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Scritti (1935-1945)
Scritti (1935-1945)
Scritti (1935-1945)
Ebook829 pages10 hours

Scritti (1935-1945)

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Eugenio Curiel (Trieste, 11 dicembre 1912 – Milano, 24 febbraio 1945) è stato un partigiano e fisico italiano. È stato capo del Fronte della gioventù per l'indipendenza nazionale e per la libertà, e fu Medaglia d'Oro al Valor Militare alla memoria. La presente opera raccoglie i suoi scritti di oltre un decennio, inclusi quelli relativi al confino di Ventotene. Un'opera inedita in formato digitale.
LanguageItaliano
Release dateSep 7, 2016
ISBN9788899941376
Scritti (1935-1945)

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    Scritti (1935-1945) - Eugenio Curiel

    Eugenio Curiel

    Scritti 1935-1945

    Eugenio Curiel

    SCRITTI 1935-1945

    OPERA COMPLETA

    Greenbooks editore

    ISBN 978-88-99941-37-6

    Edizione digitale

    Settembre 2016

    ISBN: 978-88-99941-37-6

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write (http://write.streetlib.com)

    un prodotto di Simplicissimus Book Farm

    Indice dei contenuti

    Scritti 1935-1945

    VOLUME I

    Prologo La famiglia educatrice

    I. Il fanciullo e l'adolescente

    II. Sindacato dei genitorie corporazione della famiglia

    Parte prima. Il «lavoro legale»

    Parte seconda. Per l'unità d'azione

    Parte terza. San Vittore e Ventotene

    VOLUME II

    Parte prima. «La Nostra Lotta» e «l'Unità»

    Parte seconda. Il Fronte della gioventú

    ​Epilogo

    Scritti 1935-1945

    Abbreviazioni

    ACS – Archivio centrale dello Stato

    APC – Archivio del Partito comunista italiano

    ASR – Archivio storico della resistenza

    IF – Istituto Feltrinelli

    IG – Istituto Gramsci

    Prologo

    VOLUME I

    Prologo

    La famiglia educatrice

    I. Il fanciullo e l'adolescente

    Dando una rapida scorsa a tutte le nazioni civili con riferimento alle opere protettive dei minorenni, noi le troviamo in esse da molto tempo assai sviluppate.

    L'origine di esse sta nella maggiore libera valorizzazione dell'uomo e lo spirito informatore è la pietà. Per ciò che riguarda in special modo la protezione dell'infanzia e dell'adolescenza, prevale il criterio di conservazione della specie e di difesa della società, giudicando, attraverso la scuola positiva, l'anormale e il malato passibili di miglioramento, di educazione e di cure: dominante su tutto il concetto di uguaglianza davanti a Dio, per la quale uguaglianza il volgersi benefico dei meglio dotati verso i manchevoli, rappresenta come una espressione del culto della divinità.

    Si capisce dunque come nello Stato in cui l'uguaglianza non è piú considerata soltanto davanti alla divinità, ma nella sua espressione assoluta di condizione umana in rapporto a tutte le necessità di cui è creditrice la vita, sia superato e cancellato il concetto di beneficenza e di carità e non rimanga che quello di autoconservazione e interdipendenza collettiva della salvezza fisica e spirituale.

    Possiamo in certo qual modo avere un'idea di quanto è stato fatto nelle Repubbliche socialiste sovietiche, attraverso i Saggi di legislazione sovietica del magistrato Tommaso Napolitano, giudicato «esperto cultore delle leggi sovietiche e studioso dei fenomeni sociali e giuridici del bolscevismo» (Gennaro Marciano).

    Dalla concitata domanda di Lenin ai rappresentanti di Jaroslav, che gli presentavano una relazione sulla situazione del paese dopo la caduta dell'armata bianca: «Ed i fanciulli?... Come stanno i fanciulli?», da allora ai nostri giorni si è proceduto cosí rapidamente ed alacremente nel campo dei provvedimenti e delle riforme, da ottenere risultati, per cui, dice lo stesso Napolitano: «La risoluzione di certi problemi talvolta di portata universale possono considerarsi effettive conquiste della civiltà, e come tali interessare tutti i popoli civilmente progrediti».

    Da quando, nel I Congresso panfederale sulla difesa della infanzia (2-8 febbraio 1919), il partito tracciò le direttive della lotta «da condursi sistematicamente, col concorso di tutte le organizzazioni proletarie, e non già per la via della privata beneficienza», lo Stato chiamò partecipi alla lotta per la tutela dell'infanzia tutti gli organismi sociali, emanando ordinanze ed istruzioni, fra l'altro, sugli indirizzi della Commissione per gli affari dei minorenni, cioè per la difesa dei loro diritti e interessi; le quali commissioni devono essere composte di un maestro, di un medico, di un giudice e dei vari presidenti dei soviet locali e della locale sezione della società L'amico dei fanciulli, e «non hanno nulla in comune – dice il Napolitano – coi vecchi tribunali zaristi per minorenni e neppure con le nostre sezioni speciali, poiché il nuovo principio è questo: che al di sotto dei sedici anni non esistono minori delinquenti ma soltanto trasgressori del diritto».

    Non attuato un disegno di Lenin concepito nel 1919 per la istruzione di una «Commissione per minorenni traviati» che avrebbe dovuto risultare composta di un maestro, di un medico e di un giurista, venivano invece creati, davanti al fenomeno dei besprizornie, cioè dell'enorme massa dei fanciulli senza tetto (portato inevitabile della guerra e della rivoluzione) i Consigli per la difesa della infanzia presso ciascun Commissariato del popolo. Notevole il riconoscimento da parte dell'autore di ciò che la stampa occidentale non ammetteva assolutamente, e cioè che «per tutto il 1920, i Consigli per la difesa dell'infanzia, alla dipendenza dei vari Commissariati del popolo, funzionarono lodevolmente». Ma nel 1921, per la carestia che faceva strage con l'epidemia e la fame, l'attenzione del governo appare distolta dal problema dell'infanzia, per quanto leggi, provvidenze e istituzioni continuino a portare il loro piú valido contributo alla restituzione dei fanciulli al luogo d'origine e ai loro parenti.

    Alla morte di Lenin è ordinata la creazione di uno speciale fondo di assistenza di cento milioni di rubli intitolato al di lui nome; cosicché su questa base finanziaria può essere iniziata la costruzione delle varie case di ricovero dei fanciulli, attrezzate – con riguardo alla speciale conformazione biopsichica dei ricoverati – per fanciulli sani o per deficienti o per refrattari o per ribelli.

    Questo concetto di educazione dei fanciulli si allargò poi dai besprizornie a tutti i fanciulli, e in particolar modo a quelli che si trovavano, pur avendo i genitori, privi di vigilanza.

    Per il primo «piano quinquennale» anche il fenomeno sociale dell'infanzia venne considerato, e si ebbe nel 1927 la «Ordinanza» che aveva per iscopo di fornire istruzioni ai vari organi interessati.

    Usciti dalle Dietdoma, ossia dalle prime case di ricovero suaccennate, ai fanciulli venne assicurato il lavoro. A questo scopo una grande azienda collettivizzata è stata da poco fondata a Charkov, tutta con elementi giovanili, ed ha preso il nome di «Piccola guardia». Altre organizzazioni sono sorte accanto a questa, fra le quali quella dei «Pionieri» per l'educazione militare e comunistica dei ragazzi, e quella dell'«Amico dei fanciulli» che ha organizzato innumerevoli giardini d'infanzia e le cosiddette «terrazze» dove sono custoditi i bambini delle lavoratrici.

