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La vergine di Norimberga
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Ebook145 pages2 hours

La vergine di Norimberga

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About this ebook

Sei racconti horror dalla penna di Bram Stoker, tra cui spicca "L'ospite di Dracula", che nelle intenzioni dell'autore irlandese avrebbe dovuto essere il primo capitolo del suo romanzo più famoso.
Ma Stoker porta il lettore in territori sempre diversi della narrativa fantastica e dell'orrore, partendo dalle situazioni tipiche del genere per arrivare a soluzioni brillanti e coraggiose: dalla casa stregata al doppelganger, non c'è archetipo che l'autore di "Dracula" non abbia affrontato.
LanguageItaliano
Release dateJul 20, 2016
ISBN9788899403232
La vergine di Norimberga
Author

Bram Stoker

Bram (Abraham) Stoker was an Irish novelist, born November 8, 1847 in Dublin, Ireland. 'Dracula' was to become his best-known work, based on European folklore and stories of vampires. Although most famous for writing 'Dracula', Stoker wrote eighteen books before he died in 1912 at the age of sixty-four.

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    La vergine di Norimberga - Bram Stoker

    15

    Bram Stoker, La vergine di Norimberga

    1à edizione LandscapeBooks, luglio 2016

    Collana Aurora n° 15

    © Landscape Books 2016

    www.landscape-books.com

    Traduzioni rivedute e corrette di Bruno Tasso, Lucia Usellini, Ornella Volta.

    L’editore ha cercato con ogni mezzo i titolari dei diritti della traduzione senza riuscire a reperirli; rimane ovviamente a disposizione per l’assolvimento di quanto occorra nei loro confronti.

    ISBN 978-88-99403-23-2

    In copertina Alnwick Castle, Joseph M. W. Turner: progetto grafico Il Quadrotto

    Realizzazione editoriale a cura di WAY TO ePUB

    www.waytoepub.com

    Bram Stoker

    La vergine

    di Norimberga

    Presentazione dell’opera

    La collana Aurora si propone di recuperare classici ormai dimenticati e introvabili della letteratura italiana e internazionale, con un breve apparato critico di approfondimento.

    Il collegamento tra il nome di Bram Stoker e quello di Dracula è talmente scontato da essere inevitabile, ed è per questo che, scorrendo i titoli dei sei racconti che compongono questa raccolta, l’occhio non può che cadere su quello che porta in sé il nome del principe dei vampiri.

    L’ospite di Dracula è ormai ritenuto da tutti i critici e gli storici il mancato primo capitolo del Dracula di Bram Stoker. Anche se il protagonista è anche narratore in prima persona e non si presenta chiaramente come Jonathan Harker, tutto corrisponde ed esistono stesure del romanzo in cui compaiono riferimenti – poi espunti nella versione finale – a quanto accade in questo prologo.

    Ma, nonostante la fascinazione del nome, non è questo il pezzo forte della raccolta (e anzi è probabile che qualche appassionato del Conte rimanga deluso). Raccolta che raccoglie storie brevi scritte da Stoker in diversi momenti della sua carriera.

    L’ospite di Dracula, va da sé, risale ai tempi della prima stesura del romanzo, quindi precedentemente al 1897, anche se non ci è dato sapere di preciso quando: la pubblicazione è infatti avvenuta postuma, a opera della vedova di Stoker, Florence, nella raccolta Dracula’s Guest and Other Weird Stories (1914). Nella stessa raccolta vennero proposti anche altri dei racconti presenti in questo volume, che erano però già stati editi. La vergine di Norimberga (titolo originale The Squaw) era stata pubblicata su rivista nel 1893, ed è un semplice ma suggestivo racconto horror in cui Stoker si confronta con il mondo animale, un tema molto ricorrente nella sua produzione.

    Il funerale dei topi (The Burial of the Rats) è invece un altro racconto pubblicato postumo, curiosa commistione tra avventura e horror, sullo sfondo di una Parigi inquietante come mai è stata descritta. Dal racconto è stato tratto un modesto film tv nel 1995, in cui il protagonista anziché un anonimo turista è lo stesso Stoker.

    Le mani insanguinate (A Dream of Red Hands), pubblicato su rivista nel 1894, affronta invece il tema degli incubi ricorrenti, ed è l’unico racconto di questa raccolta con un finale in qualche modo positivo.

    La casa del giudice (The Judge’s House) risale al 1891 ed è una variazione sul tema della casa infestata da presenze, anche qui con una massiccia presenza del mondo animale e in particolar modo dei topi, animali che decisamente Stoker identifica con il male.

