco. E sta dando problemi.»
«A se stesso più che agli altri, ma mi avevi chiesto di tenere d’occhio la situazione…»
Marcus non aveva bisogno di ulteriori spiegazioni. «Portami da lui.»
Abbot sgranò gli occhi, ma la sorpresa alla reazione di Marcus si dileguò all’istante. «Naturalmente. Andiamo.»
Il contabile si voltò e Marcus lo seguì giù per le scale e attraverso il locale affollato fino a una delle stanze private sul retro, non visibili dall’ufficio. Alcune erano riservate agli incontri intimi, altre al gioco d’azzardo.
Quando Abbot aprì la porta, Marcus capì che era una delle stanze dedicate al gioco. Stravaccato sul tavolo, con gli occhi vitrei e madido di sudore, urlante frasi incoerenti agli sghignazzanti compagni di tavolo, c’era Crispin Flynn.
CAPITOLO DUE
MC900026832[1]Marcus increspò le labbra alla vista di Flynn che rischiava di precipitare dalla sedia. Si girò verso Abbot.
«Da quanto va avanti?»
«Oltre un’ora» bisbigliò il contabile. «Era già alticcio quando è arrivato.»
«E l’hanno lasciato entrare perché è …» Marcus esitò. «Mio amico.»
Abbot annuì. «Devo cambiare le disposizioni?»
«No. Almeno qui non rischia di finire accoltellato.»
«Già.»
«Vado io.» Marcus trasse un respiro profondo ed entrò nella stanza.
C’erano sei giocatori seduti al tavolo, con le carte in mano e i bicchieri pieni, ma nessuno era ubriaco come Flynn. Cinque paia di occhi si sollevarono mentre lui si accostava. Solo quelli annebbiati di Crispin restarono fissi e persi nel vuoto.
«Signori» esordì Marcus, calmo e a bassa voce.
Flynn alzò gli occhi di scatto e gli rivolse un largo sorriso. «Rivers, ti unisci a noi per un paio di mani?»
Marcus inclinò la testa. «Non questa volta. Signori, vi pregherei di uscire dalla stanza un momento e lasciarmi solo con il signor Flynn.»
Gli altri giocatori si agitarono nervosamente sulle sedie, guardandosi l’un l’altro e fissando Flynn, il pollo da spennare, ma prima che qualcuno potesse aprire bocca, Crispin si tirò in piedi.
«Non s’interrompe un uomo durante una partita, Rivers. È la prima regola quando si gestisce un posto come questo.» Flynn allargò la mano in un ampio gesto e rischiò di cadere all’indietro. «Ora siediti e gioca con noi o levati di torno.»
Fermo sulla porta, Abbot sobbalzò, ma Marcus alzò una mano a intimargli di non muoversi. Di norma, un cliente sarebbe stato cacciato a pedate per un comportamento simile, ma Flynn non era un cliente qualunque.
«Modera i toni» lo redarguì Marcus senza alzare la voce.
Flynn lo fissò e per un momento Marcus intravide l’uomo che non voleva vedere. Nel profondo di quegli occhi blu c’era un abisso di dolore. E la sfida a che Marcus lo attaccasse. Lo colpisse. Lo facesse sbattere fuori.
Invece, lui mosse un passo indietro e reclinò il capo.
«Continuate pure, signori» si congedò. Girò sui tacchi e uscì dalla stanza. Abbot lo seguì, si richiuse la porta alle spalle e gli rivolse uno sguardo sgomento. Marcus fece roteare gli occhi. «Non guardarmi così.»
«Non hai mai permesso a nessuno di parlarti a quel modo.»
Lui si strinse nelle spalle. «I fratelli Flynn e il loro padre mi hanno reso un favore, molto tempo fa. Non posso ripagarli sbattendo fuori Crispin in quello stato.»
Aggrottò la fronte. Non che lasciarlo alla mercé di quegli sciacalli che gli prelevano direttamente il denaro dalle tasche fosse granché come soluzione.
