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Lettere ai "cattivi"
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Lettere ai "cattivi"

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Chi sono i cosiddetti “cattivi”, a cui sono rivolte le lettere raccolte nel presente volumetto? E in quale contesto e come si sarebbe evidenziata o si evidenzierebbe la loro “cattiveria”? E che differenza c’è tra un cattivo senza virgolette e un “cattivo” con le virgolette?
Proprio in seguito a quest’ultima domanda sono state scritte le Lettere ai “cattivi”; indirizzate non ai cattivi senza virgolette (coloro i quali, cioè, malvagi sono stati e sono davvero), ma ai “cattivi” con le virgolette. Le quali ultime, racchiudendo il vocabolo cattivi, evidenziano, non senza una punta polemica, un atteggiamento se non di condanna almeno di critica nei confronti di un modus iudicandi ingiusto perché frettoloso, estemporaneo e, in qualche caso, anche di parte.
LanguageItaliano
Release dateSep 10, 2016
ISBN9788822842138
Lettere ai "cattivi"

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    Lettere ai "cattivi" - Gabriele Falco

    dell’autore

    L'autore

    Ai cattivi 

    di ogni tempo

    L'autore

    Prefazione

    Prefazione

    Il vocabolo italiano cattivo, con il quale si suole indicare una persona malvagia, secondo i più deriverebbe dall’espressione del latino medioevale (cristiano) CAPTIVUS DIABOLI (= prigioniero del diavolo).

    Con essa, quindi, si intendeva sottolineare che chi agiva in maniera non retta e non buona lo faceva perché era sotto l’influsso o il dominio del diavolo.

    Con il tempo il sostantivo DIABOLI cominciò a essere sottinteso, perché l’aggettivo CAPTIVUS (e in seguito CATTIVU > CATTIVO), anche se usato da solo, veniva inteso correttamente da tutti.

    Ciò fece sì che il vocabolo, oltre a essere impiegato come aggettivo (cattivi pensieri; uomo cattivo), venisse usato anche come sostantivo (i cattivi sono ovunque).

    E fin qui la storia del vocabolo. Ma, per quanto concerne la cosiddetta cattiveria, la quale viene attribuita a determinati individui poco raccomandabili, chi può dire che essa non sia, in molti casi, il frutto di giudizi sommari e sbrigativi che vengono formulati su persone che agiscono o hanno agito in maniera non conforme a una morale e un MODUS VIVENDI codificati a immagine e somiglianza di un certo tipo di società? E chi può ritenere infallibile, con assoluta certezza, un giudizio formulato da altri (del passato e del presente) intorno a degli individui che avrebbero agito o agirebbero in maniera discutibile?

    Chi erano e chi sono, in realtà, i cosiddetti cattivi a cui sono rivolte le lettere raccolte nel presente volumetto? E in quale contesto e come si sarebbe evidenziata o si evidenzierebbe la loro cattiveria? E che differenza c’è tra un cattivo senza virgolette e un cattivo con le virgolette?

    Già, che differenza passa tra un cattivo senza virgolette e un cattivo con le virgolette? Ecco: proprio in seguito a quest’ultima domanda sono state scritte le Lettere ai cattivi; indirizzate non ai cattivi senza virgolette (coloro i quali, cioè, malvagi sono stati e sono davvero), ma ai cattivi con le virgolette. Le quali ultime, racchiudendo il vocabolo cattivi, evidenziano, non senza una punta polemica, un atteggiamento se non di condanna almeno di critica nei confronti di un MODUS IUDICANDI ingiusto perché frettoloso, estemporaneo e, in qualche caso, anche (ahimè!) di parte.

    L’autore

    Raccolta epistolare

    Gabriele Falco

    Lettere ai cattivi

    Raccolta epistolare

    10- Ad Antonio Salieri

    Indice delle lettere

    1- A Franti

    2- A Giuda

    3- A Pietro Aretino

    4- Al lupo

    5- Ai terroni

    6- A Ovidio

    7- Ai plebei dell’Aventino

    8- Ad alcuni repubblichini

    9- Ai Borboni

    10- Ad Antonio Salieri

    * Franti - Alunno particolarmente ribelle e indisciplinato frequentante la Terza classe della Scuola Elementare torinese all’interno della quale sono in gran parte ambientate le vicende narrate dallo scrittore Edmondo De Amicis (Oneglia 1846-Bordighera 1908) nel suo celebre libro intitolato Cuore (1885).

