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L'invenzione del partito: Vicesegretario politico della DC 1945-46 / 1950–51
L'invenzione del partito: Vicesegretario politico della DC 1945-46 / 1950–51
L'invenzione del partito: Vicesegretario politico della DC 1945-46 / 1950–51
Ebook642 pages7 hours

L'invenzione del partito: Vicesegretario politico della DC 1945-46 / 1950–51

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Raccolta di testi politici di Giuseppe Dossetti, ancora inediti, risalenti ai due cruciali periodi in cui fu vicesegretario politico della DC: lettere, appunti, memorandum, note su argomenti specifici, relazioni ed interventi in organi del partito, verbali di organi del partito. L'ampio materiale, ritrovato da Roberto Villa dopo una lunga e paziente ricerca, getta nuova luce sulla vicenda dello statista italiano, in particolare sul suo ruolo nell'organizzazione del partito cattolico del dopoguerra (da lui veramente «inventato») e sulle vere motivazioni della sua fuoriuscita da esso.
LanguageItaliano
PublisherZikkaron
Release dateSep 14, 2016
ISBN9788899720186
L'invenzione del partito: Vicesegretario politico della DC 1945-46 / 1950–51

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    L'invenzione del partito - Dossetti Giuseppe

    Giuseppe Dossetti

    L’invenzione del partito

    Vicesegretario politico della DC

    1945-46 /1950-51

    a cura di

    Roberto Villa

    Zikkaron

    Collana

    Documenti e Storia

    Editing: Maria Caterina Bombarda

    In copertina: Giuseppe Dossetti in un comizio a Bologna, in Piazza Maggiore, nel 1956 (per gentile concessione dell’Archivio Giuseppe Dossetti della Piccola Famiglia dell’Annunziata a Monte Sole - Bologna)

    ISBN: 978-88-99720-01-8

    © 2016 Edizioni Zikkaron

    42100 Reggio Emilia

    e-mail: koinonia.montesole@gmail.com

    www.zikkaron.com

    Tutti i diritti riservati

    ringraziamenti

    Agli onorevoli Pier Luigi Castagnetti e Albertina Soliani, per avermi introdotto negli Archivi storici dell’Istituto «L. Sturzo» e del Senato della Repubblica.

    Alla dottoressa Emilia Campochiaro, responsabile dell’Archivio storico del Senato della Repubblica. All’onorevole Flavia Nardelli, già segretario generale dell’Istituto «L. Sturzo». Alla dottoressa Concetta Argiolas, responsabile dell’Archivio storico dell’Istituto «L. Sturzo».

    Alla professoressa Monica Fioravanzo e all’avvocato Giuseppe Carraro, custodi dell’archivio personale dell’on. L. Carraro. Alla professoressa Anna Paganelli, responsabile documentazione del Centro culturale «F.L. Ferrari» di Modena.

    Al professor Paolo Pombeni e al Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Bologna, presso il quale ho potuto seguire il corso di dottorato che mi ha consentito lo sviluppo della ricerca archivistica.

    Alla Piccola famiglia dell’Annunziata, comunità religiosa fondata da don Giuseppe Dossetti. In particolare a Giovanni Lenzi, che ha fortemente creduto in questa pubblicazione, a don Sandro Barchi, a don Athos Righi e a suor Teresa Dossetti. Alla professoressa Marisa Angilletta. Un ringraziamento, soprattutto, a Nicola Apano per il suo sostegno paziente, critico ed amichevole.

    Roberto Villa

    Roberto Villa (Reggio Emilia, 1953), già preside del Liceo Scientifico Statale «A. Moro» di Reggio Emilia, ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia Politica dell’Età Contemporanea all’Università di Bologna con la tesi «Per una reinterpretazione della fuoriuscita di Dossetti dalla DC. Nuove fonti archivistiche sulle due Vicesegreterie nazionali del partito» (2010) e ha curato:

    G. Dossetti, Il circuito delle due parole, Portogruaro: Nuovadimensione 2000;

    G. Dossetti, Due anni a Palazzo D’Accursio. Discorsi a Bologna 1956-1958, Reggio Emilia: Aliberti 2004;

    G. Dossetti, Un itinerario spirituale, Portogruaro: Nuovadimensione 2006;

    Dossetti a Rossena. I piani e i tempi dell’impegno politico, Reggio Emilia:

    Aliberti 2008;

    Interviste su Dossetti politico, «Storiografia. Rivista annuale di storia» 19 (2015), pp. 185-269.

    Dossetti politico. Nota a margine: vedere unito ciò che unito non era, «Storiografia. Rivista annuale di storia» 19 (2015), pp. 271-285.

    Introduzione

    «Una battaglia nei campi»

    La tecnicità politica di un leader carismatico

    di Roberto Villa

    Un movimento dopinione di lunga durata

    La pubblicazione di questi testi «politici», rinvenuti ormai diversi anni fa nel corso di un’ampia ricerca archivistica¹, può contribuire significativamente all’approfondimento della conoscenza di Giuseppe Dossetti, figura cruciale della politica italiana del primo decennio repubblicano, e sul vasto, ramificato ed eterogeneo² «movimento d’opinione»³ del cattolicesimo politico che da lui prese il nome a partire dalla mozione di sfiducia alla Direzione centrale della DC, presentata in Consiglio nazionale nel dicembre ’46 insieme a G. Lazzati⁴, e che in forme di diversificata e carsica disseminazione culturale, politica ed ecclesiale, continuerà a dare segni di vitalità oggettivamente riscontrabili ben oltre la fuoriuscita del proprio leader dalla scena politica nazionale⁵.