    La posizione dei fanciulli quindi nell'URSS, oltre ad essere particolarmente importante nella legislazione assistenziale, è tutta considerata con criteri speciali, sia nel codice penale che nella legislazione del lavoro. Dedica il Napolitano all'analisi di questa parte due lunghi capitoli sotto il titolo di Il diritto dei fanciulli e Le case di lavoro per minorenni.

    Nel 1927 venne portato dai 14 ai 15 anni il limite dell'età in cui non possono essere applicate misure di difesa sociale di carattere giudiziario-correzionale, ma bensí di carattere medico-pedagogico da parte delle «Commissioni degli affari dei minorenni».

    Queste misure sono: 1) la consegna del minorenne alle cure dei genitori, adottanti, tutori, curatori o parenti, se costoro hanno la possibilità di mantenerlo, oppure ad altre persone od istituti; 2) la chiusura in speciali stabilimenti medico-educativi.

    Rientrano poi nella particolarissima attenzione ai minorenni tutte le disposizioni del Codice delle leggi sul lavoro a scopo di facilitare l'assunzione al lavoro, proteggerli dalle speculazioni e dagli sfruttamenti: vietando l'assunzione al lavoro di persone al disotto di sedici anni, o, in caso speciale, limitandone la giornata alle quattro ore; stabilendo di sei ore la giornata lavorativa fino a 18 anni; proibendo qualsiasi lavoro gravoso, insalubre, straordinario e notturno. Inoltre l'«Assicurazione sociale», i cui fondi sono costituiti dai contributi dei datori di lavoro – cioè indirettamente dallo Stato – è «la forma attraverso la quale piú compiutamente si realizza la previdenza sociale»; e le norme sui sussidi di disoccupazione, sulle pensioni, sugli assegni di famiglia, sono sempre informate a grande spirito di tutela dei minorenni.

    Passando ora rapidamente al problema della delinquenza minorile, per cui valgono i princípi che respingono i concetti della pena-castigo (adottando quelli della pena-difesa), della colpa e della retribuzione, vediamo che gli stabilimenti sovietici sono tutti organizzati in vista della finalità del riadattamento del condannato alla vita sociale. Di qui una rigorosa specializzazione degli stabilimenti correzionali con obbligo di lavoro, dei quali quelli speciali organizzati esclusivamente per delinquenti minorenni devono considerarsi una conquista della scienza penitenziaria. Per essi fu nuovamente affermato il carattere medico-pedagogico, quando nel 1921 si cominciò a costruire le prime «case di lavoro» (truddoma) alle quali, oltre ai minori dai 14 ai 16 anni, sono ammessi, in casi eccezionali, anche quelli dai 16 ai 18 o 20 anni, generalmente però separati in sezioni speciali.

    Interessante la struttura di questi stabilimenti. La direzione di ciascun istituto spetta al direttore, sotto la cui presidenza funziona un soviet pedagogico di cui fanno parte il direttore stesso, un suo aiutante, i maestri, gli istruttori e i medici (un pediatra ed un psichiatra) della Casa di lavoro. I minorenni violatori del diritto, che vengono soltanto divisi in due categorie: dei «recidivi» e dei «non recidivi», sono autorizzati a formare delle truddoma, associazioni collettive autonome, per cui si sperimenta nel regime penitenziario quel principio dell'autogoverno che si realizza dopo il raggiungimento della coscienza di autodisciplina.

    Lo statuto di questo «autogoverno» degli allievi delle truddoma contempla una cellula fondamentale formata da un «raggruppamento a cinque» che elegge nel suo seno un «capo». I capi di questi raggruppamenti costituiscono in ciascun gruppo di allievi i sovieti dei capigruppo e i capi di tutti i gruppi formano i sovieti dei capi della Casa di lavoro. Nell'assemblea generale si discutono le questioni piú importanti, si dànno pareri sugli esposti, sulle relazioni, sui rapporti informativi, vengono organizzate commissioni, eletti membri, ecc.

    A queste adunanze e assemblee possono intervenire, con diritto a voto consultivo, i delegati del Consiglio pedagogico della casa, il presidente dell'associazione «pionieri» e i dirigenti delle organizzazioni giovanili comuniste.

    Nel 1930 si decise di aggregare queste case di lavoro alle grandi fabbriche e officine; ed i minorenni, licenziati dallo stabilimento e provvisti di una istruzione professionale scrupolosa, sono assunti al lavoro nelle fabbriche stesse; una volta compresi nei quadri operai tornano, con perfetta uguaglianza di diritti e di doveri, in seno alla società.

    Il Napolitano conclude quest'interessante saggio con un parallelo fra la legislazione e il metodo correttivo che ha esaminato, e la nostra legislazione penitenziaria.

    II. Sindacato dei genitorie corporazione della famiglia

    Asserisce il Napolitano nel suo interessante saggio sulla legislazione sovietica (a proposito della delinquenza dei minorenni), che il fenomeno trova la sua prima causa nel dissolvimento della famiglia – «il quale dissolvimento non si può negare che abbia le sue radici piú profonde nel sistema economico-sociale degli Stati moderni» – ed espone il suo dogma in queste parole: «Dov'è uno Stato forte, uno Stato etico, una giustizia che si fondi su princípi morali ed obiettivi, ivi rimarranno i nuclei familiari a sorvegliare, proteggere, guidare i futuri cittadini nel tempo della prima formazione della loro coscienza; e l'assistenza sociale, la legge, le misure correzionali interverranno in casi eccezionali, quando l'ambiente nel quale visse il fanciullo fu insufficiente ad indicargli la via dell'onestà e del lavoro, o quando da questa via lo distolsero l'innata predisposizione al male, che non trovò nel normale regime familiare un correttivo efficace».

    In Italia, con l'Opera nazionale maternità e infanzia, (la cui costituzione e finalità e il cui funzionamento sono ampiamente illustrati dagli scritti di Sileno Fabbri, presidente dell'Opera stessa), si guarda con alacre interesse e senso di disciplinata protezione all'infanzia e ai minorenni. Molto è stato fatto in questi ultimi anni; se anche i risultati, a detta del presidente stesso, non sono stati rispondenti allo sforzo, molti problemi sono stati posti e affrontati e molte difficoltà eliminate.

    Ci interessa ora rilevare a questo riguardo il problema posto dall'ANS circa «l'iscrizione, volontaria s'intende, dei padri e delle madri all'Opera MI come alla loro piú vera corporazione, come al grande istituto mutualistico cui dare contributo materiale e concorso morale, per riceverne norme sane di indirizzo igienico-educativo ed assistenza concreta del fanciullo psichicamente ammalato e pericoloso» (Problemi del lavoro – 1/34).

    Riandando rapidamente la storia della famiglia dall'altro secolo all'anteguerra, vediamo che la famiglia ha subíto una grande evoluzione. Con la scomparsa del diritto di potere del padre sui figli si è modificata la potenza paterna e, conseguentemente, si sono accresciuti i diritti della madre. Sono stati quindi equamente divisi i diritti di educazione, di sorveglianza, di correzione e sono stati riconosciuti i diritti dei figli, in vista dei quali è avvenuta una restrizione alla libertà di giudizio e decisione dei genitori e sono stati istituiti i tribunali competenti a cui possono ricorrere i figli stessi. Tutto questo in vista degli interessi sociali che premevano sulle vecchie legislazioni e sulle tradizioni riguardanti la famiglia come nucleo a sé, indipendente dalla collettività. Posto che alla società interessa la salute morale e fisica e il miglioramento psichico e intellettuale dei suoi componenti, si è provveduto, – considerando la famiglia il crogiuolo in cui avviene la prima formazione dell'individuo, – a renderla piú idonea a un fine educativo e a dotarla di diritti e di doveri, nel cui equilibrio potesse formarsi la coscienza prima delle generazioni considerate come unità sociali, coltivate e assistite inoltre dalla scuola obbligatoria e dalla beneficienza pubblica.