«Fa come ti dico, Abbot.» Si concesse una pausa mentre l’uomo estraeva dalla giacca un taccuino e una matita. Quando quello fu pronto, riprese. «Trovami due uomini che si uniscano alla partita. Credo che Sweet sia il più indicato. Scegline un altro fidato e che tenga gli occhi aperti.»
«Williams» propose Abbot, annotando rapidamente le istruzioni.
«Flynn ha sempre avuto un debole per il brandy. Recupera una bottiglia dalla mia riserva e dalla a Sweet o Williams. Facciano in modo che Flynn se la scoli.»
Abbot lo guardò. «Perché?»
«Perché una volta che avrà perso i sensi, potranno chiuderlo in una delle stanze del bordello. Se non erro, poco fa nella stanza Scarlatta c’era Lady M. Se ha lasciato qualcuno dei suoi legacci, è il posto ideale per metterlo a nanna.»
Abbot continuava a fissarlo e Marcus indicò il taccuino. «Ti decidi a scrivere, Abbot?»
«Non sono sicuro di cosa dovrei scrivere, Rivers. Mi stai davvero dicendo che vuoi che i nostri uomini facciano ubriacare Crispin con il tuo costosissimo brandy, fino a fargli perdere i sensi, per poi trascinarlo nella stanza Scarlatta e legarlo al letto con i legacci di Lady M?»
Marcus alzò un sopracciglio. «Precisamente.»
Abbot aprì e chiuse la bocca diverse volte e alla fine prese nota. «E poi cosa dovremmo farne di lui?»
«Scriverò un biglietto al fratello» lo informò Marcus alzando le spalle. «Che tu gli consegnerai personalmente. Poi, sarà un problema del Duca di Hartholm.»
Abbot annuì. Sorpresa e dubbio erano svaniti dal suo volto, anche se Marcus era certo che il contabile non li avesse archiviati. Era solo ben addestrato a non fare domande. E Marcus non poteva che essergliene grato. Non aveva nessuna intenzione di spiegare a chicchessia quanto grande fosse il favore che i Flynn gli avevano reso anni prima.
«Mentre tu sistemi le cose, io butterò giù la lettera» esclamò. «Ripassa da me tra mezz’ora.»
Abbot annuì e si precipitò a cercare Sweet e Williams. Marcus trasse un respiro e tornò in ufficio ad abbozzare la missiva. C’era da augurarsi che Hartholm si facesse vivo. In caso contrario, si sarebbe trovato in una posizione molto scomoda. Eventualità che non osava contemplare.
MC900026832[1]Annabelle era raggomitolata sul divano del salotto al buio da quasi un’ora, ma non aveva più sonno di quando era sgattaiolata di sotto in cerca di qualcosa da leggere. Il giro nella biblioteca di Serafina e Rafe era stato istruttivo, ma non vi aveva trovato un solo volume che l’aiutasse a sedare la tormenta che aveva in testa.
Così, si era abbandonata a complicati ragionamenti, nella speranza che la sfinissero. Fino a quel momento però, non aveva funzionato. Tutti i possibili peggiori scenari dell’imminente debutto in Società si ostinavano ad affollarle la mente, gettandola nel panico. Per non parlare dei timori per Crispin. La sua mente erratica si addentrava negli abissi delle più cupe e letali paure.
Dei colpi alla porta la strapparono ai suoi pensieri. Annabelle balzò in piedi e si avvicinò alla porta aperta del salotto a sbirciare nel buio dell’ingresso. La servitù era già a letto e non c’era motivo che qualcuno disturbasse a quell’ora.
A meno che non fosse successo qualcosa. Stava per correre ad aprire quando Lathem, il maggiordomo di Rafe, apparve improvvisamente ai piedi delle scale. Indossava una veste da camera e un berretto da notte e in mano reggeva una candela. Annabelle trasalì alla vista del randello che brandiva con l’altra.
Bussarono ancora. «Arrivo!» gridò il maggiordomo.
Imprecò sottovoce mentre oltrepassava Annabelle, ferma sulla soglia del salotto, al buio. Non pareva essersi accorto della sua presenza. Lathem aprì la porta. Sull’uscio c’era un uomo alto,