    Si tratta di un numero cospicuo di testi autografi di Dossetti (con l’integrazione di alcuni appunti di G. Gonella presi durante riunioni della Direzione centrale della DC, di appunti anonimi presi ad un incontro dell’associazione Civitas Humana e di appunti di L. Paganelli presi a Rossena), finora in larghissima misura inediti⁶ relativi alla sua militanza nella DC tra il 1945 e il 1951 e, dopo le sue dimissioni da ogni carica di partito, fino all’ordinazione sacerdotale del ’59.

    Un materiale assai composito e, non di rado, di ampia, articolata e organica argomentazione: lettere, appunti, memorandum, note su argomenti specifici, relazioni ed interventi in organi del partito, verbali di riunioni di organi del partito, stralci giornalistici di interventi svolti a vario titolo. Con la specificità – che tutti li caratterizza rispetto ai testi politici già pubblicati⁷ – di essere scritti di politica politicienne, nel vivo della «battaglia nei campi»: in essi la «visione grande», teorica, organica, non solo cristiana, ma delle «scienze umane» moderne, del giurista e intellettuale prestato alla politica e la leadership carismatica nel senso weberiano classico si sposano puntualmente con una straordinaria e proteiforme capacità di lavoro, di coordinamento fattivo delle persone, di organizzazione delle strutture, di competente cognizione di causa nelle materie più disparate, di finalizzazione dell’azione politica ad obiettivi di «efficacia ed efficienza». Quella «tecnicità» della politica, come era solito chiamarla, che era per lui ben altra cosa dalla «professionalità politica», dall’essere un politico di professione. La politica, infatti, per Dossetti non solo non doveva essere un’attività professionale, ma proprio non poteva, per sua natura, essere solo questo: era essenzialmente una «attività sapienziale», cioè una sintesi superiore di visione d’insieme, di altissima competenza tecnica, di dovere civico oltre che, per lui cristiano, di carità⁸.

    La causa prossima del rinvenimento di questo materiale, da parte di un «seguace» del Dossetti più «impolitico» che si possa immaginare⁹, è la curatela della pubblicazione dei quaranta interventi da lui pronunciati in Consiglio Comunale a Bologna dal 30 giugno 1956 al 25 marzo 1958, in qualità di capogruppo indipendente per la DC¹⁰.

    Nella ripresa degli studi dossettiani, dopo quasi un trentennio di sostanziale rimozione del personaggio, ma anche delle prime prove storiografiche sul «dossettismo»¹¹, ripresa in qualche modo indotta dal rinnovato protagonismo politico del tardo Dossetti (’94-’96), poteva sembrare almeno singolare che venisse così enfatizzata, nel contesto della stagione de «L’Ulivo», la memoria della sua candidatura a sindaco di Bologna nel ’56, per ingiunzione dell’arcivescovo cardinale G. Lercaro¹² e che invece non si fosse ancora posta adeguata attenzione alla sua emblematicit๳, sia rispetto ad un’istanza non «imperialistica» di porgersi del cattolicesimo politico sia rispetto ad una storia (quella dei blocchi ideologici) che, con più di trent’anni di anticipo, Dossetti aveva giudicata irrimediabilmente finita.

    Esperienza politica-amministrativa-tecnica particolarmente interessante¹⁴, se non altro come espressione atipica del cattolicesimo politico italiano, in questo caso di «minoranza». Sembrava, fino ad allora, che il significato storico-politico di quella «singolare vicenda»¹⁵ bolognese si fosse consumato, con un occhio malgrado tutto ancora «egemonico» o «integralistico» nel tentativo di conquista della città più rossa d’Italia¹⁶, ovvero in un estremo tentativo, anche se coatto, da parte del dossettismo di occupazione del potere, come a ben vedere era stato un tentativo di egemonia a livello nazionale dentro il partito fino al ’51.

    È forse ancora oggi questione da lasciare alla ricerca storica la valutazione se, e sotto quale profilo, il «dossettismo politico» dal ’45 al ’51 sia stato veramente minoranza all’interno della DC degasperiana o non, più propriamente, una componente coessenziale dell’identità complessa di quel partito in quegli anni¹⁷, percepita proprio così da parte dell’elettorato, dei militanti, della dirigenza locale e nazionale della DC, come da parte della gerarchia ecclesiastica più avveduta, nonostante i diversi gradi di coscienza delle differenti posizioni di De Gasperi e Dossetti.

    Dai Discorsi a Palazzo dAccursio risulta però evidente¹⁸ cosa avrebbe voluto essere il «neo-dossettismo» come ideologia politica¹⁹ «non imperialistica»²⁰, sia di maggioranza nel caso di una improbabile vittoria²¹ sia di minoranza nel caso della prevista sconfitta²²: non omologabile alla contemporanea esperienza di governo cittadino di La Pira a Firenze o alle posizioni di minoranza tenute dal partito cattolico in altre amministrazioni locali in quel periodo e, sostanzialmente, fino alla fine del paradigma del «partito unico dei cattolici».

    In altri termini, si vuole dire che Dossetti, pur avendo pochi anni prima dichiarato fallimentare il «dossettismo», e perciò sciolta l’omonima corrente²³, in quella contingenza bolognese vedeva comunque l’ultima occasione per compiere, anche nel caso assai probabile di una propria sconfitta, un’esperienza politica locale certo, ma emblematica di una possibile innovativa metodologia della DC a livello nazionale²⁴. Dimostrandosi in questo un «politico maturo» più di altri, un leader completo, capace di stare nella maggioranza di Governo come all’opposizione. Senza contare che lo choc dell’abbandono imprevisto e sostanzialmente non compreso nel ’51, anche perché non giustificato adeguatamente se non ai vertici nazionali del partito²⁵, ad una cerchia molto ristretta di amici (non più di una trentina) e ad un piccolo nucleo dei gruppi parlamentari, era ancora vivo. Il dramma²⁶ di un progetto politico incompiuto (che nella sua idealità come nella sua concretezza e potenzialità era riuscito a tenere insieme le coscienze e le volitività più diverse), dell’assenza di un «carisma» eccezionale e irripetibile – divenuto più pesante dopo la scomparsa di De Gasperi – era ancora in atto, in un partito che, nella transizione necessaria, fino ad almeno due anni prima si era mosso nella faticosa ricerca di una nuova identità unitaria, proprio sulla linea strategica indicata da Dossetti nell’atto dell’uscita di scena.