    Passati poi nel dopoguerra dalla beneficienza pubblica alla vera e propria assistenza di Stato, è avvenuto in questo campo un profondo mutamento sia nei princípi informatori che nelle organizzazioni pratiche assistenziali; ma sempre ci si fonda sulla famiglia per ciò che riguarda la formazione e la preparazione prima degli uomini alla vita, pronti poi ad intervenire nel caso che questa formazione e preparazione sia stata deficiente e magari perniciosa. Giustamente a questo proposito si rileva nell'articolo dei Problemi del lavoro nell'occasione della «giornata della madre, del fanciullo e dell'adolescente» che «come è metodo erroneo, nel campo fisico, il provvedere all'assistenza del tubercoloso, cioè d'un malato specifico evidente, prima ancora ed indipendentemente da un'assistenza sanitaria generica e comune che funga anche da strumento di difesa e di prevenzione profilattica, cosí è metodo erroneo, nel campo psichico, interessarsi dei fanciulli anormali e degli adolescenti deviati, prima ancora di aver aiutato le famiglie a prevenire o prontamente curare le manifestazioni iniziali del male».

    Siamo quindi di fronte a una revisione delle facoltà educative e curative della famiglia, cioè: di quelle della madre a cui le conquiste del femminismo nel campo morale e materiale dovrebbero pur aver permesso un piú elevato grado di cultura intellettuale e una piú vasta preparazione psichica e spirituale fondata sulla istruzione e sulla partecipazione diretta a tutte le manifestazioni di vita; di quelle del padre che, conscio delle sue responsabilità di fronte al libero sviluppo della personalità dei figli e del loro rapporto con la comunità degli altri esseri viventi, dovrebbe continuamente misurare la propria esperienza allo svilupparsi ed al trasformarsi dei valori umani per ragioni contingenti o storiche; e di quelle dell'ambiente-casa fatte di un complesso di elementi imponderabili assieme con eventuali influenze d'ordine materiale e morale.

    Mentre nella famiglia di una volta, di carattere patriarcale, il potere assoluto del capo famiglia e la regolazione esatta e severa delle autorità e delle mansioni supplivano anche alla mancanza dell'istruzione e cultura piú elementare nei componenti principali della famiglia stessa; dissolta questa (con l'urbanesimo, con la piccola proprietà, con lo spirito individualistico di indipendenza, con lo squilibrio di esperienze fra le vecchie generazioni e le nuove, con la diminuita autorità paterna e l'accresciuta tenerezza materna) nella nuova struttura economico-sociale della vita organizzata, è fuori di dubbio che si impone nella compagine della famiglia un aumento di istruzione e preparazione dei genitori onde giungere alle forme di una educazione piú flessibile e aperta e poter far fronte alle esigenze di nature infantili sempre piú influenzate, nei loro istinti e nella loro coscienza e subcoscienza, dal mondo esterno con tutte le sue piú penetranti azioni di traviamento e di sovraeccitazione. Cercare di migliorare tutte le istituzioni tendenti a proteggere la razza e non partire dalla prima istituzione sociale, è errore palese. In ogni scienza e in ogni applicazione di essa si parte dal principio che per ottenere certi prestabiliti risultati bisogna che siano preparati i mezzi adatti e necessari, e cosí dovrebbe avvenire in questa scienza complessa di profilassi morale e spirituale della società. Noi non possiamo non razionalmente considerare i genitori e la famiglia come strumenti di educazione suscettibili di miglioramento, di integrazione e di regolazione: è impossibile credere che soltanto perché hanno compiuto l'ufficio di procreare, i genitori raccolgano in sé tutte le indispensabili virtú e le prestabilite norme necessarie per la difesa e la salute morale della prole. Anche ammessa la miglior preparazione e la miglior volontà, il sentimento affettivo è purtroppo quello stesso che in certi casi, per mancanza di controllo, conduce a risultati perniciosi e irreparabili.

    Nella diminuita potestà paterna da parte delle leggi e nelle istituzioni per la tutela dei diritti dei figli, anche contro i genitori, c'è un riconoscimento esplicito dell'insufficienza dell'ente-famiglia di fronte alle esigenze della vita collettiva, la quale ha assunto a sua volta la sua parte di potere di controllo e di educazione, e che deve considerare i traviamenti e le anormalità degli elementi tarati, tanto in rapporto alle loro cause e origini, quanto in rapporto alla loro cura e guarigione.

    Non è diminuire il valore della famiglia, considerata suscettibile di miglioramento come primo centro educativo; mentre lo è invece l'affidarsi troppo al principio che la famiglia rappresenta una istituzione statica, dogmaticamente chiusa e non permeabile alle nuove emanazioni etiche della trasformata civiltà.

    I mezzi da adottarsi per esplicare questa azione di rinnovamento e preparazione dei padri e delle madri a un'opera di prevenzione e profilassi morale e fisica, non sono certo facili da suggerire. Siamo di fronte a tutte le norme e le esigenze delle scienze igieniche, pedagogiche, psichiatriche, psico-fisiologiche e psicanalitiche, che assumono importanza capitale nell'organizzazione di quella che dovrebbe essere la «corporazione della famiglia»; senza contare la serietà, libera da pregiudiziali di dottrina e di corpo, che dovrebb'essere messa nelle varie ingerenze e nei vari scrupolosi esami delle influenze del mondo esterno sugli elementi passibili di deviamento e alterazione. Ma a questo fine ben è chiara la funzione dell'auspicato «sindacato dei padri e delle madri» a presidio delle generazioni crescenti: per cui non si debba giungere troppo tardi a prodigarsi, pur con sistema correttivo che sostituisca quello punitivo, verso quegli elementi predisposti e deboli in cui avrebbe fatto miracoli di bene un'integrale azione preventiva di profilassi e di rieducazione.

    La filosofia del diritto di Giovanni Gentile

    Non è nel nostro intento esaminare la posizione logica del Gentile e studiare i rapporti che essa ha con quelle che piú le si apparentano. Vogliamo invece esaminare la parte piú concreta e i motivi piú intimi che hanno dettato all'autore questo breve e succoso trattato. E la ragione che ci spinge a questa particolare prospettiva nello studio che vogliamo condurre è la coscienza dell'esigenza che noi sentiamo in questo periodo di superare la vaga ambiguità della soluzione sociale e giuridica della filosofia gentiliana per affermare di fronte ad essa ma pur sulla linea della sua tradizione l'esigenza di una filosofia che sia strumento piú sicuro e guida piú precisa nel giudizio che noi sentiamo di dover operare della presente realtà italiana. E perciò vogliamo ricercare le cause della sua ambiguità e, non attribuendole semplicemente a insufficienza e a debolezze nello sviluppo razionale della dottrina, le ritroveremo nella limitazione che il suo sistema porta per le particolari condizioni economico-sociali e politiche da cui fu mosso...

