Il Cancello della Memoria
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La protagonista è Giulia, brillante studentessa universitaria che è inspiegabilmente affascinata dal grande cancello di una villa abbandonata, nelle vicinanze della sua casa di Valdagno, attraverso il quale vede un immenso giardino, anch’esso in stato di abbandono, le cui piante però continuano a scandire lo scorrere del tempo, con il cambiamento dei colori e lo sbocciare e appassire di foglie e fiori. Quando viene a sapere che l’intera tenuta potrebbe essere venduta e trasformata in moderno residence, Giulia comincia a fare domande sul proprietario, per capire perché abbia preso una decisione simile e per tentare in qualche modo di fargli cambiare idea. Un desiderio forse un po’ ingenuo, che trova però un’opposizione decisa quanto immediata: con gentile fermezza, ma anche con modi bruschi, le viene fatto capire che è meglio lasciar perdere. Giulia però non si arrende e decide di cercare risposte anche contro il volere dei suoi genitori. La verità che verrà a scoprire sarà sconcertante, e il percorso per arrivarci, pieno di insidie e di sorprese, le riserverà anche la gioia di incontrare l’amore.
“Il cancello della memoria” è un romanzo che coinvolge e commuove, e che sin dalle prime righe porta il lettore ad essere dalla parte di Giulia, della sua energia, della sua vivacità, del suo voler essere “libera come l’aria”.
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Book preview
Il Cancello della Memoria - Annalisa Castagna
Farm
dedica
A mio padre Aldo,
uomo buono e giusto
Presentazione
Nella nuova opera di narrativa, che esce per i tipi dell’Editrice Veneta, ritroviamo le caratteristiche che già l’Autrice aveva lasciato intravedere nelle opere precedenti: nitida e trasparente semplicità nel descrivere, unita alla creativa immediatezza del narrare; amore alla storia che fa collocare luoghi, volti ed esperienze familiari entro e con un preciso rigore cronologico senza nulla togliere alle emozioni; attitudine educativa su cui si innerva l’impegno istintivo di comunicare alle giovani generazioni un prezioso patrimonio di insegnamento fatto non tanto di parole quanto di un vissuto valoriale da cui traspare, più che il maestro, il testimone; attaccamento a ciò che è natio che costituisce la radice e nello stesso tempo la forza propulsiva per l’espansione verso orizzonti più vasti.
C’è però, in quest’ultima fatica letteraria, una maturazione di pensiero che rivela lo spessore esemplare del traguardo raggiunto dall’Autrice e che piacevolmente impressiona, gratifica, appaga.
La ricca scioltezza del linguaggio e la vivace pensosità dell’esprimersi coinvolgono il lettore nei fatti presentati, tanto che lo stesso non riesce a desistere dal continuare nella lettura ed è irresistibilmente attratto a proseguire per conoscere l’ulteriore evoluzione delle vicende narrate.
Disseminate lungo tutta la trama dell’opera ci sono indicazioni che potremmo chiamare pillole di saggezza
: sono la traduzione di convincimenti personali e di riferimenti per un’umanità consapevole della propria dignità; traguardi che segnano l’evoluzione del pensiero e manifestano il livello di maturità raggiunto. Esse trovano il loro culmine nell’enunciazione della tesi di fondo: Se l’uomo conosce l’uomo può aspirare solo ad un futuro di pace
.
E’ l’auspicio e l’augurio per il contesto multietnico e multiculturale nel quale viviamo.
La conoscenza reciproca, che presuppone l’accoglienza, è la strada che apre al futuro nel nostro mondo globalizzato; una conoscenza, tuttavia, intesa come attività di tutta la persona che sa coniugare giustizia e verità nel dono dell’amore, fondamento di ogni relazione autenticamente umana.
A.S.
Capitolo 1
C’era un grande ciliegio in quello che un tempo doveva essere stato il giardino. Si alzava maestoso, incurante dell’abbandono che lo circondava e sembrava guardare dall’alto la desolazione di quella casa che un tempo era stata viva e racchiudeva gelosamente tra i suoi muri sbriciolati un orgoglio antico.
Il cancello era chiuso da una catena e un poderoso lucchetto scoraggiava coloro che avrebbero voluto impossessarsi delle rosse ciliegie che l’albero, nelle stagioni dorate, generosamente donava. Quel cancello era di ferro battuto, arrugginito, ma lasciava intravedere il grande cortile di pietre vicentine e il rigoglioso glicine che s’arrampicava sul muro quasi a rivendicarne il possesso.
Giulia passava di lì almeno due volte al giorno e non resisteva all’invito a fermarsi che, quel cancello di indecifrabile colore, le rivolgeva. Si aggrappava ad esso e guardava dentro per cercare un indizio, una prova che potesse richiamare quella vita che sicuramente anche in quella casa aveva gridato la sua forza. Con la caparbietà che la distingueva aveva cercato di raccogliere notizie, aveva interrogato le vecchie zie, ma la loro testa ormai inseguiva solo i loro ricordi, e ogni giorno le portavano le loro visioni. Dai loro discorsi sgangherati aveva colto solo qualche riferimento: la contessina era al centro dei loro ricordi e il calesse sembrava ritornare come il nitrito dei cavalli lungo la strada costeggiata da platani che portava all’ingresso principale ora separato dal resto della proprietà da una strada anonima e trafficata.
