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Abel
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About this ebook

«Cosa volete da me?» Vitale ricominciò a piangere, ormai era sicuro che sarebbe morto là sotto, non gli importava neanche più di sapere chi fosse quel tipo che si stava divertendo, sapeva solo che forse gli conveniva morire per davvero.
«Smettila di piangere, potevi pensarci prima.»
Vitale non rispose nemmeno, non c’era più niente da dire, sperava solo che la cosa finisse presto, tanto era già morto una volta. Fare di peggio non era possibile.

P.M. Mucciolo ha partecipato con il romanzo Le Ombre Azzurre al Torneo letterario IoScrittore 2011, organizzato dal Gruppo editoriale Mauri Spagnol, vincendo la pubblicazione in ebook.
Dice di sé, con una punta d'ironia: “scrivo perché sono grafomane. Scrivo racconti, romanzi, saghe, cartelle cliniche, lettere di protesta, lettere agli amici e anche agli sconosciuti. Le cartelle cliniche e le lettere agli sconosciuti hanno molto successo”.
LanguageItaliano
Release dateAug 8, 2016
ISBN9788822830272
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    Abel - P. M. Mucciolo

    -

    Presentazione

    «Cosa volete da me?» Vitale ricominciò a piangere, ormai era sicuro che sarebbe morto là sotto, non gli importava neanche più di sapere chi fosse quel tipo che si stava divertendo, sapeva solo che forse gli conveniva morire per davvero.

    «Smettila di piangere, potevi pensarci prima.»

    Vitale non rispose nemmeno, non c’era più niente da dire, sperava solo che la cosa finisse presto, tanto era già morto una volta. Fare di peggio non era possibile.

    P.M. Mucciolo ha partecipato con il romanzo Le Ombre Azzurre al Torneo letterario IoScrittore 2011, organizzato dal Gruppo editoriale Mauri Spagnol, vincendo la pubblicazione in ebook.

    Dice di sé, con una punta d'ironia: scrivo perché sono grafomane. Scrivo racconti, romanzi, saghe, cartelle cliniche, lettere di protesta, lettere agli amici e anche agli sconosciuti. Le cartelle cliniche e le lettere agli sconosciuti hanno molto successo.

    P. M. Mucciolo

    Abel

    Visita http://gevcoraggiodelleidee.blogspot.it/

    G&V è il ramo letterario dell'Associazione Vega

    © 2015 Patrizia Mucciolo – G&V

    Prima edizione digitale: agosto 2016

    Progetto grafico, redazione e impaginazione: © Ivan lo Stupido – G&V

    Foto di copertina: © freeimages.com

    Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.

    Nessuna parte del libro può essere riprodotta o diffusa in nessuna forma senza il permesso scritto dell’autore, salvo brevi citazioni destinate alle recensioni

    Questo romanzo è un’opera di fantasia.

    Qualsiasi analogia con persone, vive o defunte, luoghi e fatti realmente accaduti è puramente casuale.

    Alla Cornacchia,

    che forse è esistita davvero

    Prologo

    La stazione sembrava deserta. Il treno ci arrivò adagio, infilandosi sotto la pensilina, e si appoggiò con un piccolo colpo ai respingenti conficcati nel muro.

    Oltre non si andava, quello era il capolinea.

    L’uomo, unico viaggiatore, aprì da solo lo sportello e scese sulla banchina vuota.

    Dalla posizione defilata di quel binario, senza alcun bagaglio a rallentargli il passo, sfilò davanti alle sale d’attesa deserte, di prima e seconda classe. Sul primo binario, il treno per Venezia aspettava il segnale del capostazione che uscì proprio in quell’istante dal suo ufficio, dietro la finestra del quale brillavano le lucine di un minuscolo albero di Natale.

    Il fischio sembrò disegnarsi nell’aria come una saetta, e il treno partì, snocciolando le sue carrozze vuote davanti all’uomo.

    Lui attraversò il grande atrio, lentamente, facendo risuonare ogni passo nel silenzio inconsueto della sala.