    È già stato sottolineato che l’idea di un repéchage di Dossetti nel 1956 non era poi solo farina del cardinal Lercaro²⁷, ma un preciso suggerimento che gli veniva anche da certi ambienti della Direzione centrale della DC. Ma che il «dossettismo» fosse ancora un’ipotesi così auspicabile e possibile, non solo tra le coscienze della base del cattolicesimo politico, ma tra i vertici stessi del partito, non lo lasciavano immaginare neppure le sensibili antenne del segretario nazionale Fanfani²⁸ che non potrà – come unanimemente la stessa Direzione centrale, costituita quasi per intero da ex «dossettiani» – non consentire alle condizioni, pur non condivise, postegli da Dossetti per la candidatura bolognese: la posizione, allora aporetica, di capogruppo indipendente e la candidatura dal basso, seppure in corrispondenza ad una designazione dall’alto, attraverso l’assoluta novità elettorale delle «primarie».

    Alla data della pubblicazione dei Discorsi a Palazzo dAccursio il «dossettismo», pur variamente interpretato, era unanimemente considerato come un breve fenomeno politico, nella sostanza concluso definitivamente nel ’51. La riconsiderazione dei contenuti e dell’emblematicità di quell’esperienza pretendeva, invece, di proporre una dilatazione di quel movimento di opinione politica almeno fino al ’58. Confortava, pochi anni dopo (a sostegno delle numerose testimonianze raccolte dalla voce di protagonisti dell’epoca)²⁹, riscontrare nelle annotazioni diaristiche di Luciano Dal Falco che il dossettismo politico nel ’55 era una realtà e un’opzione ancora possibile persino per lo stesso segretario organizzativo nazionale della DC³⁰: «È una rentrée vera e propria» – scrive con entusiasmo – «si avranno ripercussioni nel partito, ripercussioni di vario genere»³¹.

    Nella rilettura del testo integrale del Libro Bianco su Bologna³² si può meglio rivalutare, al di là della vulgata interpretativa del dossettismo come ideologia della «sinistra cattolica» in dialogo con la «sinistra marxista», lo spessore della rottura di continuità che quell’esperienza costituì, rottura che infatti la DC e i movimenti collaterali non seppero cogliere e che materializzò nei fatti e nel pensiero la fine del cattolicesimo politico italiano come ideologia. Di lì a poco, infatti, con il caso della Giunta comunale di Venezia prima (nel ’56), con quella di Milano poi³³ si aprì tutta un’altra stagione politica – quella del centrosinistra – che, esplicitamente con W. Dorigo in Veneto e con «La Base» in Lombardia, implicitamente con Moro a livello nazionale, rivendicava ascendenze dossettiane. Conforta ancor di più oggi, a sostegno della tesi del dossettismo come movimento di opinione di lunga durata, riscontrare che ancora nel ’62 il suo leader, a pochi mesi dall’apertura del Concilio, era considerato dalle gerarchie ecclesiastiche più progressiste un’opportunità autorevole e realistica (dopo la crisi dell’insediamento della Giunta di centrosinistra a Milano) per la formazione teologico-politica di una nuova classe dirigente cattolica che «non si accontentava più di ripetere il pensiero di Sturzo e di De Gasperi» ³⁴.

    Bisognava dunque cercare di capire come si era potuta dare una rentrée di tale spessore. Non si poteva trattare solo di un capriccio machiavellico di un cardinale ancora in odore di integralismo, convinto di poter «battezzare» la propria città, rossa quanto si volesse, a condizione di trovare il leader giusto. Cosa c’era stato tra le dimissioni impreviste e immotivate di Dossetti da vicesegretario politico nazionale nel ’51 e quella sorprendente candidatura amministrativa? Questa era la domanda che il lavoro sui Discorsi a Palazzo dAccursio induceva, a fronte dell’assenza di fonti e di una qualche riflessione storiografica al riguardo. L’imprevisto sgorgare delle fonti da archivi personali di co-protagonisti della sua leadership nazionale di un partito che, da lui più che da ogni altro «inventato», materialmente «fatto», nella sua memoria ufficiale sembrava averne cancellato quasi ogni traccia, ha riportato la ricerca là dove era giusto che andasse a parare: all’origine di tutta la sua vicenda politica e da dove avrebbe potuto dipanarsi tutta un’altra storia della DC e dell’Italia repubblicana.

    Il problema delle fonti

    Il problema delle fonti nel «caso» Dossetti c’è sempre stato e, si crede, resterà aperto ancora a lungo. Paradossalmente il primo convegno di studi sul dossettismo si tenne nel ’91³⁵ – Dossetti ancora vivente – in una pressoché totale assenza di fonti dirette edite di qualche consistenza, almeno relative al «periodo politico» (come allora era invalso distinguere) della sua vita. Nessuno poteva prevedere in quel momento che di lì a tre anni Dossetti si sarebbe esposto nuovamente su argomenti politici (le riforme istituzionali)³⁶, a seguito di un discorso di carattere ecclesiale rivolto al clero della diocesi di Pordenone e ad una successiva intervista televisiva sul voto dei cattolici³⁷, che furono largamente riportati sui principali quotidiani nazionali, riaprendo l’antica e per lui superata querelle del dossettismo.

