Crepuscolo settembrino
By Teresa Curci
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About this ebook
Un cancro l’ha privata anzitempo della vita.
Sapendo di morire e svuotata d’ogni speranza, si rifugia in solitudine nella casa materna, e lì riesuma e ritrova i ricordi, le parole, i percorsi della sua vita e di chi ha conosciuto, dando forma a una sequela di vicende, fatte di voci e suoni, d’immagini a volte sfocate, altre vivide come se appena vissute. E’ come un nottivago, che dopo aver vagato per lungo tempo, cerca di ritrovare la strada di casa.
In questo viaggio a ritroso nel tempo, che ha inizio nel primo Novecento e che si dipana fino ai giorni nostri, la protagonista affronta la fine ormai prossima, conscia che la morte porta via l’essenza del corpo, ma anche le tribolazioni e le gioie, le urla disperate e le risate schiette che rallegrano il cuore, i drammi, le sconfitte e le vittorie di quel supplizio che è a volte è la vita.
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Crepuscolo settembrino - Teresa Curci
Teresa Curci
Crepuscolo settembrino
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Indice dei contenuti
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1
"Ma come un sogno di poca durata è la gioventù
preziosa; presto grava sul capo
la dolorosa e deforme vecchiaia,
nemica ignobile, che non fa più riconoscere l’uomo:
reca danno agli occhi e alla mente, avviluppandoli".
Così Mimnermo secoli fa definiva la vecchiaia.
Mi guardo allo specchio. Una donna a cinquant’anni a volte può essere più affascinante che a trenta o a quaranta.
Ed io? L’infoltirsi delle rughe agli angoli degli occhi e i capelli argentei che soppiantano i neri, mi fanno sembrare scialba e spenta.
Sono vecchia?
Osservo meglio. L’immagine è aspra e ostile, mi scruta a sua volta con sospetto.
Che vuoi? Sei qui per tormentarmi, per sospingermi senza scampo fino all’ultima dimora, per insegnarmi a gestire il tempo che mi resta?
Mostrami la tua verità, sussurro accostando il viso alla superficie, ma l’immagine riflessa continua a fissarmi con gli occhi colmi delle mie identiche domande. Alzo una mano per respingerla e lei fa lo stesso, solo che la sua, stranamente, s’ingigantisce e sembra voler uscire dallo specchio per afferrarmi.
Indietreggio, mentre un urlo straziante mi trapassa il cervello. D’istinto mi porto le mani alle orecchie, e anche l’immagine si distorce in un’amarezza senza pari, simile a una parodia munchiana.
Non reggo oltre. Afferro un flacone dalla mensola e colpisco con forza lo specchio, che si sminuzza in mille schegge. Ogni scheggia mi rimanda l’urlo frammentato, che moltiplica l’immistione di angoscia e dolore.
Sto male. E’ la consapevolezza che fra un mese o un anno mi trasformerò in un’altra persona, più vecchia e spaventata?
Oh Dio, che sto pensando? Fra un anno, con ogni probabilità, non apparterrò più a questo mondo. Inutile prendersi in giro, darsi false speranze.
Un cancro mi sta orbando della vita.
La stanza si fa stretta e buia. Boccheggio. Ho bisogno di spazio e luce, ma anche di cancellare l’immagine speculare che continua a urlarmi dentro.
2
A cena mia figlia Emma è silenziosa, quasi assente, chiusa in un vestito caliginoso che esterna il suo stato d’animo. Ancora poco avvezza alle malignità e ai trabocchetti della vita, la mia unica figlia trasuda i tipici timori della sua età.
Vorrei accarezzarle i capelli, come facevo quando era piccola. Era un gesto che piaceva a entrambe, ma la complicità di un tempo è svanita, dissolta dall’amarezza delle nostre disarmonie esistenziali.
Emma è bella, così somigliante al padre: il viso scarno, gli zigomi alti e marcati, gli occhi color tortora luminosi e affamati d’amore, il sorriso accattivante che non vedo da un pezzo.
Da quanto tempo non sorride?
Il suo volto spesso è attraversato da ombre. Da quando ha perso il padre cinque anni fa in un incidente stradale, sta vivendo una fase difficile della sua vita, ma non ho il coraggio d’indagare, di chiedere. Non ho ancora trovato la forza di dirle che ho il cancro, per non scoprire nei suoi occhi l’esecrabile bagliore della sofferenza.
Non lo sopporterei.