    L’ultimo racconto, Le sabbie mobili (Crooken Sands), risalente anche questo al 1894, è invece un curioso esempio di racconto dalle venature horror ma fortemente intriso di ironia, a partire dal personaggio principale (ben lontano dallo stereotipo del tipico protagonista di storie dell’orrore) per arrivare alla conclusione che, nonostante tutto, non può che strappare un sorriso.

    La vergine di Norimberga

    A quel tempo Norimberga non era meta di tanti turisti come lo sarebbe stata in seguito: Irving non vi aveva ancora recitato il suo Faust e ai più il nome della vecchia città non diceva nulla. Mia moglie e io eravamo alla seconda settimana di luna di miele e come è naturale cominciavamo a desiderare la compagnia di qualcun altro; così, quando a Francoforte ci imbattemmo in Elias P. Hutcheson, un buontempone arrivato fresco fresco da Isthmian City, Bleeding Gulch, Maple Tree County, Nebraska, e venimmo a sapere per caso da lui che avrebbe proseguito fino a quel diabolico vecchio buco della vecchia Europa e che pensava che, alla lunga, quel viaggio da solo avrebbe finito per far impazzire anche un attivo e intelligente cittadino come lui, non lasciammo cadere l’argomento e suggerimmo di far fronte comune. In seguito, riparlandone, appurammo che era nelle intenzioni di entrambi condurre la cosa con una certa circospezione, per non lasciar trapelare un entusiasmo che non sarebbe stato lusinghiero per il buon andamento della nostra vita matrimoniale. Ma l’effetto fu ben diverso, poiché tutti e due cominciammo a parlare contemporaneamente: per interromperci nello stesso momento e riattaccare di nuovo insieme. Comunque l’accordo fu raggiunto ed Elias P. Hutcheson venne a far parte della nostra comitiva. Subito Amelia ed io ne cogliemmo il piacevole potere benefico; invece di litigare, come fino a quel momento avevamo fatto, scoprimmo che l’effetto inibitore di una terza persona era tale che ora ogni occasione diventava buona per appartarsi e amoreggiare. Amelia afferma che sempre da allora, a ricordo di quella esperienza, consiglia a tutti di partire per il viaggio di nozze con un amico. Ordunque, visitammo insieme Norimberga e ci divertimmo molto ai mordaci commenti del nostro compagno di viaggio d’oltreoceano che, con un tale bagaglio di meravigliose avventure e quel suo vivo modo di raccontarle, avrebbe potuto benissimo uscire dalle pagine di un romanzo. Ci tenemmo come ultimo punto di interesse il Castello Imperiale e quando arrivò il giorno prestabilito costeggiammo piano piano le mura esterne della cittadella dal lato orientale.

    Il Castello è situato su una rocca che domina la città; sul lato nord corre un fossato molto profondo. Norimberga ha avuto la buona sorte di non essere mai stata messa a ferro e fuoco; in caso contrario non avrebbe potuto conservare quel suo aspetto lindo e pinto. Il fossato è in disuso da secoli e ora il fondo è tutto un rigoglio di vegetazione, giardini e giardinetti, e certi alberi hanno raggiunto un’altezza considerevole. Bighellonando lungo le mura al caldo sole di luglio, spesso ci fermavamo ad ammirare il panorama che si apriva davanti a noi, e in special modo la vasta spianata disseminata di città e paesini e delimitata da una linea turchina di colline, come un paesaggio di Claude Lorrain. Da qui sempre lo sguardo tornava con gioia rinnovata alla cittadella stessa, con la sua miriade di vecchi tetti appuntiti e di ardesie rosse, tetti su cui si apriva un duplice ordine di mansarde. Quasi alla nostra destra si ergeva la torre della Fortezza e ancora più dappresso si levava truce la Torre delle torture che era, e forse lo è tutt’ora, il punto di maggior interesse della città. Per secoli la tradizione della Vergine di Norimberga è stata portata a esempio dell’orrenda crudeltà di cui l’uomo può essere capace; il nostro desiderio di vederla era grande e finalmente eccoci alla sua dimora.