    Politica e filosofia

    Piano dell'introduzione

    a) Il metodo oggettivo nello studio dei rapporti fra scienze.

    b) Vanità di questo metodo.

    c) Il modo oggettivo come immediatezza.

    d) Necessità della realizzazione.

    e) La mediazione come atto razionalizzante e realizzante.

    f) Realtà e razionalità.

    g) Mondo dell'essere.

    h) Mondo del dover essere.

    i) Loro contrapposizione.

    l) Negatività di essi e positività delle loro sintesi nell'atto razionalizzante e realizzante.

    m) Il mondo realizzantesi e razionalizzantesi.

    Introduzione

    Criterio (pratica) costante nello studio dei rapporti di una scienza con un'altra e di una scienza con la filosofia è ancora un criterio eminentemente oggettivo: criterio che noi indicheremmo semplicemente col nome di criterio della scelta, appunto per meglio rilevare ciò che v'è in esso di arbitrario e di estraneo al problema stesso.

    Allo studioso che investiga codesto problema dei rapporti tra due posizioni dello spirito o tra due esigenze di esso come sarebbero ad esempio la filosofia pratica e quella teoretica, o di entrambe colla politica, si presentano queste esigenze o posizioni come due realtà massive di cui egli dovrà saper sceverare le esigenze comuni e infine le metodologie diverse (i caratteri comuni e quindi da essi partire alla ricerca dei loro caratteri diversi).

    Criterio fondamentale di questo metodo è evidentemente la presunzione della realtà oggettiva e reciprocamente estrinseca dei due termini del rapporto. Essi esistono in sé e per sé e da questa mera esistenza in sé di essi termini egli trae l'immediata illazione della loro essenza diversa e straniera. Tale infatti è il metodo che ha presieduto alle vane ricerche che si designarono (si ripromettevano) una classificazione delle scienze. Ma questa ricerca ormai abbandonata ha lasciato in eredità il suo metodo ad altre ricerche che hanno invece la loro legittimità nella profonda esigenza dell'unità del nostro spirito. Per queste legittime ricerche viene usato ancora quel metodo col risultato di scavare barriere di dualismi ancora piú profondi tra i termini che si volevano intendere e mediare.

    Ed in questa esigenza della mediazione dei due termini del rapporto noi intendiamo infine l'erroneità del metodo che si usa. È forse possibile mediare e mediare per intendere due realtà la cui esistenza ed essenza sono precedentemente affermate in maniera compiuta? La loro realtà è ormai logicamente esaurita, esse si sono convertite in fatti che gravano sul nostro spirito offendendolo colla loro necessità naturale, offendendolo sino a privarlo della sua libertà e cosí ad annullarlo. E in questo esaurimento logico v'è appunto anche l'annullarsi dell'etica che...

    Significato di una storia della scienza

    Uno studio, per quanto limitato ad una certa branca e ad un certo periodo, sulla storia della scienza non può essere affrontato senza che si siano chiarite diverse questioni metodologiche, che sembrano in qualche modo esulare dal puro terreno scientifico. Che esse si pongano in modo necessario, si vede non appena si esamini cosa possa essere una storia della scienza. Se questa si riducesse ad una esposizione obbiettiva di dottrine, il cui solo ordinamento fosse quello di una successione cronologica, simili problemi non troverebbero sicuramente posto in questa introduzione; ma, anche se essa pensasse di ridursi a simile esposizione, la storia della scienza non potrebbe pretendere di esporre la totalità delle dottrine scientifiche e sarebbe costretta a operare una scelta. Ora tale scelta non potrebbe essere abbandonata al capriccio dello storico, ma dovrebbe essere il concretarsi di un certo criterio, che, giudicando dall'importanza e perciò dal valore delle varie dottrine, abbisogna di giustificazioni e di chiarimenti.

    Il criterio di scelta, essendo criterio di valore delle varie dottrine, è in fondo un giudizio sulla scienza; per cui si vede come il semplice problema propostoci porti necessariamente alla posizione del complesso di che cosa sia la scienza.

    Problema, questo, cospicuo i cui addentellati sono infiniti e involgono tutta la filosofia e i cui limiti non possono essere determinati e criticati esaurientemente in questa breve introduzione, problema poi che, come vedremo non ammette una soluzione definitiva, nel senso che esso possa portare alla definizione di un modello di scienza, ma problema che non possiamo dimenticare, fondando esso i criteri che ci saranno di guida nella nostra esposizione.

    La semplice osservazione circa l'esistenza di un problema che ha a suo oggetto la scienza nella sua totalità indica l'esistenza di una logica in cui non il singolo problema particolare è oggetto di ricerca, ma la scienza nella sua totalità, nella sua essenza di metodo di studio della natura fenomenica.

    Tale logica, per il fatto che prende a suo oggetto la scienza, non si identifica con la logica scientifica, che è invece il suo oggetto, in quanto la logica scientifica costituisce la realtà della scienza stessa. Non si può porre, però, nemmeno su un piano superiore alla scienza, perché tale logica trae i suoi motivi dall'esistenza storica della scienza ed il pensarla superiore ed autonoma rispetto alla scienza significherebbe toglierle la realtà per trasferirla in un mondo astratto, in cui essa non avrebbe vita, non avendo oggetto per la sua ricerca. La realtà di questa logica sta nell'avere un oggetto e nel non poter essere senza questo suo oggetto, per cui il trasferirla in quel mondo che si pretende superiore alla scienza ed in genere ad ogni realtà, significa negarla.

    Ma parimenti erroneo sarebbe concepire la scienza, in quanto oggetto della logica cosí definita, come una ricerca svolgentesi autonoma ed intollerante di ciò che essa talvolta sprezzatamente chiama le intrusioni della filosofia.

    Ma cosa significano queste intrusioni? Esse non rappresentano se non l'aderenza della scienza a quella realtà che è la sua storia e la sua giustificazione. Senza questa concreta base storica non potrebbe riuscire a spiegare la sua posizione e si staccherebbe sempre piú da quella realtà di cui essa vuole essere l'interprete nell'aspetto fenomenico. Essa si astrarrebbe in un mondo che, per la sua autonomia, non consentirebbe ritocchi e critiche superanti vecchie posizioni, mancandole da un lato la coscienza del suo sforzo, che perennemente tende alla rappresentazione della realtà, mancandole dall'altro il contatto con quella realtà immediata che è fondamento di ogni ricerca scientifica.

    Da questa posizione, per quanto appena abbozzata, scaturiscono già diverse concrete conseguenze per il nostro specifico problema di storia della scienza. Anzitutto il metodo, di cui noi ci varremo nella critica dei sistemi scientifici, non è quello del semplice confronto di una particolare metodologia con un modello, che si cerchi di derivare razionalmente in modo del tutto indipendente dal concreto fatto scientifico, ossia noi non assumeremo la posizione di una logica «egemonica» la quale ponga un modello alla scienza e pretenda che la scienza a questo astratto modello venga ad adattarsi. Il nostro metodo non potrà essere che quello dell'esame del particolare fatto scientifico (nella sua realtà di metodologia) alla luce dell'esperienza che la stessa storia della scienza ci ha fornito.