Sono belli i suoi occhi. La prima volta che li aprì e mi fissò, rimasi completamente sommersa da quel mare d’innocenza. Pensai che, con il passare degli anni, sarebbero stati intaccati dalla turpitudine della quotidianità, invece hanno conservato lo stesso incontaminato fascino.
Dovrei dirle tutto, ma non mi decido. Quante parole non espresse!
Emma, Emma mia, ti amo infinitamente. Vorrei dirti che la mia vita ha assunto una valenza speciale da quando ne fai parte, che non sopporto che mi escluda dalla tua; invece chiedo: Come va con il tuo ragazzo?
.
Lei alza il naso dal passato di verdure.
Perché vuoi saperlo?
.
Sembri turbata
.
Da cosa lo deduci?
.
Lascio perdere. Poi aggiungo: Com’è andato l’esame di…Anatomia?
Lei si stringe le spalle. A che serve studiare, se poi dobbiamo morire?
.
Che significa? Non può sapere del mio cancro. No, c’è qualcos’altro che la preoccupa.
Va tutto bene?
, azzardo ancora.
Un tempo, neppure tanto lontano, quella semplice domanda avrebbe scatenato un profluvio di parole; invece mi guarda sospettosa e mormora: Non sarà successo qualcosa a te, piuttosto?
.
La domanda è pericolosa. Rischio di coinvolgerla nella mia angoscia, perciò scuoto la testa e riprendo a mangiare. Evito di espormi, di intavolare una conversazione fatta di sole domande che resteranno senza una risposta.
Emma non dirà nulla. Ormai non si confida con me da un pezzo. Non so più cosa pensa, quali sono i suoi desideri, i problemi che può avere.
Vorrei infilare una mano nei suoi pensieri per carpirne uno, uno soltanto, ma solo per sentirla ancora un po’ mia, per sapere se mi ama ancora.
Vorrei, ma quel desiderio resta cristallizzato con gli altri.
Si sente nell’aria solo il rumore dei cucchiai sui piatti, ampliato dal silenzio che regna nella stanza.
Da un lato del tavolo io, donna sul viale del tramonto; dall’altro Emma, all’inizio di quel viale, che anch’io ho percorso un tempo lontanissimo.
Correndo.
3
Così non va. Non posso ignorare la massa erosiva che mi sta succhiando la vita e che mi porterà alla tomba. Ora la morte non è più soltanto una parola, un concetto intangibile, ha assunto i tratti esteriori del volto compassionevole e disperato nello specchio.
Non invecchierò più di così, non ne avrò il tempo. Non diventerò più equilibrata e saggia. La saggezza, diceva Hemingway, è un inganno. I vecchi non diventano più assennati, ma semplicemente più attenti, ed io ultimamente ho scoperto di aver affinato i sensi.
Chissà se nel momento della morte avrò accanto qualcuno. E se morissi sola, senza la mia Emma? Potrebbe succedere.
L’aria in casa mi sembra irrespirabile. Esco, ma anche fuori è calda e pesante. Vago senza una destinazione precisa, respirando la mistura di smog e nebbia che ci ostiniamo a chiamare aria.
Oggi faccio cose inconsuete. Acquisto un libro di poesie, io che odio la poesia, e un pacchetto di sigarette, io che ho smesso di fumare da anni.
Entro nel giardino comunale. Non capisco perché, eppure oggi mi sono data questa meta, come una pensionata che non ha neppure un cane o un gatto a farle compagnia.
Perché no? Vediamo cosa si prova, male non fa.
Mi siedo su una panchina di pietra porosa. Sono sfinita. La miastenia incomincia a farsi sentire. Adesso è lenta, ma già inesorabile.
Prima di immergermi nella lettura, mi guardo intorno.
Ai piedi di un salice, c’è il busto di un certo Benedetto da Maiano, architetto e scultore; più in là, quello dell’Alighieri, con la bazza sporgente e l’aria supponente, che osserva il profilo accigliato del Manzoni.
Maschi, solo maschi immortalati nella pietra per essere ricordati dalle future genti. E’ difficile dedicare a una donna un’erma, una lapide commemorativa che dica: Vedete? Anche una donna compie cose importanti in un mondo dominato dagli uomini
.
Accendo una sigaretta. Avevo smesso anni fa per paura del cancro, ma ora non fa più differenza, ne ho già uno. Attraverso le volute di fumo e un nugolo di moscerini che si muove compatto nell’aria, lascio spaziare lo sguardo, che supera il cancello di bronzo brunito, poi ritorna indietro a osservare il prato ricoperto di foglie, l’erba smossa dal respiro leggero della brezza, i fasci di luce che filtrano attraverso le foglie degli alberi.
