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Italia diseguale: Poveri e ricchi nel Belpaese
Italia diseguale: Poveri e ricchi nel Belpaese
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Italia diseguale: Poveri e ricchi nel Belpaese

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L’Italia è un paese povero abitato da ricchi o, viceversa, un paese ricco abitato da poveri? La domanda, volutamente provocatoria, percorre il libro di Daniele Poto. L’analisi muove dalla povertà che attanaglia l’intero pianeta ma subito si addentra, come un racconto di avventura, nei meandri delle ragioni politiche e strutturali della crisi dell’Italia: un paese di vecchi e nuovi poveri, sei milioni in totale, con il rigonfiamento di una classe media che si inabissa portando involontariamente a fondo l’economia e che lo Stato colpevolmente non sostiene. Per arrivare alla meta finale il testo affronta la povertà da molteplici punti di vista, che diventano altrettanti capitoli: la politica drogata dei derivati, l’accanimento sulle pensioni, la politica fiscale, lo “sfogo” della beneficenza, il mancato reddito di dignità o di cittadinanza, lo scenario internazionale, l’etero-direzione del Brussels Group e molto altro ancora.
LanguageItaliano
Release dateSep 19, 2016
ISBN9788865791219
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    Book preview

    Italia diseguale - Daniele Poto

    incendio

    Indice

    Diseguaglianze

    Politiche

    Contraddizioni

    Prospettive versus realtà

    Bibliografia minima

    Diseguaglianze

    Povertà che crescono

    L’Italia è un Paese ricco abitato da poveri o un Paese povero abitato da ricchi? Verrebbe da scegliere la seconda opzione quando il premier Renzi cita il fenomeno del risparmio privato, cresciuto di 350 miliardi fra il 2012 e il 2014. Le famiglie italiane sono più ricche delle famiglie tedesche, americane o canadesi. Solo una su tre però può adire alla pratica del risparmio, le altre vanno sotto e l’11 per cento degli italiani è debitore (fonte Rapporto Consob-Eurisko, 3 luglio 2015) di qualcosa a qualcuno. Ma è soltanto una parte della verità. Risparmia chi può permetterselo in previsione di un futuro più difficile. Ad esempio, tra il giugno del 2014 e lo stesso mese del 2015 le riserve degli italiani sono cresciute di 80,7 miliardi (fonte Unimpresa). Ma questa valorizzazione della rendita non fa testo, non fa tendenza, non fa storia, non muove l’economia (secondo il lessico tipico di chi ha a cuore la crescita o quello che rimane del concetto) perché la maggioranza degli italiani annaspa e barcolla.

    Il 17 ottobre scorso il mondo ha sottolineato in rosso la «giornata mondiale contro la povertà». Un altro foglietto di calendario buttato via senza che il problema sia stato minimamente risolto.

    Il 28,4 per cento degli italiani è a rischio povertà e la Sicilia ha la quota più alta in Europa con un ragguardevole 55,3 per cento, tanto da far apparire confortanti i dati della Grecia. Ci si consola in Italia con una crescita che è tornata ad affacciarsi oltre il segno +, con un moderatissimo +0,2 ma la Spagna ci guarda dall’alto con il suo +3,1 per cento. L’Italia è in stagnazione anche morale. Prudente, guarda alla finestra, fa sempre meno figli. E perde 100.000 unità all’anno (Rapporto Istat giugno 2015) con il compenso della moderata residenzialità degli stranieri, più o meno comunitari, mentre l’età media nazionale supera i 44 anni. Ricchi sempre più ricchi, poveri sempre più desolatamente poveri. Ne è cosciente la presidente della Camera Laura Boldrini che, presentando il suo libro¹ il 14 aprile 2015, ha messo al centro delle proprie preoccupazioni questo insoluto bubbone: «La priorità è combattere la disuguaglianza. È la madre di tutti i problemi. Che aspettiamo a metterla al centro dell’agenda politica? Dobbiamo aspettare che la gente venga a dare l’assalto alla fortezza?». La povertà infatti è, senza ombra di possibile smentita, una priorità che dovrebbe avere la freccia del sorpasso su tutti gli altri post it dell’agenda politica.