    Altra non potrebbe essere la nostra impostazione per la reciproca posizione in cui abbiamo posto la logica e il suo oggetto, la scienza, posizione che è di reciproca interdipendenza e non di priorità dell'una verso l'altra. La posizione di una logica superiore avrebbe portato ad una critica operante secondo modelli assoluti; la posizione di una scienza autonoma ci avrebbe reso impossibile la storia della scienza per l'impossibilità che si sarebbe avuta di connettere i fatti scientifici nella coscienza dello sforzo perenne dei ricercatori verso l'interpretazione della realtà; la critica si sarebbe allora esaurita in una critica frammentaria dei vari metodi, critica che assumendo le basi come ingiustificabili si sarebbe limitata alla ricerca degli errori formali nelle varie dottrine.

    Però, l'impossibilità di determinare un modello astratto alla ricerca scientifica ci conduce anche alla impossibilità di definire in modo autonomo l'esistenza di una storia della scienza. Infatti la storia autonoma di un pensiero scientifico rende necessaria la limitazione del problema stesso nei confini di una definizione logica; definizione che noi non possiamo né vogliamo dare per non cadere appunto in quella pseudo-logica «egemonica» che contemplerebbe freddamente ed astrattamente gli sforzi degli scienziati, senza tener conto della realtà concreta del problema, che sempre si rinnova nello sforzo dei vari ricercatori.

    Cosí arriviamo a chiarire come il problema inizialmente postoci circa la scienza, non ammetta soluzioni logiche, che soltanto una logica egemonica potrebbe fornirci; ma come esso sia, invece, problema di interpretazione e quindi di valutazione delle risoluzioni successivamente apportate ai singoli problemi della scienza. Nessun pensatore può infatti prescindere dalla conoscenza storica del suo problema, in quanto è la storia stessa che gli ha posto il problema in una forma determinata, dalla quale non può uscire se non attraverso alla critica di una forma che egli riconosce superata.

    La storia della scienza perde cosí il suo carattere limitativo di confronto con un concetto definitorio di scienza, perde pure il suo carattere esclusivo di storia autonoma per trarre la sua concretezza da tutto il pensiero che ha pensato la realtà. Essa si risolve cosí in una costruzione che le varie metodologie colleghi nella visione di un unico sforzo tendente alla rappresentazione e all'interpretazione della realtà.

    Il significato di essa sta allora in questa costruzione che il ricercatore opera della storia della scienza e perciò della scienza stessa. Costruzione per la quale egli ha coscienza di continuare lo sforzo della scienza stessa.

    In questa unione che si manifesta tra lo spirito dello scienziato ricercatore e del filosofo della scienza stessa, sta essenzialmente la posizione e quindi la soluzione del nostro problema.

    Allo storico che si ponga nella posizione di una logica «egemonica» non accadrebbe soltanto di sentire l'impossibilità di una storia della scienza, ma anche, dopo aver disposto secondo una mera cronologia le varie dottrine, sarebbe costretto a rinunciare ad una critica, sia pur frammentaria, per l'impossibilità di giustificare, in un modo qualsiasi, la posizione specifica della singola dottrina. La serie di postulati, che lo scienziato ha posto alla base della sua ricerca, non si tradurrebbe per lo storico nella coscienza della necessità derivante all'indagatore da una concreta posizione storica e da un concreto superamento di dottrine precedenti, ma si tradurrebbe soltanto nella visione di un capriccioso arbitrio. E questo capriccioso arbitrio lo storico potrebbe tutt'al piú giustificare a posteriori e in quanto mera giustificazione la critica cosí condotta rimarrebbe perfettamente estranea allo sforzo dell'indagatore. L'indagatore non ha mai posto i suoi postulati rifacendo penosamente una tortuosa via all'indietro, ma li ha posti nell'esigenza di una visione armonica e razionale del reale, di quel reale che allo scienziato, in quanto pensatore, non può presentarsi immediatamente.

    Che significato acquista il problema dell'errore, ossia il problema di una dottrina che si giudichi errata?

    Nell'avere abbandonata la posizione di una logica egemonica, come pure la posizione di una scienza chiusa nel suo mondo, abbiamo abbandonato da un lato il criterio puramente razionale e insieme quello economico della giustificazione a posteriori di una serie di postulati; dall'altro abbiamo rinunciato pure ad un criterio meramente sperimentale nel senso di criterio di verifica. Che significato ha intanto il criterio sperimentale come criterio di verifica? Questo criterio ha la sua origine nell'idea di una scienza perfettamente autonoma e di fronte ad una logica e di fronte ad una realtà empirica. Esso viene ad escludere dal proprio campo di controllo tutto ciò che è metodo scientifico portando la scienza ed il metodo, che ne è la concretezza, su un piano razionale astratto. Questo mondo razionale viene poi a collimare in modo davvero misterioso colla realtà empirica e questa collimazione viene a costituire la prova della verità della scienza. Si vede subito che questo criterio escludendo da sé la capacità di giudicare il metodo non può assolutamente giustificare la posizione di una serie di postulati, che viene anche qui lasciata all'arbitrio e alla giustificazione a posteriori. Ma è realmente prova della scienza il semplice controllo dei suoi risultati? Poniamo che questa giustificazione vi sia ed allora sarà sempre giustificazione singolare e determinata, il cui valore è notevolmente ristretto, intanto, dalla possibilità che abbiamo di pensare altre esperienze; poi è ristretto dalla difficoltà che abbiamo di sceverare nel controllo sperimentale quello che è realmente il puro fenomeno immediato e quello che è costruzione scientifica interveniente nell'esperienza attraverso alla misura delle grandezze definite per mezzo di una serie di postulati. Ma nel caso che questa giustificazione non intervenga è realmente inficiato il valore della dottrina stessa o non è forse possibile da questo punto di vista aggiungere qualche postulato, qualche legge che faccia rientrare nella razionalità scientifica il fenomeno «irriducibile».

    Sfugge cosí a questo criterio di verifica tutto il valore intimo della scienza ed essa se dovesse attenersi solamente a questo criterio potrebbe formulare infiniti postulati e ridursi ad un ammasso per niente ordinato, ma anzi frammentario e singolarissimo di osservazioni e di leggi.

    All'esperienza di Michelson si sarebbe potuto aggiungere un qualche postulato di contrazione e tutto sarebbe andato bene dal punto di vista sperimentale. Ma chi in questa posizione si fosse messo, si sarebbe trovato bene imbarazzato a giustificare la posizione della relatività einsteiniana.

    Il mondo scientifico si sarebbe cosí ridotto ad un infinito accrescersi, mai ad una coordinazione.

    Ma si osservi ora che il metodo sperimentale non è stato affatto colpito in questa critica del criterio meramente sperimentale di verifica. Questa critica si è basata essenzialmente sulla configurazione, implicita in questo criterio, di due ordini: l'uno empirico e l'altro sovraempirico, razionale. Lo sperimentalismo non porta con sé queste tare, poiché esso ha in sé la concretezza derivantegli dalla sua posizione storico-scientifica, che scorge nella realtà stessa del suo esperire la sua giustificazione e non pretende di uscire da un piano scientifico astratto per toccare, come Anteo, terra e da essa riprendere forza.

    Esso porta con sé la piena giustificazione dei postulati, che gli permettono di pensare l'esperienza, e questa giustificazione egli la trae dalla visione dello sforzo dei ricercatori che lo hanno preceduto e che egli nella ricerca stessa germinata dalla coscienza della storia scientifica supera eternamente.

    L'errore interviene quando questo sperimentalismo che è la sostanza della scienza vuole uscire dalla scienza stessa, svuotandola perciò di tutta la sua sostanza, ed erigersi allora a supremo tutore della scienza stessa, ad inappellabile giudice.