    Di Dossetti uomo politico non si parlava sostanzialmente più dal 1959³⁸, cioè dalla fine della sua esperienza di consigliere comunale a Bologna e dalla sua ordinazione sacerdotale, nonostante la consegna da parte del Comune di Bologna del premio civico «L’Archiginnasio d’oro» nel 1986. Anche quel convegno, a quarant’anni dal suo ritiro politico, pur rievocando l’importanza storica e il duraturo valore ideale di quell’esperienza, senza particolari controversie aveva liquidato il dossettismo come un fenomeno storicamente concluso nel ’51 e storiograficamente ben intelligibile. Per chi lo frequentava da un quarto di secolo, proprio dalla fine di ogni suo impegno pubblico ecclesiale di «vertice», prima al Concilio Vaticano II e poi in diocesi di Bologna, ed aveva potuto rendersi conto di quanta potenzialità politica fosse ancora implicita nella sua figura³⁹, le cose non potevano stare semplicemente così.

    Con questo si è ben consapevoli di mettersi in una posizione critica, se non proprio esterna, rispetto al rigore della metodologia storiografica che imporrebbe un distacco obbiettivo dello storico rispetto al suo «eroe», attraverso la mediazione delle fonti. Ma qui non si vuole tanto dire che la storiografica narrazione di come erano andati i fatti non corrispondesse alle narrazioni di quegli stessi fatti compiute in diverse occasioni dal loro protagonista (ciò che si poteva già agevolmente riscontrare in bibliografia⁴⁰). Qui si vuole, oltre che integrare quelle narrazioni con nuove fonti, rappresentare il felice stupore di chi, testimone casuale del protagonista storico, a fronte di un conformismo ermeneutico o «partigianeria» critica di quell’inizio degli anni Novanta, trovò allora nell’unico caso di pregressa storiografia dossettiana «laica»⁴¹, una provocazione tanto inattesa quanto consonante: il dossettismo come «una storia ancora da scrivere»⁴². Non si intendeva in quell’occasione dire quello che è del tutto pacifico, cioè che tutte le storie possono essere continuamente rilette, pur in assenza di nuove fonti, alla luce dei problemi che i contemporanei si pongono rispetto a quei fatti⁴³, ma proprio che si trattava di un fenomeno di per sé complesso, ancora largamente da studiare, tanto più perché storiograficamente polivalente, cioè non unidimensionale, come invece la categoria del «dossettismo politico», avrebbe potuto lasciare supporre. Da allora ad oggi la storiografia ha fatto naturalmente passi considerevoli, con contributi di ricostruzione biografica e di rinvenimenti testuali di primissimo ordine. Non è questo naturalmente che si vuole misconoscere: si potrebbe anzi dire che ormai la storia politica di Dossetti è quasi per intero fatta⁴⁴.

    D’altronde che il «dossettismo» sarebbe rimasto un problema storiografico o politologico o politico-religioso aperto l’aveva già intuito – su suggerimento dello stesso Dossetti – Marcella Glisenti nella «Avvertenza per una storia da scrivere», in proemio alla prima edizione antologica di «Cronache Sociali», quando senza infingimenti sottolineava che «il mito del dossettismo ha lasciato un vuoto nelle coscienze di molti, e questo vuoto è, oltre tutto, un dato di fatto nella vita politica italiana». Aggiungeva – con singolare intuizione di prospettiva storica, anticipando quella periodizzazione che poi in storiografia era andata perduta – che

    se il dossettismo pare infine scomparso definitivamente il 6 gennaio 1959 (…) le date servono solo a indicare lo schema entro il quale si svolge una determinata azione. Con altrettante buone ragioni si potrebbe dire infatti che – se una buona parte degli uomini che dettero vita al dossettismo si trova ancora oggi impegnata nella vita politica dove ha conquistato i principali posti di comando – il dossettismo in qualche maniera vive ancora o comunque che ha dato frutti (…) la difficoltà di inquadrare tale esperienza, e di liberarsene, cioè di vederla tutta proiettata sul piano storico, deriva in gran parte dalla molteplicità e contraddittorietà di tutto ciò che essa è stato o ha cercato di essere (…). Dal punto di vista strettamente politico (…) il «dossettismo» sembra uscire sconfitto da tutta questa vicenda. Ma è una questione che va esaminata più cautamente (…). Resta anche da farne il bilancio dal punto di vista storico-culturale⁴⁵.

    Se tentativi di bilancio dal punto di vista politico sono stati compiuti – necessariamente in progress per la questione aperta delle fonti dianzi segnalata – non si può ancora dire altrettanto dal punto di vista storico-culturale, cioè della rilevanza che la figura, l’azione e il pensiero di Dossetti hanno avuto nella formazione della classe dirigente del nostro Paese lungo tutta la seconda metà del XX secolo⁴⁶. Ammesso e non concesso che non ci sia più altro da dire e, soprattutto, da scoprire sul «dossettismo politico», non si intravedono ancora tentativi di individuazione di quella lunga e vasta disseminazione culturale e «tecnica» che il «dossettismo» ha comportato, nelle sue intersezioni ideologiche, sul piano della comunicazione (RAI), dell’impresa pubblica (IRI, ENI, Intersind), del sindacalismo (CISL, ACLI), della cultura accademica e dell’editoria, che sarebbe assai interessante ricostruire, soprattutto oggi, in un periodo in cui la cultura «laica» pare obbiettivamente in surplace e, invece, si assiste ad un sorprendente revival di categorie del pensiero sociale cattolico, tipiche degli anni Cinquanta e Sessanta, che solo fino a qualche tempo fa parevano superate o anacronistiche, come «umanesimo cristiano», «personalismo», «benicomunismo». Forse questa linea di ricerca, come quella sull’impianto filosofico generale del pensiero di Dossetti, di cui pure gli intellettuali cattolici più vicini alla gerarchia erano pienamente consapevoli già nel primo dopoguerra, è prematura. Sta di fatto che l’imprevista quantità e qualità di fonti dirette relative all’attività politica di Dossetti, che stanno più o meno casualmente riemergendo, non può che motivare a riprendere una pista di ricerca che si crede ancora fertilissima e che, muovendo dal 1945, arriva ancora, in diversissimi ambiti, a lambire la contemporaneità.