    La crisi in fondo è riassunta dalla lettera D: disoccupazione, diseguaglianza, distribuzione della ricchezza. Tre indicatori che riconducono all’esito finale: la povertà. Con l’indice di disoccupazione all’11,5 (dato Istat, novembre 2015) e lo stupefacente 39,8 per cento per le fasce giovanili, non c’è attualmente speranza di salvezza per l’Italia. E un ragionamento di senso comune ci fa comprendere come il debito chiami il debito. I dati del 2013 mostrano l’altissimo prezzo pagato con la crisi. La Commissione Ue sull’occupazione, sezione «Employment and Social Development in Europe review», stima che in Italia il 12 per cento degli occupati non riesca ad arrivare alla fine del mese (la gestione arriva nei casi migliori alla famosa terza settimana). Non c’è da andare troppo fieri perché nel ranking europeo solo Romania e Grecia sono messe peggio dell’Italia. Alto è anche il numero degli homeless (probabilmente sottostimato, non tutti si avvalgono di strutture di solidarietà): 50.000 con larga prevalenza stanziale nel Nordovest (36,8 per cento sul totale). Risultato di una crisi che ti sbatte per strada. Intanto, per il target della lotta alla povertà, l’Onu ha lanciato 17 nuovi obiettivi di sviluppo sostenibile da realizzare entro il 2030. Il titolo è «Sconfiggere la povertà e la fame nel mondo, ridurre le diseguaglianze, tutelare l’ambiente». Nell’arco di 15 anni si propone l’autentica sfida del millennio.

    Chi s’impoverisce s’indebita, finisce in mano alle banche, agli usurai e alla mafie secondo un gradiente di pericolosità di non diverso ordine di qualità. E il debito chiama interesse, cresce esponenzialmente. Al contrario le rendite, l’accumulo, pur nell’epoca dei Bot = interessi zero, vanno in direzione esponenzialmente inversa. Il credito chiama nuovo credito, risorse, interessi, capitali, investimenti. E dunque una sperequazione sempre più forte divide le due categorie (che non sono classi): i ricchi e i poveri. Oggi un numero sempre maggiore di persone vive borderline rispetto alla legalità, nell’impossibilità di pagare tasse procrastinabili o sempre più considerate inutili o fastidiose. Citiamo il bollo auto o la tassa sugli apparecchi radiotelevisivi. Nel primo caso ci si libera di una spesa non urgente rimandando il problema agli anni occorrenti all’Agenzia delle Entrate per spiccare una cartella esattoriale. Nel secondo caso l’evasione è talmente normale e difendibile da essere diventata prassi comune. Dunque andranno semmai privilegiati i pagamenti delle utenze domestiche, quelli sì improcrastinabili. Per continuare a disporre di gas, luce, telefonia. Approfittando della lentezza nei controlli della farraginosa burocrazia italiana.

    Le cifre possono depistare. La ricchezza complessiva delle famiglie italiane è calata in 7 anni dell’8 per cento ma è pur sempre enorme con 8.728 miliardi di dotazione (fonte Bankitalia), circa quattro volte di più del debito pubblico con una quasi equa divisione tra ricchezza immobiliare e cash (investimenti compresi). Ma l’italiano è rattrappito nel presente e preoccupato per il futuro anche per il brusco calo del valore degli immobili che asciugano e comprimono la propria ricchezza. Ecco perché aumenta il peso e il senso motivazionale del risparmio. Ma gli investimenti sono contratti e l’economia è bloccata da un forte senso di apprensione per il futuro, più o meno invalso dal 2008 in avanti, con la crisi dei derivati e il tonfo della Lehman Brothers. Un dato di più largo raggio si aggiunge a quello evocato da Renzi: negli ultimi sette anni il valore di contanti e depositi bancari è aumentato di 234 miliardi, dunque lasciando qualcosa sul piatto alla crisi da derivati. Ma tra il 2012 e il 2013 sono andati in fumo 123 miliardi sul versante immobiliare. Dunque il cash compensa la crisi del mercato della casa. Però è un denaro sordo e fermo che non gira, che non sposta, che non risolve minimamente il problema della povertà. Secondo il progetto Human Capital il capitale umano medio di un italiano, ovvero quello che un singolo è capace di fare e produrre nella sua vita, si aggira attorno ai 342.000 euro. Ma questa cifra, pur considerevole, non è messa a regime, attivata, stimolante per la società. Un valore virtuale che ritrova sostanza quasi solo quando si verifica un investimento, un ferimento o un incidente mortale perché viene calcolato cinicamente il valore finanziario dell’investito in relazione alla sua capacità produttiva. Le donne producono la metà di questa cifra e il valore complessivo di tutta la nazione consta di 13.000 miliardi.