    Non sapeva ancora esattamente quale fosse la direzione da prendere, e appena uscito dalla stazione, sul piazzale si fermò. Si girò attorno, a occhi chiusi, ad annusare l’aria.

    Avrebbe potuto usare mille altri modi per raggiungere il ragazzo. Anzi, avrebbe potuto non viaggiare affatto, ma gli era piaciuta l’idea di farsi vedere da lei, proprio quella mattina, per rovinarle la giornata di Natale. Era stata una bella comparsata, e la cosa lo divertiva.

    Sorrise tra sé, stirando un po’ i suoi lineamenti sottili.

    Muoveva la testa con gesti impercettibili, seguendo l’onda di qualcosa che poteva sentire solo lui. Poi, come attratto da un segnale che arrivava da lontano, puntò verso una direzione. Doveva andare da quella parte. Il ragazzo era là.

    Prese a camminare sicuro, con le mani infilate nelle tasche del suo impermeabile lucido di pioggia, in quella giornata asciutta, verso la sua meta. Il suo olfatto non sbagliava mai.

    - ~ -

    Ci sono giorni più stupidi di altri.

    E il 28 gennaio, secondo Agostino, era uno di quelli. Certo, anche il 22 di ottobre era niente male, e anche il 31 marzo, ma quel periodo di fine gennaio, così incolore e privo di aspettative, per lui era il picco della desolazione.

    L’autunno ha Natale in fondo al tunnel, pensava, mentre la fine di gennaio è proprio senza storia, quasi Carnevale, ma non ancora abbastanza, e nessun odore di festa intorno.

    Agostino, braccia incrociate sotto la testa, in quel pomeriggio di gennaio aspettava un’ispirazione, una qualunque, sdraiato sul letto.

    In giorni così, senza prospettive, cominciare a fare i compiti era ancora più difficile.

    Si concentrò sul pensiero che a metà febbraio ci sarebbe stata la fiera, con giostre e tutto il resto, ma nemmeno quello riuscì a risollevargli il morale. Anche metà febbraio gli sembrava lontano, e lui avrebbe avuto bisogno di una botta d’allegria subito.

    Fu sua madre a interrompere quel meditare sulle cose della vita. Entrò nella stanza senza bussare né preannunciarsi in altro modo, tirò la tenda dietro la quale Agostino aveva il suo piccolo mondo privato, e gli intimò brusca «Salta giù da lì che devi andare in merceria.»

    «In merceria?»

    «Sì, e di corsa anche.»

    «Ma…» tentò di abbozzare Agostino.

    «Fila!»

    «Ma proprio io?»

    Quando la madre fece per metter mano a quello che portava ai piedi, Agostino capì che non era il caso di discutere e si alzò veloce dal letto.

    Si vergognava come un ladro a metter piede in una merceria, un posto polveroso che lui considerava meta esclusiva di femmine invecchiate sui lavori a maglia. Secondo lui sua madre lo faceva apposta.

    E se ci avesse trovato dentro una che comprava un reggipetto?

    Fino a quanti anni è lecito mandare un figlio maschio a fare acquisti in una merceria? si domandava mentre varcava in uscita il cancello di casa.

    Buttò un occhio al cielo. Era grigio e cominciava a piovigginare. Poteva essere diversamente?

    Un giorno stupido, con una pioggia stupida e bottoni da comprare.

    Non aveva voglia di tornare indietro a prendere l’ombrello. Decise che sarebbe passato tra una goccia e l’altra, e alla peggio, avrebbe camminato rasente i muri, come i gatti.

    Al momento di attraversare la strada per raggiungere i portici però, l’impresa di passare tra una goccia e l’altra si rivelò più difficile del previsto. Aveva preso a piovere fitto e per l’intero paese non erano mai passate prima di allora tutte le macchine che stavano passando una dietro l’altra proprio lì, e in quel momento.

    Quando arrivò in merceria era zuppo, e si mise ad aspettare il suo turno alle spalle di una vecchia che grazie a Dio non voleva un reggipetto, ma stava scegliendo dei gomitoli di lana.