    Non si tratta comunque più, cinquant’anni dopo quella «Avvertenza», di sforzarsi ulteriormente di capire, con categorie storiografiche più fini di quelle ancora invalse negli anni del «post-ottantanove», ciò che in Dossetti sfuggiva ai canoni consolidati dei protagonisti politici del nostro secondo dopoguerra e che faceva intuire subito nella sua figura un’atipicità da decifrare. Si tratta del fatto obbiettivo e semplicissimo che su alcuni eventi politici della vicenda dossettiana le fonti, da scarse che erano – sia perché la maggior parte dei suoi coprotagonisti era ancora viva sia perché lui stesso in diverse occasioni le aveva proprio distrutte, segnatamente bruciate⁴⁷ – diventano «sovrabbondanti». A onor del vero, per chi lo conosceva bene, il rammarico agli inizi degli anni Settanta per gli «autodafé» ricorrenti (corrispondenti più o meno all’avvio di ogni nuova «fase» della sua vita) di gran parte del suo archivio personale era comunque relativo, in misura della coscienza della titanica grafomania di Dossetti: anche nel caso fossero stati più numerosi, non avrebbe potuto cancellare del tutto le tracce che aveva senz’altro seminato nei vari ambienti in cui era stato impegnato. Certo, numerose fonti sono andate in fumo, ma molte altre attendono soltanto di essere riscoperte⁴⁸ e di divenire capaci, per lo storico come per il politico come per l’uomo di Chiesa, di chiarire ulteriormente la complessità e l’originalità di una figura pubblica che, come poche altre, ha saputo proporre un organico e dialogico incontro tra la tradizione cristiana e la modernità e perciò ha saputo suscitare, in un arco di tempo assai più lungo dei suoi contemporanei, tante speranze, tanto consenso e tante risorse intellettuali, spirituali e politiche.

    Una possibile interpretazione

    Le fonti che qui si presentano parlano da sé e sembrano comunque confortare la convinzione profonda dell’unitarietà non tanto della sua personale esperienza di testimone del «suo tempo» e di una fede – che resta pur sempre un’esperienza individuale – ma proprio del piano religioso e di quello politico (di quelle che lui chiama «le due parole»), prima durante e dopo qualsiasi fase/periodo (scientifico, politico o religioso) definibile della sua vita. Sembrano anche, nello specifico della sua esperienza politica nel partito cattolico (perché questo resta anzitutto lo scopo della loro pubblicazione), confortare una possibile quanto riepilogativa interpretazione di quella vicenda:

    – A differenza di quanto ancora largamente si «narra» o si lascia intendere, la DC come partito di massa fu concretamente «fatta» da Dossetti, con l’aiuto degli uomini da lui reclutati e coordinati, sia nel corso della prima Vicesegreteria nazionale (’45-’46) – «politica» nella sostanza, sottolinea lui stesso per primo, assai più che la successiva – sia in quello della seconda (’50-’51), con la «campagna di rivitalizzazione» da lui ideata e affidata all’organizzazione di M. Rumor. Fino all’autunno del ’45 il partito organizzato non esiste: «il partito era De Gasperi e Piccioni», ricorda Gorrieri nella sua autobiografia. S. Ceschi, che succederà in punta di piedi a Dossetti in vicesegretria, quando questi entrerà nella Commissione dei 75, era convinto che neppure De Gasperi avesse ben capito il ruolo e le posizioni della DC del Nord tra il ’43 e l’immediato dopoguerra. La cosiddetta «unità» del partito era insomma tutta da fare e a Roma il «centro di comando», nonostante i documenti programmatici degasperiani diffusi durante la clandestinità, era più un’idea che una realtà: un ariostesco «campo di Agromonte» in cui ciascuno si muoveva per sé. A Villa Cagnola nel ’62, davanti a testimoni autorevoli e coinvolti di quegli anni⁴⁹, Dossetti sottolinea due volte, con malcelato orgoglio, di aver fatto lui la DC, con le proprie mani⁵⁰.

    – Il peso della cosiddetta «prima generazione», di derivazione popolare o sturziana che dir si voglia (eccetto il caso di De Gasperi, naturalmente), sulla fortuna politica del partito nel secondo dopoguerra va pertanto molto ridimensionato. Così come va ridimensionato, sempre eccettuando la figura di De Gasperi, il luogo comune del contrasto insanabile tra la classe dirigente della «prima generazione» del partito e i giovani emergenti della «seconda generazione» rappresentati da Dossetti, che lavora infatti frequentemente e in larga, fiduciaria sintonia anche con Piccioni, Scelba, Spataro, Segni, solo per citare alcuni protagonisti di prima linea.

    – Questa opera di costruzione ideologica e organizzativa del partito fu per lui, però, solo strumentale (a differenza di tutti gli altri leader della DC di quel momento) all’edificazione del «nuovo ordine» statuale che perseguiva sopra ogni altra cosa: il partito, e non il governo, era l’unico strumento che, insieme all’ossatura istituzionale dello Stato, avrebbe potuto consentire il superamento della democrazia nominale dell’ordinamento liberale e la realizzazione di una «democrazia sostanziale», nella quale il popolo avrebbe potuto essere «soggetto attivo» oltre che «oggetto» dell’azione politica.