Giulia sostava in un silenzio quasi religioso e guardava tra quelle inferriate che lasciavano trasparire la malinconia dell’abbandono. La sua bicicletta abbandonata sull’erba l’attendeva con pazienza ogni qualvolta si fermava a sbirciare uno scorcio di passato che le lasciava dentro una profonda insoddisfazione, perché non riusciva a trovare una traccia che potesse svelarle il mistero di quella casa e dell’attrazione che questa esercitava su di lei.
Aveva ormai 22 anni, tanti spasimanti, nessun innamorato. Era libera come il vento che s’insinuava tra le crepe delle mura abbandonate e intonava una mesta canzone. A volte le piaceva fermarsi ad ascoltare quella voce e la interrogava per trovare risposte ai suoi dubbi e ai misteri che quel giardino sicuramente le riservava.
Un giorno d’estate, passò sul tardo pomeriggio davanti alla sua casa
e inspiegabilmente trovò il cancello aperto. Nel cortile erano posteggiati un’auto di grossa cilindrata con i vetri oscurati e un furgoncino che riconobbe essere quello di un impresario edile.
Lasciò la bici appoggiata al muro e si fece forza per entrare nel vasto ed incolto cortile dove le pietre sconnesse abbondavano di muschio e di licheni. Qua e là crescevano erbacce insulse e qualche fiore giallo insignificante si permetteva di abbellire quel selciato dove, secondo Giulia, si riconoscevano ancora i segni del gioco della campana.
Entrò con titubanza, guardandosi attorno. Le stanze abbandonate erano state rifugio di vagabondi e si vedevano sul pavimento i resti di un focolare improvvisato per difendersi dal freddo dell’inverno.
Non c’erano suppellettili, solo vecchi fogli di giornale e alcune riviste pornografiche che qualche adolescente aveva sfogliato nell’ansia d’ infrangere un antico tabù. Si diresse verso le voci che sentiva provenire dal fondo del corridoio. La porta era aperta e dava sul retro della casa dove si trovava un giardino incolto nel quale testardamente continuavano a fiorire le rose che da anni non ricevevano alcuna cura. Giulia, guardandole, pensò che la vita si prende sempre la propria rivincita e le rose ne erano la prova. La loro caparbietà era pari alla loro bellezza come se il tempo e l’incuria avessero rafforzato il loro orgoglioso fascino. Si affacciò sull’uscio e i due uomini si voltarono stupiti della sua presenza. Poi Antonio, l’impresario che la conosceva fin da bambina, le rivolse un saluto di sorpresa misto a simpatia. Cosa ci fai in questa casa, sai che potresti trovare il lupo cattivo?
Passavo di qua e ho visto il cancello aperto! Così sono entrata perché mi piacerebbe che questa casa tornasse a vivere.
rispose Giulia con entusiasmo misto a speranza. Credo proprio che qui tornerà la vita, ma non in questa casa. Qui sorgerà un condominio di otto appartamenti e verranno ad abitarci le famiglie degli operai della fabbrica.
L’altro uomo, un signore distinto di una cinquantina d’anni, la guardava con sguardo indicatore e colse il suo diniego di fronte alla prospettiva relativa al luogo. Giulia salutò con mestizia e tornò sui suoi passi, cercando di fissare nella sua mente l’austerità di quelle scale, la maestosità degli stucchi che ancora incorniciavano il grande camino a pianterreno e gli ampi soffitti che avevano anche ospitato qualche affresco, ma che una mano di calce aveva semplificato ogni problema di conservazione. Si chiese dove fossero finiti i grandi lampadari che un tempo, da bambina, aveva avuto modo di vedere, ma sapeva che forse illuminavano qualche villa moderna di qualche nuovo e fortunato imprenditore, incurante della loro storia, ma orgoglioso di ostentare la sua fulminea ricchezza. Fece un giro molto largo per tornare a casa. Passò in mezzo ai campi seguendo il canale di scolo e rispondeva al frinire delle cicale che petulanti imponevano il loro concerto. Inforcò il grande viale alberato che ora era diventato parte di una strada di pubblico traffico, ma che un tempo era stato il viale d’accesso ad un’altra villa, più fortunata, i cui padroni non l’avevano né venduta né abbandonata. Conosceva i loro proprietari perché più volte l’avevano sorpresa nel maestoso giardino, ma di fronte alla gioia con cui parlava ai fiori e alle piante non avevano avuto il coraggio di cacciarla da quel paradiso. Così, forte del suo ascendente su di loro, si fermò di fronte al cancello e tirò la cordicella che azionava una campana di bronzo. Subito i grandi cani si fecero avanti, ma il loro abbaiare era festoso poiché l’avevano riconosciuta. Dietro di loro avanzava la padrona di casa con un cesto di rose appena colte e lunghi guanti bianchi per difendersi le mani dalle loro innumerevoli spine. A cosa dobbiamo la tua visita? Forse un nuovo raid nel nostro giardino?
disse bonariamente la signora che dimostrava meno dei suoi 70 anni. Il suo aspetto curato rivelava una premura attenta anche dei minimi particolari e fu per questo che s’accorse del velo di malinconia ospitato negli occhi di Giulia.