    Cosí abbiamo eliminato dalla nostra posizione tutti i possibili criteri che sopraordinati ad una scienza pretendono giudicarla. Il nostro problema dell'errore, da cui esula evidentemente tutto ciò che è errore nel senso volgare, come sbagli di calcolo, di osservazione, ecc., perde cosí il suo carattere astratto per convertirsi in una ricerca che si opera continuamente nella scienza stessa, che si opera nel superamento di posizioni, che si rivelano inadeguate alla rappresentazione armonica del reale.

    Il problema dell'errore non costituisce piú un problema a sé, staccato dalla concreta opera scientifica; perde infine la sua pretesa di costituire una specie di classificazione degli errori, tale che si possa costituire sicuro ed ineluttabile il cammino della scienza. Si converte invece nel travaglio quotidiano dello scienziato, che si determina in una forma piuttosto che in un'altra, guidato dalla coscienza che egli ha dello svilupparsi storico della scienza, convinto che non si darà mai formulazione scientifica della natura che non porti in sé i germi di quello che si rivelerà il suo errore e che felix culpa consentirà il progresso della scienza stessa.

    Parte prima.

    Il «lavoro legale»

    Il nostro lavoro economico-sindacale di massa e la lotta popolare per la democrazia

    Riferendoci agli articoli e documenti comparsi su Stato operaio, relativi all'ultima sessione del CC del PCI, vorremmo esprimere ciò che per noi significa praticamente la nuova parola d'ordine del partito. La nuova parola d'ordine acquista la sua importanza fondamentale sul terreno sindacale. Attraverso a questa azione si tende a migliorare la situazione economica dell'operaio allo scopo precipuo di elevarne la coscienza di classe e ricercare cosí sul terreno classista la necessaria unità di tutti i lavoratori. È da un esame della situazione sindacale, cosí come essa si presenta alla nostra limitata, ma diretta esperienza che trarremo la base per le nostre argomentazioni. È ormai luogo comune il parlare della distanza che corre tra l'apparato legislativo formale del corporativismo e la pratica concreta di esso. Questa distanza è naturalmente effetto, non del gioco degli avvenimenti, ma della particolare volontà del legislatore, che cerca di rendere tutto il suo strumento organo della classe capitalista dominante. Però è necessario al nostro scopo ricercare il punto piú delicato dell'apparecchio corporativo; ed il punto piú delicato, che difficilmente potrà essere tenuto in mano dalle gerarchie fasciste, è quello nel quale lo strumento burocratico si innesta alla realtà viva della classe operaia. Esso si individua facilmente nel fiduciario sindacale, primo gradino dell'organizzazione. Fino all'epoca delle agitazioni di luglio la classe dominante non aveva molto da temere in questa parte della sua organizzazione. E a renderla sicura in questo, avevano contribuito la diffidenza dell'operaio di fronte all'organizzazione sindacale, che gli si presentava sotto l'aspetto di organizzazione padronale e la particolare situazione psicologica del fiduciario. Il fiduciario, infatti, anche se in buona fede, sentendosi circondato dall'ostile diffidenza dei suoi antichi compagni, perdeva il necessario contatto cogli interessi della sua classe e diveniva cosí piú facilmente strumento della classe padronale. Tale processo avveniva attraverso ad una promessa di sicuro miglioramento delle sue condizioni se non addirittura attraverso al cumulo delle sue funzioni con quelle di sorvegliante cottimista, ecc. A questo si aggiunga la impossibilità del fiduciario di salire i gradini della gerarchia sindacale. Essi sono riservati generalmente a vecchi squadristi o a giovani intellettuali della borghesia che attraverso al GUF sono avviati alla carriera sindacale. Le agitazioni di luglio, dove la pressione degli operai nei sindacati ha condotto alla presa di possesso classista di fiduciari e parte dei dirigenti col conseguente risultato dell'aumento salariale e miglioramenti nei vari contratti nazionali, ha dimostrato che un avvicinarsi dell'operaio al fiduciario ed in genere al sindacato, metteva in pericolo l'organizzazione corporativa come organizzazione padronale. Nostro scopo è allora accentuare questa nuova posizione e cioè avvicinare quanto è possibile l'operaio al sindacato determinando il ristabilimento del naturale rapporto di classe fra esso e il fiduciario. Si rende perciò necessaria una duplice azione di fronte ai sindacati, la quale si può caratterizzare attraverso ai seguenti punti: 1) pressione sull'elemento operaio affinché esso impari a superare la naturale diffidenza di fronte ai sindacati; 2) pressione sull'elemento borghese che viene chiamato a funzioni sindacali.

    Tale distinzione non è puramente classificatoria, ma indica la primordiale esigenza di colmare la distanza tra l'operaio e il suo dirigente.

    Colmare la distanza tra operaio e dirigente significa ristabilire l'unità di classe; infatti, attraverso ad un contatto sincero tra fiduciario ed operaio, difficilmente potrà il primo dimenticare gli interessi della classe cui appartiene e piú duro sarà il compito del capitalista di asservirlo ai suoi interessi. La pressione sul secondo elemento è pure necessaria perché il giovane borghese intellettuale che entra nel sindacato è spesso inizialmente portato da un entusiasmo sociale, che è però scarsamente sorretto da una chiara ideologia. La sua unica ideologia è una vaga tendenza di fascismo di sinistra e lo porta perciò a perdersi nell'astrattezza di una organizzazione formale. Una pressione su questo elemento ed un certo inquadramento ideologico lo sosterrebbero meglio nella sua attività e renderebbero difficile pure su di lui la presa degli interessi capitalistici.

    Scendendo ora alla considerazione pratica della nostra azione da noi determinata in due direttive, esaminiamo cosa significa una pressione sull'elemento borghese universitario. È questo il campo dove meglio si adattano le direttive circa il decentramento dei gruppi.

    In questo campo infatti il lavoro si spezza in una fitta serie di azioni individuali, dove la direttiva unica che potrebbe emanare da un'organizzazione a cellule ha meno significato ed è maggiormente distante dalla realtà. Si tratta generalmente di agire su individui giovanilmente entusiasti, in cui permangono esigenze ideologiche che il fascismo generalmente non soddisfa. Con essi è perciò necessario destreggiare appoggiandosi a tutte queste represse esigenze ideologiche, decidendo caso per caso quale possa essere l'elemento piú atto a penetrare con vivezza nella loro psicologia generalmente tormentata. Direttive specifiche sono quindi impossibili anche per la maggiore personalità dei singoli elementi. La base d'azione dovrebbe essere specialmente il GUF che pare accoglierà nella sua organizzazione, oltre agli iscritti a istituti superiori, anche coloro che abbiano superato l'esame di scuola media superiore, dove si incontrano dunque gran numero di elementi che entrano a diretto contatto cogli strati inferiori della popolazione e che spesso traggono la loro origine dalla classe piccolo-borghese e operaia. Altro elemento importante d'azione è la stampa universitaria che assume generalmente atteggiamenti radicali e in cui tenderebbero ad avere sfogo queste represse esigenze.