    In piedi, spostando il peso da una gamba all’altra, sentiva l’umidità farsi strada attraverso gli strati dei suoi indumenti fino alla pelle, rendendogli la permanenza là dentro ancora più fastidiosa. La vecchia poi stava mettendo nella scelta tra due gomitoli, apparentemente dello stesso colore, uno zelo che non faceva che accrescere la sua impazienza.

    Si sentiva a disagio. Bagnato, infastidito, in quel negozio vecchio e mal illuminato, dove una stufetta a gas con la sua fiamma bluastra riusciva a intiepidire a malapena una piccola zona da cui lui era escluso.

    La luce azzurra che emanava però era quasi ipnotica, e lui ci si perse con lo sguardo e con la mente, che per bizzarre associazioni andava ad altre luci… al buio della galassia, allo spazio siderale, o forse a istanti che aveva già vissuto, magari con altre stufe, o forse in un’altra vita.

    Dopo altri dieci minuti e un paio di va e vieni dal banco alla vetrina per vedere il colore della lana alla luce naturale, che a quell’ora ormai scarseggiava, la vecchia decise che sarebbe tornata il giorno dopo, e Agostino finalmente riuscì a fare l’acquisto e a scappar via da quel negozio, con il resto di mille lire in tasca.

    Raggiunse i portici per ripararsi dalla pioggia, ma davanti alla chiesa gli toccò di nuovo buttarsi di corsa sotto l’acqua per attraversare la strada. Il tintinnio delle monete nella tasca dei calzoni gli suggerì che in fondo, in un giorno come quello poteva anche permettersi di fare la cresta sulla spesa, e senza pensarci due volte, si infilò dalla Gesuina per comprarsi un paio di boeri, una passione recente.

    Nel negozio della Gesuina, poco più che un buco con una piccola vetrina sulla strada, il profumo del caffè tostato riempiva l’aria. Agostino a volte ci entrava anche solo per sentirne l’odore. Il sapore non gli piaceva ancora, lo trovava deludente rispetto alle promesse, ma in quell’ambiente saturo subiva tutta l’attrazione dell’elemento.

    Guardò dietro al banco, nei distributori in vetro, il caffè in grani declinato in tutti i suoi marroni, più chiari, più scuri. Ci avrebbe infilato dentro le mani a coppa per mangiarselo a manciate e scrocchiarlo sotto i denti, rimanendo poi tradito dall’amaro, ma in altri vasi sopra gli scaffali c’erano mille cose che non lo avrebbero deluso, nemmeno in un giorno desolante come quello.

    Lasciò una manciata di monete sul banco e si mise in tasca i cioccolatini.

    Arrivato sotto casa, Agostino alzò lo sguardo verso la scala, alla sua porta e poi su, alla soffitta, dove non aveva più messo piede dal giorno in cui aveva riposto gli addobbi di Natale.

    Aveva voglia di starsene un po’ da solo e anziché fermarsi alla sua porta salì di un piano.

    Andò a sedersi in un angolo, su una valigia vecchia. Scartocciò i suoi boeri, cominciando a gustarli già dal crepitio della pellicola rossa che li avvolgeva, poi se li infilò in bocca uno alla volta, rompendo il cioccolato e lasciandosi pungere dal liquore che usciva, per arrivare alla ciliegia.

    Si guardò in giro mentre vapori di alcool gli uscivano dalle narici. L’ambiente intorno non era tanto accogliente. C’era il solito ciarpame che l’unica lampadina illuminava a mala pena.

    Strati di polvere e freddo, un gran freddo. Eppure quando saliva dal Vitale gli sembrava si stesse così bene. Avevano passato ore lì dentro. Adesso il locale sembrava soltanto squallido.

    Non solo, forse gli faceva anche un po’ paura.

    Percorso da un brivido di freddo, Agostino si alzò dalla sua posizione, raccattò la carta dei cioccolatini e se la cacciò in tasca. Poi fece un breve giro per la stanza prima di scendere.

    Dalla piccola finestra Vitale gli aveva calato un messaggio la sera prima di scappare.

    Agostino ci si avvicinò, guardando fuori, attraverso i vetri opachi.