    Un «ordine nuovo» nella continuità monarchica era impossibile: un controsenso non solo teorico, ma una forma di traghettazione surrettizia, a dispetto delle discontinuità storiche, delle forme e dei modi dello Stato liberale. La durezza dello scontro con la posizione di De Gasperi⁵¹, in prima battuta acquiescente alla continuità e, messo di fronte alla «conta» in Congresso, ostinatamente impositivo dell’«agnosticismo istituzionale», si capisce soltanto se, posto questo proemio della sua azione politica, se ne vede l’epilogo nel discorso all’Unione Giuristi Cattolici Italiani su Funzioni e ordinamento dello Stato moderno del 1951⁵². Là dove, sotto la trama di una delle più sottili argomentazioni filosofico-giuridiche del secondo dopoguerra, si coglie la convinzione che non le «parti», ma lo Stato possa tutelare veramente la «persona», fine ultimo dell’ordinamento, e il timore che esse invece, per paura dello Stato, tentino quasi inevitabilmente l’occupazione «imperialistica» dei suoi organi istituzionali⁵³.

    A differenza di ogni altro, nella gerarchia ecclesiastica come nel partito, Dossetti capiva che il problema della forma istituzionale era un problema di sostanza: non si sarebbe potuta scrivere quella Costituzione⁵⁴ in un regime monarchico, anche sul modello anglosassone, peraltro solo astrattamente trasponibile nel contesto storico italiano. Autobiograficamente Dossetti rivendica con fierezza a sé il merito della scelta repubblicana dei cattolici nel referendum del 2 giugno 1946⁵⁵ – oltre che di avere impedito la «Repubblica dei CLN» e di aver osato l’inosabile, cioè provveduto di sua iniziativa, perché nessuno aveva il coraggio di farlo, al loro scioglimento⁵⁶.

    – Dossetti e il dossettismo non furono sconfitti all’interno della DC, con il Consiglio nazionale di Grottaferrata del 1951, anzi. In quella occasione («un C.N. in mezzo al guado», verso un Congresso che Dossetti vuole fortemente, a fronte di un Governo in crisi da nove mesi) non ci fu alcuna richiesta di dimissioni o mozione di messa in minoranza. La Segreteria e la Direzione, presentatesi dimissionarie, riottennero ampia fiducia senza indicazioni, neppure implicite, di cambiamenti di assetti interni, proprio perché nessuno (ad eccezione di Gonella, nella imperscrutabilità della propria coscienza però) ipotizzava che Dossetti non ne avrebbe fatto parte: era per tutti fuori discussione che l’unità del partito si reggeva sulla sua partecipazione alla Segreteria politica. Per garantirla, annota lo stesso Gonella, si era persino «detto disposto a non fare critiche per un anno». Infatti la reazione di Dossetti al proprio esautoramento, ingiustificato e autoritario (perché di questo e di nient’altro si trattò), fu durissima e non certo remissiva⁵⁷. Tre mesi dopo, al successivo C.N., la sua lettera di dimissioni ufficiali da tutti gli organi dirigenti, con l’esplicitazione delle motivazioni politiche (bloccate «ogni dinamica progressiva del partito» e «ogni funzionalità democratica dei suoi organi maggiori»), non fu neppure presentata alla discussione da De Gasperi o da altri. Si prese tacitamente atto delle dimissioni dalla Direzione centrale, ma non di quelle contestuali dal Consiglio nazionale.

    Non fu una sconfitta nei fatti come non lo fu nella percezione generale del partito che, nonostante la non piccola composizione numerica del C.N., all’ottobre successivo rimaneva stupito e imbarazzato dalle dimissioni ufficiali «per motivi personali», le cui reali motivazioni politiche anche in quel caso furono portate alla conoscenza di pochissime persone. Le fonti sembrano attestare quanto Dossetti stesso dichiarerà successivamente, non in merito alla propria «intransigenza» – di cui proprio non v’è traccia nelle carte – quanto alla propria «fretta» rispetto ad un partito che, di lì ad un paio d’anni, si sarebbe plausibilmente consegnato più volentieri nelle sue mani che in quelle di altri⁵⁸.

    – Non esistono elementi concreti di sorta per pensare ad un ipotetico «sganciamento» di Dossetti da parte delle gerarchie vaticane⁵⁹. È invece legittimo ipotizzare che le dimissioni dalla Camera dei Deputati nel luglio ’52⁶⁰, anticipate rispetto alla scadenza naturale della prima legislatura (1953), ma a ben un anno di distanza dalla fuoriuscita dai vertici del partito, siano state proprio un espediente per scongiurare la reiterazione dell’obbligo di candidatura, come era avvenuto nel ’48⁶¹. Nessuno poteva pensare, infatti (e lui meno degli altri), che Dossetti credesse nell’utilità di un secondo partito cattolico (nel ’51 come successivamente) nonostante che non pochi intellettuali, giovani dirigenti e persino ecclesiastici su posizioni antipodiche a quelle del cosiddetto «partito romano»⁶², ma anche alla posizione centrista montiniana, vedessero di buon occhio questa possibilità. Il fatto è che Dossetti non credeva o non sperava più, in quella «crisi globale», all’utilità della DC come di ogni altra possibile forma di «partito cattolico»: la sua «missione» storica era per lui irrimediabilmente fallita.

    Il meccanismo delle obbedienze alle autorità religiose, come parametro per giudicare il grado di coinvolgimento soggettivo di Dossetti nei suoi impegni politici, non pare più riproponibile: fa politica, anche quando asserisce di non volerla fare (come lo accusa giustamente Fanfani, che lo conosce bene), solo quando crede, o spera, che ci sia la possibilità di una qualche minima ricaduta concreta, nell’immediata come nella media e lunga distanza, della sua azione politica. Questo all’inizio come alla fine della sua «avventura», indipendentemente da ogni orientamento delle gerarchie ecclesiastiche (che vengono infatti regolarmente «deluse», a livello nazionale come locale⁶³).