    In una sosta, ci chinammo sulla spalletta del fossato e guardammo giù. Il giardino si stendeva sotto di noi a non meno di quindici se non venti metri e il sole vi si riversava infuocandolo neanche fosse un forno. Più in là si ergeva la muraglia grigia, sinistra, che sembrava alzarsi a perdita d’occhio, e che si stendeva in angoli tra bastione e controscarpa. Alberi e cespugli la incoronavano e al di sopra troneggiavano le case più alte sulla cui beltà massiccia il tempo aveva posto mano solo per consacrarne la bellezza. Il sole scottava e noi ci lasciavamo andare alla pigrizia: avevamo tutto il tempo a disposizione e così ce la prendevamo con calma, sostando di tanto in tanto contro la spalletta. Proprio sotto di noi potevamo goderci un piacevole quadretto: una grossa gatta nera distesa al sole, con un micino nero che le zampettava attorno. La madre agitava la coda per divertire il piccolo o alzava una zampa per allontanarlo, come incoraggiamento a nuovi giochi. Erano proprio ai piedi della parete e Elias P. Hutcheson, per dar man forte, si fermò e prese dalla muraglia un sasso di notevoli dimensioni.

    «State a vedere», disse. «Lo lascerò cadere vicino al piccolo e tutti e due si chiederanno da che parte possa essere arrivato.»

    «Oh, fate attenzione» raccomandò mia moglie. «Potreste colpire il micino.»

    «Non io, signora», disse Elias. «Sono di cuore tenero, io. Che Dio vi benedica, non vorrei far del male a quel batuffolo più di quanto non voglia infierire su un bambino. E potete scommetterci quello che vi pare. Lo farò cadere verso l’esterno, così che non vada a finire troppo vicino.» Pronunciate queste parole, si chinò sulla spalletta e lasciò cadere la pietra. Può darsi che per qualche influsso le vicende di minima importanza si trasformino in situazioni gravi, o, più probabilmente, il muro non scendeva perpendicolare ma si inclinava alla base: cosa che ci sfuggì dall’alto: fatto sta che la pietra cadde con un orrendo tonfo che rimbalzò fino a noi nell’aria soffocante proprio in testa al gattino, facendogli schizzar fuori la materia cerebrale.

    La gatta nera lanciò un rapido sguardo in alto: ne scorgemmo gli occhi, simili a una verde fiammata, fissi un istante su Elias P. Hutcheson; e poi la sua attenzione fu tutta per il piccolo, che giaceva immobile, con un lieve fremito delle zampe, mentre una striscia rossa si allungava dalla ferita aperta. Con un grido soffocato, quale solo un essere umano avrebbe potuto emettere, si chinò sul gattino lambendo le ferite e mugolando. All’improvviso sembrò capire che era morto e ancora levò gli occhi verso di noi. Mai dimenticherò quel che vidi, perché la gatta sembrava la personificazione stessa dell’odio. Gli occhi verdi fiammeggiarono cupi, e i denti bianchi, aguzzi, sembrarono scintillare fra il sangue di cui erano intrisi muso e baffi. Digrignò i denti, si rizzò sugli artigli. Poi fece un balzo selvaggio contro la parete per arrivare fino a noi, ma, perso lo slancio, ricadde all’indietro e peggiorò ancora il suo aspetto già terribile giacché cadde sul piccolino e si rialzò con il mantello nero lordo di sangue e materia cerebrale. Temetti che Amelia perdesse i sensi e dovetti allontanarla da lì. Poco discosto c’era un sedile all’ombra di un platano fronzuto e lì la sistemai, perché si riavesse. Poi tornai da Hutcheson che non si era mosso e guardava la gatta furiosa in fondo alla fossa.

    «Perdio», disse quando lo raggiunsi «non ricordo di aver mai visto una furia così eccetto una volta, quando una squaw Apache riuscì a mettere le mani su un mezzosangue, soprannominato Brandello, proprio per il modo in cui aveva sistemato il piccolo di questa squaw, che aveva rapito durante una scorribanda fatta al campo tanto per far capire d’avere apprezzato la tortura riservata alla propria madre da parte degli Apaches. La donna aveva dipinta in faccia la stessa espressione di questa bestia. Diede la caccia a Brandello per tre anni e alla fine i suoi lo acciuffarono e gliene fecero dono. Dissero che nessun uomo, né bianco né indiano, aveva mai avuto morte più lenta sotto le torture degli Apaches. L’unica volta in cui vidi sorridere la squaw fu quando la freddai. Arrivai al campo giusto in tempo per vedere Brandello tirare le cuoia, e non è che fosse così spiacente di morire. Era un tipo duro e per quanto non mi sentissi più tanto suo amico dopo quella faccenda con il piccolo indiano, perché era stata una grossa carognata la sua, e lui avrebbe potuto benissimo essere un uomo bianco come me, almeno così sembrava all’aspetto... ebbene vidi che era stato ripagato appieno; dannazione, presi un brandello di pelle che era rimasto appiccicato a un palo... me ne sono fatto un portafoglio. L’ho

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