Cosa succede, forse uno spasimante si è stancato di aspettarti?
Giulia raccolse il suo coraggio e la informò dell’incontro appena avvenuto presso la villa delle rose e poi, riprendendo fiato, chiese alla signora di raccontarle qualcosa di quella casa. Io non so perché, ma ogni volta che passo di là, sento un forza che mi attrae verso il cancello. Mi aspetto da un momento all’altro di veder uscire qualcuno da quella porta dalle grandi vetrate. Ma non c’è mai nessuno e anche il giardino attende impaziente!
La signora si diresse in silenzio verso una panca, si sedette e le fece segno di farle compagnia. Vedi, un tempo quella era la casa di campagna dei conti Andreoli. Avevano molti possedimenti in quella zona che facevano coltivare a grano e bietole. Era uno spettacolo guardare quelle messi che ondeggiavano al vento, quei papaveri e quei fiordalisi che si mescolavano come fossero un bouquet regale. La casa si apriva alla fine di maggio e si chiudeva alla fine di settembre quando i conti tornavano a Verona dove avevano il palazzo di città. Avevano tre figli: Federico, il maggiore, era studente a Padova di legge, Francesca era studentessa di lettere, Anna era la piccola di casa, cocciuta e impertinente, con grandi occhi verdi che riflettevano il fogliame rigoglioso dei grandi alberi, custodi del parco. Federico era nato nell’anno della vittoria e suo padre per festeggiare la sua nascita aveva invitato tutti i maggiori possidenti della zona, ma aveva pensato anche ai suoi contadini che erano accorsi a frotte a vedere l’erede, colui che avrebbe continuato la stirpe di questi signori. Ho ancora presente la straordinaria illuminazione con palloni cinesi, con fiaccole di resina; il salone delle feste era un tripudio di fiori e il luccichio degli argenti richiamava il prestigio della famiglia. Sono ricordi lontani. Ora guardiamo al presente anche perché devo rientrare in casa, i miei doveri mi chiamano.
Giulia rimase con l’ansia di sapere dove fossero andati i protagonisti di quei ricordi, ma capì che non era il caso d’insistere. Già, quel giorno, aveva infranto la consegna del silenzio che quella dimora abbandonata aveva subito. Si alzò e riprese la sua strada verso casa.
Sua madre era nel cortile e strappava le erbe infestanti che facevano violenza alle pietre del selciato. Il cane le corse incontro festoso, le annusò le mani e ritornò sotto il portico che aveva elevato a sua proprietà. Sotto quell’ombra che aveva sapore di antico, il fedele Leo osservava lo scorrere dei giorni e vigilava sui suoi padroni, sulle galline che razzolavano sull’aia, sui gatti che gli contendevano i piani alti del fienile.
Giulia entrò in casa, nella grande cucina trovò il padre che al solito commentava i fatti di cronaca del giorno. Si avvicinò al giornale disteso sul tavolo e una notizia richiamò la sua attenzione: Il conte Federico Andreoli ha posto in vendita le proprietà di famiglia. Un altro pezzo di storia consegnato alla modernità
. Quel nome la scosse nuovamente, tanto che si rivolse al padre con impeto: Lo conosci? Cosa intende con proprietà di famiglia, non sono relative solo alla villa dei tigli?
Il padre non fu altrettanto svelto nella risposta. Sembrava che cercasse nell’aria le parole per rispondere e Giulia non capiva tutta quella lentezza che non era del padre. Mario era un uomo impulsivo, conosciuto da tutti per la sua schiettezza; le sue posizioni politiche e i suoi trascorsi di partigiano ne avevano fatto un mito tra i contadini e gli operai. Più volte aveva ricoperto cariche pubbliche nelle fila del partito, aveva avuto anche incarichi importanti, impensabili per chi come lui non era andato oltre la quinta elementare. Ma i suoi erano altri tempi, tempi tristi in cui il problema fondamentale era la fame, quella che attanagliava le viscere e riempiva di aria lo stomaco.
Ora quella domanda gli riportava un passato di cui aveva voluto liberarsi: era l’eterna lotta tra i signori e i poveri, la dialettica della storia che a seconda dei periodi aveva incoronato i vincitori e umiliato i vinti. Federico Andreoli era stato il suo nemico da quando erano bambini. Lui il figlio dei contadini, Federico, bello e biondo come gli eroi, il figlio dei signori, dei conti che detenevano oltre il 90% di quelle terre. Erano nati nello stesso anno, l’anno della vittoria, e, come dicevano le loro rispettive madri, quell’evento lo portavano dentro vista la loro energia. Erano cresciuti tra quei campi e nelle estati dorate avevano conosciuto la stagione dell’inconsapevolezza, incuranti delle barriere di classe, delle rispettive famiglie, di ciò che avevano. Possedevano la giovinezza e questa bastava a renderli simili, anche se mai uguali.
Poi la tragedia della guerra, la campagna di Russia,