    Trasmette un forte senso di ansia la mancata risoluzione della questione in un Paese che non ha mai avuto una rivoluzione ma che vive emotivamente, con l’acqua alla gola, una sorta di stato-panico febbrile per l’incertezza sul futuro. La viva speranza è che al termine della lettura di questo libro il dubbio, suscitato dalla domanda iniziale, sia diventato certezza in un senso o nell’altro e si tramuti in una risposta certa. O, piuttosto, che il mancato scioglimento del dubbio iniziale, niente affatto retorico, un utile abbrivio, regga intatta la contraddizione che poi è il motivo fondamentale che ci ha spinto a scriverlo. Dunque immersi in un incandescente e (spero) stimolante cammino di scoperta che vorrebbe essere lo stesso del lettore. E per un motivo fondamentale: che la comprensione serva a una reale e non edulcorata fotografia dell’esistente e che contenga, maieuticamente, anche la piccola guida per uscire dall’impasse e rimediare a uno stato di cose che, sicuramente, non sembra la principale preoccupazione dei Governi insediati nella temperie attuale e, in particolare, scriviamolo, per l’ambito che c’interessa, del Governo italiano nella declinazione di tutte le sue forme coalizzative recenti (Prodi, D’Alema, Berlusconi, Monti, Letta, Renzi). Perché l’ambizione della materia con cui ci cimentiamo è tanta, proporzionale alla vastità del problema e, forse, all’inanità dello sforzo. Una parola non risolve ma un pamphlet vorrebbe caricarsi di una forza e di una motivazione laicamente straordinarie. La vita è una. Adesso. E, per citare una fortunata espressione corrente, «la miseria è ladra», la speranza di una palingenesi è lontana, ma, comunque, la voglia di battersi per un mondo più giusto è enorme. E dunque scendendo a valle, negli inferi, prima della giustizia viene la liberazione dalla povertà e dalla fame. Come il diritto alla salute dovrebbe precedere quello del diritto al lavoro (si vedano il caso Ilva e le discutibili priorità istituzionali). La povertà è scandalo e uno scandalo non solo colpisce ma richiede velocemente una risoluzione. Ed è una povertà che è miseria, penuria, un risparmio sui servizi pubblici che colpisce tutti. Girando certe notti nella capitale italiana, il picco del turismo nazionale, un teorico fiore all’occhiello del Paese, sembra di stare a Varsavia negli anni Cinquanta. Quartieri non necessariamente periferici al buio, oscurati, all’insegna di un non dichiarato risparmio energetico: ecco una povertà nera ed evidente, scodellata in faccia a 60 milioni di italiani. Che poi, se approfondisci, scopri che un lampione di illuminazione pubblica a Roma costa quasi tre volte più che a Bologna. Ma questo è un altro discorso.

    I ricchi tengono le posizioni. La classe media s’inabissa, i poveri tradizionali si avvicinano a uno status infimo di pura sopravvivenza. L’indagine Demos & Coop (aprile 2015) mostra che la classe media riflette un proprio nuovo e inconsueto modello di esistenza (proletario o operaio) che tradizionalmente non le apparteneva e che vive con sofferenza, indignazione, astio interiorizzato, rabbia (verso lo Stato) questa condizione, indicando le proprie preferenze politiche (quando non c’è astensione dal voto e dal giudizio) verso le forze che raccolgono questo stato d’animo. L’incertezza sul futuro è riflessa in larga maggioranza da questo strato sociale. Per altro verso se si sta combattendo nel mondo una guerra non dichiarata (con tanti focolai bellici peraltro espliciti in nome del dio denaro) è chiaro che si verifica la situazione classica di tutte le guerre: c’è chi si arricchisce e chi si impoverisce. In particolare da un’indagine del Centro Einaudi-Intesa San Paolo emerge che una classe media individuata in termini percentuali al 57,1 per cento nel 2007 è stata ridimensionata al 38,5 per cento nel 2015, diventando strato sociale minoritario all’interno della società italiana. La guerra favorisce le diseguaglianze e le situazioni estreme di ricchezza e povertà.