    A Franti*

    * Franti - Alunno particolarmente ribelle e indisciplinato frequentante la Terza classe della Scuola Elementare torinese all’interno della quale sono in gran parte ambientate le vicende narrate dallo scrittore Edmondo De Amicis (Oneglia 1846-Bordighera 1908) nel suo celebre libro intitolato Cuore (1885).

    Caro Franti,

    da molto tempo desideravo scriverti per testimoniarti la mia solidarietà e il mio più profondo affetto. Un affetto sincero, non di facciata come quello che è abituato a esprimere il bigotto perbenista, che ha bisogno di mostrarsi filantropo per essere accreditato presso una società di falsi valori in cui i veri uomini buoni e di animo gentile –pochi– vengono messi da parte; e le rare volte che vengono presi in considerazione è solo perché servono agli sporchi fini di ogni tipo di intrallazzatore.

    Io non sono un potente, uno di quelli che contano, un pezzo grosso, insomma. Sono solo un poveraccio come te, una persona che ogni giorno si dibatte tra mille problemi. Tuttavia sono pronto a porgerti il mio aiuto sincero e disinteressato, per quanto uno come me possa fare. 

    Certo non mi è possibile toglierti dal corpo e dallo spirito gli anni trascorsi nella fetida prigione dove moristi maledicendo l’ottusità e di chi ti aveva condannato dopo un processo sommario e sbrigato in fretta, e di coloro che, con il loro modo di agire nei tuoi confronti, ti avevano spinto sulla cattiva strada. Né posso farti dimenticare gli stenti e le molte altre ingiustizie patite nella tua disgraziata vita. Posso però tentare di riabilitarti agli occhi della mia società entrata ormai nel ventunesimo secolo e nella quale pare ci sia stato un progresso notevole anche nel campo della civiltà (così almeno vanno  ripetendo  degli  autorevoli personaggi  del  mio tempo; quegli stessi personaggi che vediamo insultarsi e accapigliarsi in maniera indecente e scandalosa alla tivù).

    Soffro infinitamente nel vederti designare ancora oggi come un essere abbietto e spregevole solo perché quel tuo compagno di classe, il signorino Enrico Bottini, ha scritto nel suo diario cose poco lodevoli intorno alla tua persona; e questo perché credeva, quel presuntuoso rappresentante della mediocrità italiana postunitaria e monarchica, di conoscere bene il carattere e la situazione familiare e sociale dei ragazzi che stavano in aula con lui.

    In verità è molto facile giudicare i propri simili quando si conduce una vita agiata e senza eccessivi problemi; quando si è cresciuti in mezzo alla bambagia nella quale si continua a stare per tutta la vita senza aver dovuto lottare neanche un po’, grazie alle amicizie di un padre borghese che mentre da una parte fa delle interminabili tirate moraleggianti a suo figlio, non fa niente per togliergli dal cuore una profonda e ingiustificata avversione verso un suo compagno di scuola bollato da tutti come delinquente. 

    È facile anche nutrire sentimenti di commiserazione, pietà e amicizia verso le persone più sfortunate di noi; così come è facile pregare quel Dio padre di tanti figli ai quali non dà in egual misura, come qualsiasi altro genitore farebbe verso la propria prole.

    Quanta miseria è passata sotto gli occhi di Enrico Bottini e dei suoi familiari, quante mute preghiere di aiuto si sono alzate verso di lui! Ma egli, convinto di far del bene ai tanti bisognosi, non è andato oltre l’invito nella sua casa lussuosa di quei figli di proletari. Non è andato più in là dell’offerta di una misera merenda a base di pane e zibibbo. Né suo padre ha fatto di più, limitandosi solo a fargli notare che in casa non poteva esserci il quadro del Rigoletto in presenza del povero Nelli, il gobbino; o a vietargli di pulire il comodo divano sul quale si era seduto il muratorino, vestito con i panni del padre sporchi di calcina.

    Quando Enrico e la sua famiglia hanno fatto qualcosa  in più hanno regalato i loro cenci smessi alla madre di Crossi, il ragazzo dal braccio morto, oppure hanno donato un vecchio trenino al povero Precossi, il figlio del fabbro violento. Ma, ammesso che in questi casi abbiano compiuto delle straordinarie azioni di bontà e altruismo, cosa hanno fatto per tanti altri bisognosi e soprattutto per te, che con quel tuo comportamento a scuola cercavi –senz’altro inconsciamente– di attirare l’attenzione degli altri su di te? Cosa hanno fatto?... Niente!, assolutamente niente.  Anzi, a te Enrico ha fatto addirittura del male, descrivendoti come un poco di buono da cui bisogna stare il più possibile lontano. Nessuno ti ha compreso, caro Franti. Nessuno ti ha teso una mano. Nemmeno il maestro Perboni. Quello stesso maestro che un giorno esortò i tuoi compagni a volere bene al piccolo calabrese che veniva da tanto lontano e che sicuramente si sarà sentito dire tante volte, con accento sprezzante, così come avviene ancor oggi per molti meridionali trasferitisi al Nord: «Terrone!»; o: «Brigante!».