    Di sotto vedeva la strada lustrata dalla pioggia.

    - ~ -

    Bruto dormiva tranquillo su una pelliccia sbrindellata. Da quando Clara l’aveva trovata in un baule il giorno in cui s’era decisa a fare ordine tra le cose vecchie, lui l’aveva scelta come cuccia, snobbando ceste e cuscini che gli erano stati proposti e portandosela in giro per la casa a seconda del punto in cui gli andava di dormire. In quel momento gli andava di stare sotto la scrivania, ai piedi di Vitale, e quindi se l’era trascinata in camera del ragazzo. Aveva fatto tre o quattro giri su se stesso per trovare la posizione giusta e poi si era sistemato bello comodo, con il muso affondato nel pelo sconosciuto di chissà quale bestia, pelo che doveva avere qualcosa di mammesco, visto come ci si era affezionato.

    In quel mese era cresciuto a dismisura, e forse era una fortuna che avesse scelto quella pelliccia come cuccia, perché la cesta che gli era stata destinata ormai non lo avrebbe contenuto più. Vitale poi non aveva intenzione di dividere il letto con lui, quindi andava bene così, almeno finché fosse durata la stagione fredda.

    Il ragazzo, seduto alla scrivania, era intento suo malgrado a metter giù un tema da quinta elementare che potesse appartenere a tutti gli effetti a una testa da quinta elementare.

    Non era un’impresa facile, non solo perché la testa era più matura, ma anche perché sapeva di non poter passare troppo in fretta da disadattato con turbe comportamentali a primo della classe. La strada da percorrere per la sua riabilitazione doveva apparire lunga, e lui avrebbe dovuto calibrare bene le sue capacità, facendo scorgere qua e là i segni di miglioramento, ma senza esagerare.

    Insomma, al povero Vitale, un tempo Gabriele, toccava fare i compiti.

    L’aritmetica non era un gran problema, e non erano i calcoli a impegnarlo nel pomeriggio, benché l’uso di una qualsiasi calcolatrice tascabile gli avrebbe reso le cose più veloci. Ma era altro quello su cui bene o male un minimo si doveva applicare, come le poesie da imparare a memoria - un vero strazio - e temi e riassunti. Quella mattina di fine gennaio gli era toccato un riassunto sui giorni della merla, volatile sul quale già gli sembrava di aver scritto abbastanza in passato, ma evidentemente non era ancora finita.

    La sua vita si barcamenava tra casa e scuola, e a parte la soddisfazione di avere di nuovo un cane che lo obbligava ad uscire più volte al giorno, non c’erano altre occasioni di divertimento.

    Tra i suoi compagni di scuola, come prevedibile, non era molto popolare, ma non era il caso di farne un dramma, perché non ce n’era uno che reggesse il confronto con Agostino.

    L’unico rapporto amichevole era quello con Clara, con la quale, per tacito accordo, avevano stabilito di stare su argomenti facili e leggeri, senza sconfinamenti metafisici. Non era ancora il momento di affrontare i chi siamo e dove andiamo.

    Eppure, a quelle domande lui avrebbe voluto dare una risposta eccome.

    Perché quelle domande gli martellavano il cervello.

    Che poteva mai fare lui, in quella vita nuova di pacca? Che doveva farne di quella nuova esistenza che ripartiva quasi da capo per un’ incredibile fatalità?

    Doveva sfruttarla al meglio, certo. Ma non sapeva come.

    Doveva aspettare dei segnali?

    Con il cappuccio della biro tra i denti, ormai distratto, pensava a quel Gabriele che era stato nella vita precedente e adesso non c’era più.

    Bruto si mosse sotto la scrivania. Fece un lungo sbadiglio e poi si alzò dalla cuccia improvvisata.

    Si stiracchiò ben bene, allungando le zampe anteriori, e guardò Vitale con occhio vispo e denti in mostra, in una passabile imitazione di sorriso.

    Il suo modo di dirgli che era tempo di uscire. Era l’ora del giro in campagna.

    - ~ -

    In caserma si stava bene. Benissimo.