    Maurizio Landini, segretario della Fiom-Cgil e aggregatore di Coalizione sociale, ha chiari i termini della contraddizione: «Oggi lo scontro è tra chi sta bene e chi sta male. E quelli che stanno male sono molti di più. Solo che non li rappresenta nessuno»². Peraltro se lo Stato non pone la povertà in cima alla lista delle priorità, un’autocritica dovrebbe venire dagli stessi sindacati che negli ultimi anni hanno chinato la testa o l’hanno girata dall’altra parte di fronte a questa autentica pandemia. L’abbattimento del meccanismo della scala mobile è stato il primo tassello di un lungo ripiegamento rispetto alla voracità del turbo-capitalismo. Le agende dei Governi che si sono succeduti negli ultimi venti anni hanno occhieggiato più ai programmi di Confindustria che all’interlocuzione (anche conflittuale) con i sindacati. Il liberalismo è stato abile nel dividere il fronte sindacale e nel livellare le sue richieste. Oggi non è più gettonato il (peraltro contestabile) consociativismo. Le scelte del Governo sono assolutamente indipendenti rispetto al parere sindacale e, a volte, addirittura sprezzanti nei suoi confronti. Ecco spiegato perché un sindacalista puro e non politico come Landini si trovi nell’equivoco di oscillare tra la forte rappresentatività sindacale e l’esigenza di fare politica aggregando una coalizione che, per ora, ha l’etichetta di sociale e che però non vorrebbe attingere alla vetero-sacca dei partiti di sinistra che tante occasioni hanno perso. Una sinistra che spesso ha abdicato ai propri doveri quando non si è lacerata con scissioni.

    Beppe Grillo, fondatore del Movimento 5 Stelle, tra le tante esagerazioni, ha la sua parte di ragione quando sostiene che il consenso per la sua organizzazione (in termini elettorali un picco del 25 per cento nel 2014) ha evitato che le tensioni del Paese si tramutassero in atti violenti antiegemonici. Quelli a cui allude, preoccupata, la Boldrini. Un italiano su quattro a suo tempo ha scaricato la rabbia per lo stato di fatto in senso di apprezzamento positivo per un movimento non partito che ha aggregato il malcontento in forme antagoniste, ma non violente. In mancanza d’altro a sinistra. E il povero, nel frattempo, si chiede: «Che ho fatto io per meritarmi questo?». Lo straniero povero potrebbe aggiungere: «Perché sono nato in un libro di geografia sbagliato?». Che di questo in fondo si tratta.

    L’evidenza della povertà è clamorosa. Come la squilibrata disponibilità di cibo nel mondo. In quel mondo dove si spendono 1.735 miliardi di dollari per gli armamenti (dato 2013, con un +62 per cento rispetto all’omologo dato del 1998, la statistica è fornita dal Sipri, Istituto internazionale della pace di Stoccolma) mentre, secondo la Fao, ne basterebbero 40 per risolvere il problema della fame, segnatamente in Africa. Basterebbe anche molto meno (circa un quindicesimo) delle risorse a disposizione del Ministero della difesa americano (più o meno 600 miliardi di dollari). Addirittura sarebbe esattamente sufficiente il bilancio del Ministero della difesa dell’Iran! Non sembri un’ironia della sorte che Obama abbia ricevuto nel 2009 il Nobel per la pace pur avendo stanziato, nel 2014, 537 milioni di dollari per ammodernare 180 testate nucleari tattiche secondo i fondamenti di un piano avviato nel 2010 quando gli Usa hanno speso 80 miliardi di dollari per ricerche su armi nucleari. Il New York Times del 21 settembre 2014 ha pubblicato la notizia di un prossimo investimento in moderne armi nucleari per ulteriori 355 miliardi di dollari, spalmati nei prossimi 10 anni. L’impegno belligerante degli Stati Uniti nelle più diverse zone del mondo e il grande freddo con la Russia corroborano questa fondata anticipazione di bilancio.

    Risolverà il problema della fame nel mondo il colossale Expo 2015 milanese che al via ha presentato desolatamente solo una modesta percentuale dei padiglioni inizialmente previsti a regime? La domanda è inevitabilmente retorica. L’Italia è nel trend mondiale con una spesa militare di 80 milioni di euro al giorno, collocandosi all’ottavo posto tra i Paesi più esposti per spese in materia.

    Prima che sia tardi

    La povertà è una priorità che non può attendere, che non può essere messa in lista d’attesa. Trovate che sia un argomento generico, sciatto, che il suo concetto sia invecchiato? Vi trovate impotenti a fronteggiarlo o disinteressati nel confrontarvi sul tema? Pensate che non sia nel vostro cortile? O non volete piuttosto ritrovarvi nella semplicità evangelica dell’assunto e nel suo bisogno di superarla, la povertà. Prima che sia troppo tardi. Perché

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