    Cosa significa e come si realizza una pressione sull'operaio? Il significato e l'obbiettivo dell'azione sull'operaio si chiarisce a nostro avviso nel quadro sindacale come lo sforzo che tende a superare il distacco esistente tra l'operaio e il suo dirigente. Questa azione deve dunque essere accompagnata e direi anzi coordinata con quella diretta verso il dirigente. Una differenza sorge però subito appena si consideri la realizzazione di questa pressione e quando si chieda piú precisamente il significato di fronte unico nell'azione sugli operai. Ma in questo caso il concetto di fronte unico ha lo stesso contenuto che nel caso dell'intellettuale sindacalista? A nostro avviso, no. L'operaio infatti dato lo stato di cose che dura ormai da piú di 14 anni non intende piú le sottili distinzioni politiche, esso è o fascista o piú o meno comunista.

    Elementi che escano da questa classificazione sono i clericali, che però non sono numerosi nelle fabbriche dei grandi agglomerati industriali. Sull'operaio non si può dunque agire in nome di un fronte unico, che è formazione schiettamente politica; gli unici concetti che abbiano valore sono i concetti classisti, che necessariamente accomunano operai fascisti e operai piú o meno antifascisti.

    Attraverso ad una pressione semilegale su questi elementi classisti si potrà riuscire ad avvicinare l'operaio al suo fiduciario e diminuire cosí la distanza che li separa. Dunque la parola d'ordine del fronte unico ha da significare, in ambiente sindacale e piú specificatamente nel lavoro semilegale, esclusione di concetti specificatamente politici. Ma affinché si possa fare questo, è necessario, a differenza di quanto è richiesto nel lavoro collaterale, che le direttive siano precise e specifiche. L'operaio non presenta quella gamma di diversità personali; in genere ciò che va bene per gli uni, va bene anche per gli altri. È quindi oltremodo necessario tenere desto il gruppo segreto che sotto l'oculata direzione dei suoi capi deve riuscire a tenere nelle sue mani le file della vasta opera semilegale. Essa riuscirà appunto ad avere un tono soltanto attraverso l'opera assidua degli aderenti al gruppo segreto. Dunque decentramento dei gruppi, come abbandono della pratica di infiltrazione cellulare, nel campo sindacale, ma severa organizzazione dei gruppi attuali affinché il lavoro semilegale diretto da essi possa riuscire efficace.

    Concludendo potremo riassumere le nostre considerazioni sulla applicazione della nuova tattica ponendo come fondamentali i seguenti punti:

    1) duplicità di azione coordinata sulla classe intellettuale-sindacale universitaria e sulla classe proletaria;

    2) lotta semilegale proletaria sotto la stretta direzione dei capi del PCI attraverso al gruppo segreto.

    Questa lettera è frutto della discussione di alcuni lettori di Stato operaio. Io ho voluto inviarvela per avere da voi un consiglio circa il nostro modo di vedere la nuova tattica.

    Giorgio Intelvi

    Risposta di Egidio Gennari a Giorgio Intelvi

    Vogliamo, innanzi tutto, esprimere ai giovani compagni che ci scrivono la nostra soddisfazione per il concorso che apportano alla realizzazione della politica del PCI. Salta subito agli occhi, leggendo la loro lettera, che si tratta di giovani venuti al comunismo attraverso l'esperienza del fascismo, direttamente e coscientemente vissuta. Di questa esperienza essi portano con sé i pregi ed i difetti. I pregi consistono nel contatto vivo che questi giovani mantengono coll'ambiente nel quale hanno sviluppato la intelligenza della vita e dei problemi italiani (ed essi custodiranno gelosamente questo contatto), ciò che permette loro di comprendere che il terreno corporativo-sindacale è il piú importante terreno per la mobilitazione delle masse lavoratrici italiane per la difesa del pane e per la conquista della libertà. I difetti, comprensibili, sono costituiti da una certa impreparazione politica generale, e in particolare della dottrina marxista. Il loro linguaggio riflette questa impreparazione. Intendiamoci: parliamo qui del modo come questi giovani interpretano taluni problemi della nostra politica, dell'inesatto impiego della nostra terminologia (si tratta di una questione politica importante), e non del loro modo di esprimersi, che è il modo di esprimersi della gioventú studiosa e intellettuale di oggi. Questi difetti scompariranno con lo sviluppo della educazione dottrinale e politica dei giovani compagni, con lo sviluppo della loro attività politica. I comunisti anziani sono lieti di accogliere nelle file del partito, dei giovani come quelli a nome dei quali ci scrive Giorgio Intelvi, e faranno tutto quanto è necessario perché questi giovani diventino dei quadri comunisti ideologicamente e politicamente forti, dei capi della grande classe operaia italiana.

    La linea politica fissata dal Comitato centrale del partito, a settembre, le cui premesse possono trovarsi nella politica immediatamente anteriore del partito, è stata sintetizzata nella formula: Unione del popolo italiano per la conquista del pane, della pace e della libertà. Realizzare questa politica vuol dire condurre una azione pratica quotidiana di massa per unire la classe operaia (unità di classe) e per unire attorno alla classe operaia tutti gli strati popolari. Unire tutti gli operai, fascisti, antifascisti, cattolici, indifferenti. Unire tutte le masse popolari. Questa azione quotidiana significa la messa in movimento delle masse, la lotta per tutte le rivendicazioni degli strati popolari, economiche e politiche, dalle piú minute e particolari a categorie determinate, a quelle generali che interessano tutta la classe operaia, tutti gli strati popolari, tutto il popolo.

    L'obbiettivo della nostra azione politica generale, nel periodo attuale, è la conquista della democrazia. Cioè tutte le azioni particolari di massa che noi dobbiamo promuovere, favorire, appoggiare, debbono essere incanalate ed orientate verso l'obbiettivo della conquista della libertà e della democrazia.

    Nella realizzazione di questa politica si pongono problemi particolari, alcuni dei quali sono stati trattati con forza nell'ultima sessione del CC, ma che debbono essere sempre visti in relazione agli obbiettivi politici generali perseguiti attualmente, alle prospettive ed alla dottrina del nostro partito. Tra questi problemi sono stati posti in primo piano, nella sessione di settembre del CC, quelli riguardanti la nostra azione nei sindacati e nei riguardi dei quadri fascisti, problemi sui quali si sofferma la lettera di Giorgio Intelvi, frutto di una discussione con altri lettori di Stato operaio.

    Questi, facendo lo sforzo di concretizzazione nell'interpretazione della politica del partito, hanno preso come centro della loro discussione quello che è «il punto piú delicato dell'apparecchio corporativo», cioè «lo strumento burocratico che si innesta alla realtà viva della classe operaia», esprimendo, nello stesso tempo, quali dovrebbero essere i rapporti – essi dicono: la «pressione» mutua – fra tale strumento e la classe operaia. Soprattutto su tale punto riteniamo necessario fare dei rilievi alle interpretazioni contenute nella lettera di Giorgio Intelvi, per metterlo in guardia contro i resti di concezioni che derivano da un sindacalismo intellettualistico assai diffuso tra la gioventú italiana di oggi, secondo il quale lo «strumento» è elevato al grado di forza motrice che agisce esternamente e che esercita una «pressione» sulla classe operaia.

    Diciamo subito che, con questo rilievo, non intendiamo affatto diminuire quanto è stato detto, avanti e nel corso e nell'ultima sessione di CC, sul come i comunisti e gli operai debbono contenersi nei confronti di quei dirigenti sindacali che esprimono alcuni bisogni ed aspirazioni piú urgenti delle masse ed agevolano lo sviluppo di un loro movimento. Tali dirigenti debbono essere sostenuti ogni qual volta ed in quanto si fanno portavoce di richieste delle masse, ogni qual volta ed in quanto contribuiscono a mettere in azione le masse, ogni qual volta ed in quanto agitano rivendicazioni concrete democratiche riguardanti il sindacato o la vita politica italiana. La loro azione, anche se si riduce «ad un timido zig-zag», come scriveva Lenin, «amplia, anche di pochissimo, se volete, ma ciononostante amplia effettivamente il cerchio entro il quale si muovono gli operai».