Il giardino è quasi deserto, ad eccezione di una giovane coppia, che si bacia dietro un cespuglio, e di un vecchio col suo cane, che li osserva per un momento e scuote la testa, biasimandoli. Sbandierando la loro felicità, quei due evidenziano l’infelicità di chi l’amore non l’ha mai provato o avuto, come forse quel vecchio col cane; chi invece l’ha conosciuto e poi perduto, prova una struggente nostalgia.
Schiaccio il mozzicone e apro il libro.
Poesie di Kavafis.
Inizio a leggere, ma non riesco ad assaporare l’essenza delle parole, così pregne di sofferenza. Un libro, di solito, strania, dovrebbe essere una sorta di discreta badante della mente e dei sentimenti, compassionevole e fidata.
Di solito. Non oggi.
Rileggo per l’ennesima volta le Candele. Ogni parola è una lacrima di dolore, che alla fine riesce a illanguidirmi.
‘Non le voglio vedere: m’addolora il loro aspetto
la memoria m’addolora del loro arcaico lume.
E guardo avanti le candele accese’.
Quanto tempo mi resta?
Risento ancora la voce dell’oncologo.
Mi addolora comunicarle che le restano pochi mesi di vita…Forse un anno
, aveva concluso con voce tetra, come se fosse un po’ colpa sua.
Non capisco
.
Il cancro, signora, purtroppo è maligno. Incurabile
.
Davanti alla mia faccia basita, aveva cercato di spiegarmi che non era operabile, che qualunque intervento sarebbe stato inefficace, avrebbe creato solo inutili sofferenze.
Che devo fare?
.
Posso suggerirle di vivere al meglio il tempo che le resta…Prepararsi. Mi dispiace
.
Era stato tutto.
‘Non mi voglio voltare, ch’io non veda, in un tremito,
come s’allunga presto la tenebrosa riga,
come crescono in fretta le mie candele spente’.
Voltandomi indietro, anch’io vedo i miei anni usurati e poi spenti come tante, interminabili candele. Virgilio diceva che i giorni più belli fuggono per primi, sostituiti dalle malattie, dalla triste vecchiaia e, alla fine, dalla morte. E’ terribile, ma lo è di più sapere di non avere ancora tempo, né per le malattie né per la vecchiaia e neppure per prepararmi all’idea della morte.
Chiudo il libro e lo faccio sparire nella borsa.
I due giovani sono ancora avvinghiati dietro il cespuglio. La loro felicità, così innocente e spietata, ad un tratto mi crea una sorta d’avversione per tutto il genere umano.
Credevo che non facesse male una puntatina ai giardini, leggere un libro all’ombra di un platano e respirare l’aria dolciastra e pesante che s’alza dal fiume.
Mi sbagliavo.
Resto seduta, infreddolita e disacconcia, finché falde d’oscurità sempre più larghe soppiantano gli ultimi sprazzi di luce.
Arriva la sera. Il giardino chiude, dissolvendo con la sua quiete i rumori della natura, ma non l’ansia di questa giornata.
4
Tornando a casa, trovo Emma ad aspettarmi nell’atrio. In un angolo, due valigie.
Parti?
.
Il tono è tranquillo, quasi indifferente, ma un nodo mi stringe la gola, togliendomi il respiro. Lei distoglie lo sguardo, imbarazzata, e io capisco. Andrà via per un lungo periodo, forse per sempre.
Oh Dio, non puoi farmi anche questo!
Le gambe non mi reggono, un crampo doloroso e traditore mi costringe a sedermi e ad apparirle vulnerabile, ma lei è determinata, forse non si accorge neppure del mio stato.
Spietata e lapidaria, con lo stesso tono con cui ordinerebbe una pizza e mezza minerale, dice: Vado a vivere con Sergio
.
Come? I tuoi studi…
.
Mi sono già iscritta all’Università di Torino, dove Sergio ha ottenuto una cattedra. Io parto con lui
.
Evito di guardarla. Vorrei chiederle di restare, ma sarebbe inutile, tanto so che lei non è propensa a discettare la sua decisione. No, è giusto che sia così. Mettiti in salvo, Emma. Sii felice almeno tu. Salvati!
Mi sforzo di sorridere e l’abbraccio. Solo quando la porta si chiude con uno scatto metallico, posso emettere un lamento gutturale che precede le lacrime.
A questo punto cos’altro può capitarmi?
Mi sento alla deriva, privata della giovinezza, di un uomo che saltuariamente m’illuda di essere ancora desiderata, forse anche dell’amore di Emma. La parabola della