Per lei
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Book preview
Per lei - Stefania Baldissin
Fine
In una stradina di periferia di una città italiana, circondato da sacchetti colmi di rifiuti maleodoranti, un cassonetto dell’ immondizia.
Adiacenti, due vecchi materassi sporchi.
Un anziano conduce il suo cane a passeggio.
Il cane si ferma, annusa e stranamente abbaia verso il cassonetto.
L’uomo strattona il cane. Si allontanano.
E’ il mese di marzo dell’anno duemila, un nuovo giorno ha appena lasciato l’alba dietro di sé.
PRIMO CAPITOLO
Lunedì
La neonata
Percepisco l’odore di avanzi di cibo, di sporcizia.
Qui accanto c’è un cassonetto colmo di spazzatura, è collocato sul bordo dell’asfalto. Il respiro caldo di mia madre è come una carezza sul mio volto. Fino a poco fa, il ritmo dei suoi passi era veloce. Se qualcuno avesse osservato la sua figura nervosa, e la borsa trattenuta fra le mani, avrebbe creduto che una forte alterazione la stesse manovrando
come farebbe un burattinaio coi pupi.
Ora siamo ferme nei pressi di questo contenitore, la sua fauce maleodorante è vicina. Improvvisamente, l’affanno di mia madre sembra calmarsi.
Attorno a noi, il silenzio appesantisce l’aria, siamo sospese in quella immobile frazione di secondo che precede ogni azione irreversibile.
Il buio, nella notte fresca, comincia a presagire la luce, spiragli stemperati di rosa annunciano la progressione dei colori, sbiadendo le stelle, a poco a poco.
Non ho fame, né freddo, ma sono oppressa dall’angoscia.
Avverto il panico che sta provando mia madre: Anna.
In mano, tiene anche una piccola barra di legno rubata dal ripostiglio del vano scale condominiale. Non sa perché l’ha presa, forse le dà la sensazione di potersi difendere in caso di necessità, o forse vorrebbe difendere me, da lei stessa.
Distante nella notte, un epiteto urlato da un giovane a qualcuno percuote mia madre ancora più fortemente del tremore che già la sta spossando.
Ad un tratto si materializza uno sbuffo d’aria, per un attimo tutto sembra proteso all’ascolto del fruscìo delle foglie fino a lì assopite tra i rami. Rabbrividiamo.
Il vento leggero espande un sentore di gemme, si svela il profumo dei fiori in viaggio verso la primavera.
Il canale che fiancheggia la strada mormora un timido sciacquìo, come fosse un richiamo al temporale in fuga. Per alcuni secondi il lieve soffio riconduce la memoria di un’altra brezza, di un altro greto.
A mia madre pare di rivivere quel caldo pomeriggio di giugno: quasi rivede i sassolini nell’acqua verde e luccicante sfiorata dai riflessi che il sole, ombreggiato dagli alberi, intreccia in un gioco sottile ed evanescente, risente tra le dita la durezza porosa della loro superficie come li avesse in mano.
Il ricordo si presenta per l’ennesima volta: un uomo, mio padre, le sussurra « Ti voglio ». Le mani di mia madre accarezzano la sabbia umida, la sua voce non ha più parole, è diventata gemito, respiro caldo.
Il suo corpo è ammaccato dai sassi scivolosi che, striati, annunciano le increspature dell’acqua di fiume. E’ emozionata e si sente leggera come una onda del cielo.
Mio padre poi non l’ha più rivisto, soprattutto era assente il giorno in cui mia madre avrebbe voluto dirgli che il mese non aveva segnato il passaggio.
Di notte le sembrava di sentirlo mormorare « Ti voglio » con la voce incrinata dal desiderio, un ritornello suadente e musicale. E, quegli occhi accesi, verdi come i sottoboschi, la osservavano da ogni angolo della camera.
Il ventre ingrossato era evidente. Mia nonna diceva, senza guardare mia madre, come stesse parlando alla finestra: « Ingrassi anche se non mangi », cancellandomi così in un istante. Non mi nominava nessuno.
Però ci sono, viva, coricata in una sporta. Attorno al mio corpo una maglia infeltrita e i ritagli di una vecchia coperta, fatico a respirare liberamente, non piango.
La mia esistenza presente, futura, è tutta nelle mani di mia madre. Il vento che ci accompagna nel nostro distacco, potente da far volare i macigni, da trasformare l’onda in maroso o la scintilla in incendio, custode di tutti gli odori del mondo, non è in grado ora di fermare questo gesto.
Sono nata tre ore fa, nel cielo la luna arancione si sta allargando a dismisura, ricorda le leggende dei pescatori.
Mia madre, sgomenta e china, colta da una sensazione di vuoto, come nove mesi fa, è vicino ad una riva; la carezza dell’aria sta diventando per entrambe uno schiaffo. Lei deposita il borsone per terra quasi scottasse, l’asta le scivola dalle dita, i suoi occhi sono ormai sbarrati, mi prende con tutte e due le mani, non sento il calore di uno sguardo, perfino l’odio sarebbe più caldo dell’indifferenza. Appoggia il piede sulla sbarra metallica del bidone, i suoi lunghi capelli rosso rame mi profondono di involontarie premure, profumano di mele. Il posto che sta per accogliermi, il luogo dei rifiuti, aperto e immobile, è a pochi centimetri da noi.
Si muove a scatti insofferenti, per un istante una vertigine la fa vacillare. Mi colloca sopra i due grossi sacchi zeppi che colmano questa specie di sudicia bara. Si chiude pesante sul suo viso l’alito rumoroso dell’immondizia, sul mio il coperchio unto. Poi sento che scappa, corre senza tregua, rincorsa dalla paura, sorda ai rimorsi.
L’oscurità mi sta circondando, lo sgomento mi pesa sul torace, come se lo schiacciasse. L’odore fetido si impregna nei miei respiri fino a pungermi le narici, ho crampi allo stomaco, un singhiozzo improvviso mi spaventa, una specie di urlo acuto che sembra esterno a me e invece è scaturito dalla mia gola.
Il lamento è diventato come il gemito di un gattino ferito a morte e mi agita con piccole scosse. La mia gola è secca. Le lacrime mi ardono sulle guance e scorrono fino al collo dove si fermano, come rivoli prosciugati, sulle fasce di lana in cui sono avvolta.
Da lontano qualcuno si sta avvicinando lanciando bestemmie