    Era stato un mese tranquillo. Le feste erano passate in santa pace, i delinquenti dovevano essere in letargo, niente risse, furti d’auto neanche l’ombra. Ad altre cose era meglio non pensare, probabilmente non erano neanche mai successe.

    Se non fosse stato che ogni tanto incrociava per strada la maestra Cornacchia, che con lo sguardo era come se dicesse io so che tu sai che io so, il maresciallo si sarebbe convinto che tutto quello che era successo appena un paio di mesi prima fosse stato solo uno strano sogno.

    Il periodo di tranquillità che ne era seguito però era stato proprio salutare.

    Tutto si era risolto, il paese sembrava il solito e i suoi abitanti quelli di sempre.

    Onesti e probi. Tranquilli, ecco. Anche troppo, a voler ben vedere.

    Perché per dirla tutta, da un mese a quella parte, la calma era tale che in caserma ci si annoiava. Lavori di scartoffie.

    La settimana prima, per strada, il maresciallo si era ritrovato a invidiare il vigile Colla che sguainava la sua paletta per fermare un tizio che aveva imboccato fresco fresco un senso unico contromano.

    Ecco come stavano le cose, pensava.

    Nella stanza faceva caldo, e lui, senza giacca, le mani incrociate dietro la schiena, guardava fuori dalla finestra, sibilando un motivetto tra i denti.

    Pioveva. Niente neve. Niente sole. Da Capodanno non faceva che piovere.

    Si sentì triste improvvisamente, senza un perché.

    Si girò per incrociare lo sguardo del brigadiere. Pure lui, seduto alla sua scrivania con una pila di incartamenti davanti, stava guardando fuori, con un’espressione malinconica.

    Doveva essere quel tempo fetente. Abbassava il tono dell’umore.

    - ~ -

    Anche la Cornacchia scrutava il cielo, pensierosa. La testa rivolta verso l’alto, le sopracciglia aggrottate, se ne stava sulla soglia di casa, stringendosi bene il golfino addosso.

    Guardava in su come se aspettasse qualcosa, un’ispirazione, un suggerimento o un segno qualsiasi, esprimendo in questo gesto tutta l’irrequietezza che sentiva da un po’ di tempo.

    Passato qualche minuto rientrò in casa, infreddolita e di cattivo umore. Era una pessima giornata, e un brutto mal di testa la accompagnava fin dal mattino, rendendole pesante ogni movimento. Non era uno dei più tremendi, a volte stava molto peggio, e in quei casi, l’unica cosa da fare era cacciarsi a letto nel buio e nel silenzio quanto più possibile assoluti. Questo, naturalmente, non appena tornata da scuola, perché non c’era emicrania che potesse trattenere la Cornacchia a casa, anche se al rientro dopo una mattina di quelle, era come se tutte le campane della terra le suonassero nella testa.

    Si aggirò inquieta nel soggiorno, risistemando soprammobili che non avevano alcun bisogno di essere risistemati, e sfregando con il gomito aloni che non esistevano dalle superfici lustre dei mobili.

    Negli ultimi giorni aveva spolverato come non aveva fatto per un’intera vita, e quindi non c’era niente da pulire. Tutto era in perfetto ordine. Immobile e silenzioso, tanto che le sembrava di sentire il rumore delle sue tempie che pulsavano.

    Dannato mal di testa, l’aveva ereditato da sua madre, e sua madre da sua nonna. Quando arrivava non c’era via di scampo, poteva durare anche tre o quattro giorni.

    Si sedette un momento in poltrona e chiuse gli occhi, anche la luce le dava fastidio. Cercò di sgombrare la mente, di concentrarsi solo su qualche immagine, come le avevano detto di fare. Nuvole bianche in un cielo azzurro, una distesa d’erba… pecore al pascolo, come nell’intervallo della tivù… ma pensieri molesti arrivavano a interferire, come sempre.

    Ricordi, domande.

    Una su tutte, che tornava da un mese a quella parte: cosa ne sarebbe stato di quel ragazzino?