    Il rilievo prevalente attribuito da certa mitografia all’opzione personale religiosa di Dossetti sulla sua oggettiva azione politica, come per decenni ha agevolato senza volerlo l’ingiustificata interpretazione del suo pensiero in chiave neointegralistica, così ha sottovalutato la sua assoluta laicità. Dossetti, investito di cariche politiche, non avrebbe obbedito – sono sue parole – a «nessuna autorità», neppure in sedicente difesa cristiana, se contrastante con la propria coscienza. Il mito non a caso lo racconta al capezzale del padre, latamente di sensibilità cristiana, ma più propriamente di formazione liberale sabauda, a chiedere (a lui solo) il consenso alle dimissioni da deputato. E risulta, comunque, un consenso a continuare, seppure su piani diversi, un’azione «rivoluzionaria». Non risulta dalle fonti, e neppure da dichiarazioni autobiografiche, che abbia chiesto il permesso a mons. Dell’Acqua⁶⁴. Risulta solo che questi gli ha chiesto di dirlo, prima, a De Gasperi. Un De Gasperi che, più o meno sinceramente disponibile ad una sua eventuale leadership «di riserva» («Non ho mai capito cosa volesse dirmi!», osserverà Dossetti), era comunque per lui oggettivamente troppo «inchinato» alle istanze ecclesiastiche.

    A Bologna nel ’56 non vorrebbe «correre», per diversi motivi (personali, ecclesiastici, politici), ma quando è costretto a farlo corre «per vincere», come nel ’50 aveva accettato la Vicesegreteria, così discussa anche all’interno del gruppo dossettiano, per vincere. Tutto di quella campagna elettorale è pensato per vincere: con geniale «professionalità»⁶⁵, eccetto naturalmente le alleanze non coerenti con la propria storia politica. Il cardinale se ne rammarica, ma più per la delusione che certe forze politiche non abbiano ritenuto sufficiente la propria autorevole malleveria, che non per la linea discosta tenuta da Dossetti, anche per lui da mettere nel conto. Si potrebbe dire, a conti fatti, che non si è mai visto uno voler vincere, nonostante tutte le «dimissioni» presentate, come Dossetti.

    – Le prime «dimissioni» di Dossetti, quelle dalla Vicesegreteria nazionale della DC nel febbraio ’46, per il dissenso sulla questione istituzionale, furono note (forse), oltre che a De Gasperi, a pochissime persone e probabilmente solo per questo dilazionarono lo scontro tra i due, in vista di un possibile positivo contributo alla Costituente. Il partito non seppe che il suo vicesegretario politico nazionale aveva presentato le dimissioni e Dossetti fu considerato in questa funzione, e continuò di fatto a esercitarla, fino all’inizio dei lavori costituenti. Né risultano in alcun modo dimissioni dalla Direzione centrale neppure alla presentazione della mozione di sfiducia a De Gasperi del dicembre ’46. La sua fuoriuscita dalla Segreteria, così bisogna chiamarla, di cui Piccioni «malinconicamente» prende atto, non presenta le caratteristiche di una rottura politica e Ceschi e Taviani gli subentrano tacitamente, perché «voleva occuparsi d’altro»: i lavori alla Costituente, a cui la classe politica di prima fascia sembrava, a conti fatti, non essere particolarmente interessata.

    – Le dimissioni dalla Vicesegreteria politica nazionale nel ’51 furono un vero «dramma» politico: forse anche per lui, sicuramente per i suoi sodali e per chi si riconosceva come dossettiano, ma anche per gli altri, ai vertici come alla periferia del partito e del mondo cattolico. Lo furono tanto più quanto più impreviste, inattese, ingiustificate, alla fin fine mai credute come definitive, perché – come si è detto – Dossetti era percepito come elemento coessenziale della DC. Da questa problematica del profondo della «coscienza democristiana» nasce, si crede, soggettivamente e collettivamente, l’imbarazzo via via crescente nei confronti del personaggio, man mano che la classe dirigente del partito si orientava (per acquiescenza alla deriva storico-politica generale più che per volitività politica) ad una comprensibilissima necessità di «rimozione» di una questione ancora aperta nel cattolicesimo politico italiano.

    – Dossetti in realtà, e assai più di quanto volesse lasciar intendere, almeno fino al ’55 continuò ad influenzare direttamente o indirettamente i vertici nazionali del partito e a lasciare nei suoi interlocutori il sospetto che la sua questione politica non fosse ancora definitivamente risolta. Solo l’enfatizzazione successiva della sua «scelta religiosa» ha reso così difficilmente comprensibile alla coscienza di certo cattolicesimo, d’una parte come dell’altra, la sua rentrée bolognese. Le carte di Fanfani (il diario come le lettere) non lasciano, al riguardo, molti margini di incertezza o ipoteticità. Mancano ancora solo elementi di riscontro scritto relativi alla richiesta, rifiutata, rivoltagli da Scelba nel ’54 di accettare l’incarico di ministro degli Interni («Perché nessun altro lo può fare in un momento come questo», avrebbe detto in Consiglio dei ministri) e all’opera di convincimento dei parlamentari cattolici, compiuta già in abito talare, a favore della candidatura di Segni a presidente della Repubblica, di cui Fanfani forse non fu informato o, perché così contrastante con il suo orientamento, non ritenne il caso di annotarla.

    – All’atto della candidatura a Sindaco di Bologna nel ’56, il «dossettismo politico» almeno come «fenomeno d’opinione» interno ed esterno al partito era dunque ancora vivissimo e continuava a costituire, per una parte non indifferente dei membri della classe dirigente nazionale e locale della DC, un’opzione realisticamente possibile. Lo sarà, come abbiamo visto, seppure transitato in altro status, per la parte più «progressista» della gerarchia cattolica ancora sei anni dopo.