    Ma, nello stesso tempo, anche quando si tratta dei migliori (di quelli che, come dice Giorgio Intelvi sono animati da un «entusiasmo sociale», di quelli che intendono sinceramente far proprie e sostenere la giustizia delle richieste delle masse), la loro ideologia confusa, che rimane nei confini dell'ideologia fascista, fa sí che essi seminino, oltre al grano, anche il loglio. Ciò non deve spaventarci, ma non dobbiamo dimenticare che sta a noi comunisti «distruggere il loglio». In tal modo realizzeremo il compito di preparare, non minuscole serre, ma vasti campi biondeggianti di messi. Lenin esprime nettamente questo compito della nostra azione entro i sindacati polizieschi e reazionari. «Non è affar nostro coltivare il grano in camera, in piccoli vasi. Estirpando il loglio dissodiamo il terreno e permettiamo al frumento di crescere. E fino a quando vi saranno dei banali e mediocri coltivatori da serra, dovremo preparare dei mietitori che sappiano oggi strappare il loglio e domani raccogliere il grano» (Che fare?, edizione italiana, p. 122).

    Ma, condizione essenziale, per «la raccolta del grano» è quella di sviluppare questo tipo di mietitori; di sviluppare cioè, numericamente ed ideologicamente, il partito, il capo politico della classe operaia.

    Nel partito vi sono e vi saranno elementi usciti da altre classi che hanno, però, rotto risolutamente colla loro classe e coll'ideologia di questa classe. Nel partito «nessuna distinzione deve assolutamente esistere fra operai e intellettuali ed, a maggior ragione, nessuna distinzione sulla base della professione». Ma ciò non muta il carattere di classe del partito comunista. Esso è un partito operaio, è l'avanguardia della classe operaia, è una parte della classe operaia. Bisogna dare molta attenzione a questo punto. Da quando, col capitalismo, è sorta la classe operaia, sono sorti diversi movimenti e partiti piccolo-borghesi composti da «uomini di cuore», da «uomini giusti», da «uomini colti», magari animati da «entusiasmo sociale», i quali si sono assegnati compiti diversi, da quello di portare l'istruzione agli operai, a quello di difendere il miglioramento delle loro condizioni. Il partito comunista non ha niente a che vedere con questi partiti piccolo-borghesi. Il nostro è il partito del proletariato e non per il proletariato. Il nostro partito è lo stato maggiore del proletariato, ed è armato di una ideologia rivoluzionaria proletaria. Nella lettera del compagno Intelvi, sebbene essa si limiti a considerare i problemi dal punto di vista sindacale ed organizzativo, ci pare tuttavia di scoprire i resti della concezione di un partito esterno alla classe operaia, di un partito che va alla classe operaia. Questa concezione cozza assolutamente contro i nostri princípi.

    Incominciamo coll'accennare ad alcuni punti oscuri nella lettera del compagno Intelvi e che, per la loro oscurità, dànno luogo ad interpretazioni nel senso suaccennato. Ad esempio, cosa significa dire che l'azione sindacale, come è fissata nella politica del partito, «tende a migliorare la situazione economica dell'operaio allo scopo precipuo di elevarne la coscienza di classe e ricercare sul terreno classista la necessaria unità di tutti i lavoratori»?

    La preoccupazione nostra derivante da tale oscurità non è affatto eliminata, anzi diventa maggiore di fronte ad altre espressioni che fanno pensare a posizioni che sarebbero in netto contrasto con i principi rivoluzionari proletari. Che cosa significa, infatti, che «sull'operaio non si può agire in nome di un fronte unico che è formazione schiettamente politica; gli unici concetti che abbiano valore sono i concetti classisti, che necessariamente accomunano operai fascisti ed operai piú o meno antifascisti»?

    Che interpretazione dobbiamo dare a queste frasi? La coscienza di classe può elevarsi soltanto, in conseguenza di un miglioramento della situazione economica e non nel corso della lotta per tale miglioramento? La lotta stessa per il miglioramento economico non è già una manifestazione, per quanto essa possa essere rudimentale, di coscienza di classe? È esatto che l'operaio non possa comprendere la necessità di un fronte unico che, si dice, è «formazione schiettamente politica»; che egli «non intenda più le sottili distinzioni politiche»? Cosa sta a significare la contrapposizione fra concetti «politici» e concetti «classisti»? Non corrisponde tutto ciò alle posizioni economiste, trade-unioniste contro le quali il movimento proletario rivoluzionario ha dovuto lottare al suo nascere e nel corso del suo sviluppo – posizioni che hanno molti riflessi nelle correnti a fondo sindacalista di intellettuali di sinistra del fascismo? Abbiamo sempre respinto e respingiamo risolutamente la teoria degli stadi: lotta economica prima, lotta politica poi. Respingiamo con ancora maggior vigore la teoria dell'incapacità politica della classe operaia, anche nella situazione italiana, dopo quattordici anni di fascismo.

    Mai come oggi, in nessun paese come nell'Italia fascista, ogni lotta economica è lotta politica, ogni piú piccolo movimento, per la piú piccola rivendicazione, è un movimento politico. Nella stessa vita dei sindacati fascisti, ogni agitazione per il più piccolo miglioramento salariale, ogni reazione operaia contro qualsiasi aspetto particolare del regime di galera nella fabbrica, è un movimento politico di classe, perché cozza, ad un tempo, contro l'insopportabile sfruttamento capitalista e contro tutto l'apparato politico che opprime la classe operaia allo scopo di permettere ai capitalisti di tosarla con maggiore tranquillità. La esperienza dei movimenti salariali del luglio dà la riprova piú evidente di questa intima unione dell'elemento economico e politico contenuti in qualsiasi azione delle masse nella situazione attuale. Si trattò allora, infatti, di una lotta contro il livello salariale determinato dalle riduzioni imposte dal regime fascista – contro tutta la politica salariale determinata e difesa strenuamente, sino all'ultimo, dallo Stato e dalle altissime gerarchie fasciste. Le motivazioni affacciate dagli operai e da taluni dirigenti per l'aumento salariale (mantenimento delle promesse, ecc.), hanno accentuato il carattere politico di quelle agitazioni. Di piú, la necessità sentita dalle masse di rendere i sindacati uno strumento per le conquiste economiche le ha portate avanti – durante le agitazioni di luglio – a porre una serie di problemi politici nel sindacato e del sindacato, sul terreno democratico, cioè su un terreno squisitamente politico. Questi fatti mostrerebbero già che la classe operaia italiana, pur sotto la compressione feroce del regime fascista, sebbene in forme originali determinate dalla situazione particolare e dall'influenza della ideologia e della demagogia del fascismo, ha una sua vita politica.

    Ma c'è di piú: malgrado il conformismo o l'assenteismo apparenti, le masse operaie italiane – o meglio, tutte le masse lavoratrici, il popolo italiano – sentono intensamente tutti i grandi problemi politici italiani ed internazionali dell'ora presente. Hanno seguíto e seguono nella misura e nel modo che è consentito dalla strettissima censura, dall'accresciuta repressione e dalle campagne di menzogne vaticano-fasciste, i

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