    - ~ -

    Clara, scrupolosa, ogni settimana comunicava alla Cornacchia il resoconto dell’andamento scolastico di Vitale. Ufficialmente doveva servire perché la maestra ne informasse a sua volta i genitori che stavano in paese; in realtà, Clara la teneva al corrente di come Vitale si adattasse alla sua nuova situazione.

    All’apparenza, il ragazzo sembrava abbastanza sereno, non rivangava quel che era stato, e pareva si fosse rassegnato al fatto che quel passato era morto con lui. Non poteva che ritenersi fortunato di essere tornato a vivere, seppure nei panni di un altro.

    La modificazione della sua memoria aveva avuto un’importanza fondamentale, e si era quasi abituato al fatto di ricordare bene alcune cose e di averne dimenticate altre.

    Le cose spiacevoli, le cose terribili, quelle che sarebbero successe comunque senza che lui potesse farci niente: quello era tutto cancellato.

    Quando Clara lo ascoltava, si rendeva conto che era diverso dai primi tempi, non era più un uomo nei panni di un bambino, non sembrava più in trappola. Adesso, a volte sembrava solo un ragazzino molto maturo per la sua età. Certo, l’esperienza e le conoscenze dell’adulto saltavano fuori dai discorsi, ma l’insieme non era più così stridente.

    A volte si stupiva lei stessa della serenità con cui affrontava la sua nuova routine. Andava a scuola tutti i giorni per ascoltare cose che già sapeva, fare dei compiti assurdi, avere a che fare con ragazzini delle elementari…

    Nella sua classe era stato accolto con diffidenza: un tipo che arriva ad anno scolastico già iniziato, da un paese fuori mano, e con una storia poco chiara, non diventa popolare.

    Tra i bambini correva addirittura voce che nella sua scuola lui avesse mandato in manicomio più di una maestra.

    Suor Armida, l’insegnante di Vitale nonché direttrice dell’istituto, quella che se l’era preso in carico come accettasse una sfida, certa di dovere attingere a tutte le sue capacità educative per metterlo in riga, si era stupita e mostrata quasi delusa per la relativa facilità del compito.

    «Ma siamo sicuri che quel ragazzino fosse proprio così tremendo nell’altra scuola?» aveva chiesto a Clara, incontrandola nel corridoio, una mattina dopo la ripresa delle lezioni.

    Lei lì per lì non aveva saputo cosa rispondere, ma aveva detto che per quanto ne sapeva, né la famiglia né gli insegnanti erano mai riusciti a prenderlo per il verso giusto. La suora allora, scuotendo la testa, aveva ribattuto che la questione stava proprio lì, nel saperli prendere certi ragazzi, perché con lei, quel Vitale sembrava rigare dritto, bastava avere un po’ di polso.

    E si era allontanata, lasciando Clara perplessa a pensare come se la sarebbe cavata con il Vitale originale…

    - ~ -

    Suor Armida Capovilla era una donna in cui tutto, dallo sguardo dietro gli occhiali al modo di esprimersi e di camminare, dichiarava apertamente che l’attitudine al comando era nata con lei. Lei era lì da anni, sapeva come dirigere quell’istituto, sapeva come sbrogliarsela con i problemi economici e amministrativi, sapeva tener testa con intransigenza a studenti e insegnanti, e quel piccolo intollerante alle regole non era certo tipo da preoccuparla.

    Lo teneva d’occhio comunque. Lo scrutava, lo osservava come si osserva un insetto in un erbario, lo pungolava continuamente, lo provocava, aspettandosi ogni volta reazioni che in realtà non c’erano ancora state.

    Non era riuscita a ottenere la reazione che si era aspettata, quella per cui avrebbe potuto comminargli una punizione esemplare per tutta la classe.

    Il Vitale originale probabilmente le avrebbe appiccato il fuoco alla sottana già il primo giorno, non tanto per vendetta, perché non le avrebbe nemmeno lasciato l’onore di prendere l’iniziativa, ma così, solo per vederla correre, solo per creare un po’ di scompiglio.