    Tutti facevano bei discorsi sull’altruismo, sull’amore e il rispetto per i disgraziati, sull’amicizia e la solidarietà tra gli uomini, ma all’atto pratico ognuno si chiudeva egoisticamente nella propria accogliente casa, nella cui ovattata atmosfera  non  giungevano nemmeno gli echi di quei ragionamenti fatti a scuola. L’unica cosa che un ricco è disposto a dare ai diseredati è la compassione, poiché questa lo illude di aver fatto del bene a colui che ha compatito e lo fa dormire senza rimorsi. Basta dire di uno che crepa di fame e di freddo: «Poveretto, come mi fa pena!», e ci si sente subito più leggeri. Poi, naturalmente, si è ancora più misericordiosi e altruisti se la Domenica, a Messa, si biascica qualche preghiera anche per lui. Che dopo, una volta fuori di chiesa, incontrandolo non ci si domandi per niente se ci sia qualcosa di più concreto da fare per il derelitto, è tutto un altro affare. L’importante è aver recitato bene la parte del buon samaritano, di colui che si dà pena per il prossimo. Strani tipi di samaritani, i ricchi!

    Ma tu, Franti, tu che non hai mai voluto la commiserazione degli altri, non potevi fare a meno di crearti una maschera diversa da quella che era la tua personalità. Uno schermo fatto di aggressività e insolenza, ma dietro il quale si celava l’orgoglio di chi non ama vedersi compiangere ipocritamente e che desidererebbe invece un reale gesto di umanità. Il padre di Enrico, lo stimato ingegner Bottini, riesce a strappare delle lacrime a uno sprovveduto lettore del diario di suo figlio, nelle pagine in cui è intervenuto con i suoi soliti predicozzi dall’intento edificante; ma non ne strapperà più a me, puoi starne certo! Sì, confesso che quelle riflessioni un tempo mi hanno commosso profondamente, ma allora ero troppo ingenuo per non piangere di fronte a simili esempi di bontà, umanità, sincerità. E confesso anche –ora me ne vergogno– di aver nutrito una certa antipatia nei tuoi confronti, mio bistrattatissimo amico –consentimi di chiamarti così–. Ma a quel tempo, come ho già scritto, non avevo ancora aperto gli occhi sulla realtà. A dieci anni si è profondamente convinti che gli uomini agiscano così come parlano. L’ho scoperto dopo, a mie spese, quanto sia sbagliato fidarsi di chi dice una cosa e ne fa un’altra, di chi predica bene e razzola male.

    Certo, è bello leggere il rimprovero di un padre al figlio che si mostra contento per un’abbondante nevicata:

    «Voi festeggiate l’inverno... Ma ci son ragazzi che non hanno né panni, né scarpe, né fuoco. [...] Voi festeggiate l’inverno, ragazzi. Pensate alle migliaia di creature a cui l’inverno porta la miseria e la morte».

    È bello pensare che gli altri si preoccupano di coloro i quali non hanno di che mangiare, di che vestirsi, di che ripararsi. Tuttavia sarebbe ancora più bello poter constatare che quanti esprimono tali nobili sentimenti si dessero da fare per alleviare materialmente le sofferenze della povera gente, lasciando una volta per tutte melliflua retorica e buoni propositi ai politicanti e ai contafrottole in genere. La realtà, come tu ben sai e hai avuto modo di verificare sulla tua pelle, è del tutto diversa. Cosa ha fatto Enrico Bottini per capirti? Cosa ha fatto quel galantuomo di suo padre per indurlo ad avvicinarti in qualche modo? Cosa hanno fatto il maestro e il direttore della scuola che frequentavi, per recuperarti? Nessuno ha fatto niente per te, che pure eri uno dei più bisognosi di aiuto, affetto e comprensione. Ecco come parla di te, invece, il signorino, quando passa in rassegna i propri compagni di classe: «una faccia tosta e trista, uno che si chiama Franti, che fu già espulso da un’altra sezione».

    Altrove ti definisce: «Quella brutta faccia».

    Ma il suo odio nei tuoi confronti il signorino lo evidenzia in tutta la sua profondità nel seguente brano del lodevole diario lasciatoci e che non stupirebbe più di tanto,

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