    ***

    La ricerca e la riflessione su un soggetto così «storiograficamente polivalente» richiederebbero un approfondimento coordinato di studio collegiale e pluridisciplinare, come d’altronde Dossetti ha sempre insegnato in ogni ambito del suo impegno. La terra da arare è ancora vastissima. Ma anche qualora non emergessero altre fonti significative, la storia di Dossetti e del «dossettismo» resteranno comunque in larga misura da «fare», cioè continueranno a prestarsi a ulteriori letture critiche, non solo perché la complessità della sua ideologia sta soprattutto nella teologia «politica» che c’è sotto e a fianco, in un progressivo divenire, ma anche perché, imprevedibilmente, a distanza di molti anni da quelli di cui si dà qui testimonianza, da «sopravvissuto» del «secolo breve»⁶⁶, egli ha voluto aggiungere un nuovo atipico capitolo alla sua «avventura» politica, nella speranza di contrastare il decadimento generale della società civile, ma anche con innegabili effetti sul sistema politico in senso stretto e, infine, con indicazioni teologiche in merito al rapporto tra la «città di Dio» e la «città dell’uomo» che solo ora, dopo vent’anni, sembrano trovare nella Chiesa un certo grado di fertilità. Capitolo che, come il suo primo, non vorremmo fosse ancora una volta «troppo presto… o troppo tardi» riesumare⁶⁷.

    1 «Dossetti bisogna cercarlo negli archivi degli altri», osserva recentemente G. Sangiorgi in La politica oltre, in AA.VV., La passione e il disincanto. Dossetti e «Cronache Sociali». Alle radici del movimento politico cristiano, Milano: Il Settimo Libro 2015, pp. 18-23, relativamente ad una lettera del ’51 di Dossetti a M. Rumor sulla «Fine del Dossettismo» e un allegato «Piano preliminare» di attivazione, all’interno della DC, di «una nuova forza organizzata».

    2 Per Dossetti il movimento che portava il suo nome era «costituzionalmente eterogeneo» e presentava due elementi di contraddittorietà: «La speranza e il proposito di un rinnovamento sostanziale del sistema» e, al contempo, «L’accettazione del sistema». Egli stesso definì il movimento persino «equivoco» ed «illusorio»: «Caro Capuani [...] Le mie dimissioni dal C.N., nel mio animo già decise sin da prima di Rossena, erano l’unico atto che potesse porre fine all’equivoco dossettista», in G.M. Capuani e C. Malacrida, Lautonomia politica dei cattolici. Dal dossettismo alla Base: 1950-54, Novara: Interlinea edizioni 2002, pp. 19-20; «La mia stagione politica [...] nel ’52 era già finita. Finita, sì! Io ho deciso che fosse finita, e sono ancora profondamente convinto che dovesse finire e che sarebbe stato un grande errore proseguirla, perché non avrei raggiunto gli obiettivi che mi ripromettevo di raggiungere, e comunque avrei ingannato, illuso troppa gente. La mia persona poteva essere copertura di cose che, invece, andavano tutte in senso contrario [...] la situazione bloccava tutte quelle che erano le mie intenzionalità», in G. Dossetti, Un itinerario spirituale, in Id., I valori della Costituzione, Reggio Emilia: Edizioni S. Lorenzo 1995, p. 12.

    Era giunto il momento, dopo il C.N. di Grottaferrata e soprattutto dopo la virata governativa di Fanfani a sostegno di De Gasperi, di prendere atto della sua inconcludenza e velleitarietà e, «al di fuori di ogni pio luogo dossettiano», cioè senza Dossetti, creare in tempi brevissimi una «nuova forza organizzata» in ogni provincia, in vista del prossimo Consiglio nazionale del partito (v. pp. 320ss). Le stesse cose Dossetti le dice agli «amici più ingenuamente affezionati» riuniti a Rossena all’inizio di settembre del ’51 (tra cui G.M. Capuani che, a suo dire con il sostegno morale di Lazzati, sarà tra i fondatori de «La Base») e a M. Rumor che costituirà «Iniziativa Democratica».

    3 Più ancora che «tendenza organizzata» o «corrente» della Democrazia Cristiana, cf. P. Pombeni, Le «Cronache Sociali» di Dossetti. Geografia di un movimento di opinione 1947/1951, Firenze: Vallecchi 1976.

    4 Quasi subito dopo, dunque, l’«entrata in carica» come vicesegretario politico al fianco di De Gasperi.

    5 È stato segnalato da più parti, lungo tutta la fortuna critica di Dossetti, che il lea­der reggiano e il dossettismo politico non sono immediatamente sovrapponibili: non infrequenti, infatti, risultano differenze di pensiero ideologico e reciproche incomprensioni di orientamenti e scelte politiche persino fra i sodali più stretti del cosiddetto «quadrilatero» dossettiano: Lazzati, La Pira, Fanfani e Dossetti. La parzialità della comprensione delle posizioni del leader della corrente di «Cronache Sociali» è di tutta evidenza nella maggior parte della classe dirigente nazionale e periferica democristiana, spesso irrisolta fra l’unitarietà e l’alternatività delle figure di De Gasperi e Dossetti. D’altronde un’enfatizzazione di questa «diversità», indotta prevalentemente da testimonianze orali (per giustificare lo scioglimento della corrente e le proprie dimissioni dalle cariche di partito Dossetti avrebbe affermato – è una testimonianza anche di L. Elia – che in realtà di dossettiani altri non c’erano che lui e, in un eccesso palingenetico successivo alla propria ordinazione sacerdotale, persino che il dossettismo non era mai esistito) può essere deviante sul

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