    Questo Vitale invece se ne stava zitto davanti alle provocazioni, rispondeva alle domande quando riteneva che fosse il caso di farlo, e non rispondeva in caso contrario.

    Lei non seguiva un orario rigoroso per le lezioni, andava un po’ a braccio, a seconda dell’ispirazione del momento, e nonostante andasse apparentemente a caso, alla fine della settimana riusciva sempre a far quadrare i conti: tutte le materie del programma venivano svolte, con la frequenza che spettava loro.

    Ma non c’era lezione che non finisse con un sentiamo se il nuovo arrivato ha qualcosa da aggiungere… o con un come il nostro nuovo arrivato ben saprà… per altro fuori luogo, visto che ormai tutti erano al corrente del fatto che se lui si trovava lì, era proprio perché non sapeva un accidente. Vitale aveva accettato l’idea di dover fare buon viso a cattivo gioco. Magari prima o poi, mostrandosi docile e recettivo, sarebbe riuscito a guadagnarsi la fiducia dell’insegnante anche senza attingere al suo bagaglio di nozioni già acquisite. Doveva solo starsene tranquillo nel suo banco, attento con una piccola parte della sua mente, giusto quella porzione che doveva servirgli per non farsi trovare distratto, e con il resto poteva seguire i pensieri suoi. Certo, sarebbe stato facile rispondere alle provocazioni. A volte avrebbe avuto sì qualcosa da aggiungere, e in un paio di occasioni avrebbe anche potuto sottolineare altrettanti svarioni, ma sapeva che era più opportuno mordersi la lingua e far finta di niente.

    Vitale si era reso conto che alle elementari si faceva più aritmetica di quel che ricordava, e questo non lo divertiva, visto che non gli era mai piaciuta, ma se non altro con quella non doveva stare troppo attento a non scoprirsi. Anzi, arrivati alle equivalenze, verso fine mese, si era accorto che l’argomento era più scivoloso di quanto non avesse memoria, e trovarsi impantanato lì dentro lo irritò parecchio.

    E infatti, una mattina, irritato più del solito, alzò la testa e decise di rispondere. Tutti quei decametri e centigrammi lo avevano infastidito, e quando la Capovilla se ne uscì dicendo che l’ultima frazione dei volumi, l’innocente millilitro, era una misura inutile perché non si utilizzava mai, e suscitando una forzata ilarità generale, chiese se si fosse mai sentito comprare un millilitro di olio o di benzina, Vitale, senza sollevare lo sguardo dalla pagina che aveva davanti, sbottò.

    «Medici, infermieri e farmacisti hanno a che fare tutti i giorni con i millilitri. Ha mai sentito qualcuno farsi fare un’iniezione da due litri?»

    E sentì distintamente l’aria che si ghiacciava, crepitando attorno a lui.

    La Capovilla non disse nulla, si girò limitandosi a guardarlo con un temporale negli occhi, e anche il resto della classe si girò, aspettando che il temporale scoppiasse da un momento all’altro. Ma non successe niente. Lei continuò la lezione, e gli altri tornarono a seguirla.

    Era una classe molto disciplinata.

    Di questa classe disciplinata, Vitale aveva scoperto far parte due personaggi che in futuro si sarebbero in qualche modo distinti rispetto a tutti gli altri.

    E aveva trovato divertente riconoscere, attraverso i loro nomi a lui già noti e sotto le loro sembianze ancora infantili, le facce di quelli che sarebbero diventati uno il preside di quella stessa scuola, e l’altro addirittura un parlamentare malriuscito le cui trovate esilaranti sarebbero diventate il bersaglio di una trasmissione televisiva di molti decenni più tardi.

    Il primo, Oliviero Peretti, era un ragazzino alto e magro, piuttosto scialbo, con capelli sottili leccati in una riga laterale, che già allora promettevano di andarsene presto, e Vitale sapeva per certo che avrebbero mantenuto la promessa. Sembrava un tipo studioso, anche se non particolarmente brillante. Sempre preparato, sempre con la mano alzata, ordinatissimo nella scrittura, come in genere i maschi non sono, e un po’ untuoso nei modi. Doveva essere come quel Fernando che funestava i giorni di Agostino. Il suo nome non lo aveva folgorato subito, ma si era fatto strada a gomitate nella sua memoria non appena lo aveva guardato bene in faccia, per poi riportargli il risultato finale, e cioè la persona che lui aveva conosciuto bene in passato, o meglio, in futuro.

    L’altro, Roberto Paioli, piccolotto e tarchiato, era un animalone sempre sudato, con la faccia lustra e i denti già cariati, che da adulto, ironia del caso, avrebbe fatto il dentista, prima di lanciarsi nella carriera politica.

    Osservare i due, che lui conosceva per quello che sarebbero diventati dopo, e anche tutti gli altri elementi della classe, era un diversivo che lo aiutava a passare l’intervallo, momento di aggregazione dal quale lui era escluso. Durante la ricreazione si formavano gruppetti che condividevano le stesse attività: raccolta di figurine, scambio di giornalini, collezione di insetti o di sorprese trovate nelle patatine.

    Vitale si sentiva più affine agli scambisti di giornalini, ma il gruppetto che faceva capo a Roberto Paioli era quello che in fondo lo incuriosiva di più.

    Roberto Paioli, ignorante come un cammello, figlio di un medico, si vantava di avere libero accesso ai libri del padre, e pur disdegnando qualsiasi forma di lettura, giornalini compresi, pareva si desse un gran da fare con i libri di medicina, dai quali ritagliava figure che poi la mattina, durante la ricreazione, distribuiva in cambio di panini. Era così laido da rasentare il sublime, e Vitale lo guardava, nell’angolo del cortile, estrarre dalle tasche dei calzoni che sembravano scoppiargli addosso, quei ritagli che gli fruttavano altre provviste. I panini con il salame erano i suoi preferiti, li infilava sotto il banco e li mangiava di nascosto per il resto della mattinata.

    Ormai lo avrebbe riconosciuto anche al buio per l’inconfondibile puzzo dell’alito.

    E così, a parte questi ingenui passatempi, mentre gli altri improvvisavano brevi partite a pallone e consumavano le loro merende, Vitale si aggirava solitario in cortile o in corridoio, ma dovunque stesse, sentiva sempre addosso lo sguardo sospettoso e irriducibile di suor Armida Capovilla.

    Verso i primi di febbraio, tuttavia, successe che la reverendissima cominciasse a zoppicare.

    Per i primi giorni sembrò una cosa da niente, ma in breve, quello che doveva essere un banale acciacco si complicò fino a impedirle di svolgere il suo lavoro e l’aggravarsi delle sue condizioni portò all’unica decisione possibile: doveva essere nominata una supplente.

    L’annuncio fu dato da suor Armida stessa, una mattina che era riuscita a trascinarsi con fatica fino in classe, e all’apparenza seminò tra gli alunni uno sconforto senza fine. A Peretti in particolare. Ma la reazione durò poco. Una volta chiusa la porta, non appena il rumore cadenzato dei passi di lei si fu allontanato, l’intera scolaresca si lasciò andare a un’esplosione di tripudio quasi animale.

    Anche a Vitale, che pure mantenne un’espressione di contegnosa indifferenza, la notizia fece un gran piacere: chiunque fosse arrivato al posto della Capovilla sarebbe stato più benevolo di lei nei suoi confronti. Forse si stava profilando all’orizzonte un periodo di relativa tranquillità.

    - ~ -

    Quando arrivò in classe, in quella prima mattina grigia di pioggia, portò con sé una ventata luminosa di novità. La stanza stessa sembrò svecchiarsi, le pareti prendere una tinta più chiara e l’aria farsi più leggera, come se la primavera fosse entrata in anticipo proprio lì dentro, prima di occuparsi della campagna attorno.

    Lucia Farol era giovane, sottile, con uno sguardo chiaro e qualche capello dorato che le scappava dal velo. Aveva un sorriso luminoso che non aveva paura di spendere, e mani che si muovevano come farfalle a sottolineare quello che diceva.

    I ragazzini la guardavano

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