Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

A piedi nudi
A piedi nudi
A piedi nudi
Ebook169 pages2 hours

A piedi nudi

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

A piedi nudi è un romanzo di formazione. O, meglio, un diario di formazione. Lo scrittore di questo diario in continuo divenire è Fabrizio, detto Braccolo in paese. L'opera inizia con un fast forward, con Fabrizio 28enne che imbocca lo strada di ghiaia che lo accompagna al portone di casa. Di quelli di legno, di quelli bassi, di quelli che ti devi abbassare per entrare anche se sei alto poco più di uno e sessanta. E lì davanti trova una sorpresa. Subito dopo lo ritroviamo adolescente, 13enne, presentarsi in prima persona e raccontarci tutto in tempo reale. Facciamo la conoscenza di Braccolo, che vive in una villona di montagna, in montagna. Anzi, nel bel mezzo di un bosco verde smeraldo. È figlio unico, ma Toro, Andre, Fra, Ricky sono i suoi migliori amici, da sempre. E sono come fratelli. Poi c'è Alessandra, che non è sua sorella, ma forse il suo primo amore. E poi ci sono la signora Margherita Palazzi e Gianni Randoni, che sono due vecchini del paese con cui Braccolo passa interi pomeriggi parlando del suo crescere e bombardandoli di domande. Con loro macina caffè e beve gassosa: si sente loro nipote. Fra pochi mesi Braccolo e i suoi amici loro andranno al liceo, all'Eugenio Montale, giù in città. Qui Braccolo conoscerà la città, qui consocerà nuovi fratelli, qui conoscerà Giorgia. Quando l'insegnante fa l'appello, il primo giorno di scuola, ricompare per la prima volta dopo l'incipit il nome Fabrizio e la narrazione passa in differita, con Fabrizio adulto che ricorda le tappe della sua vita: il primo sabato sera, il primo viaggio con i suoi amici, le bravate, le risate, la notte del dondolo, la prima volta con Giorgia, le ore trascorse con Gianni e Margherita, gli addii che ti fanno a brandelli, le scelte che la vita ti costringe a fare, quella sensazione di perdersi come la sabbia che ti sfugge dalle dita. E poi Fabrizio torna a dirci tutto in tempo reale, con una cronaca in diretta dei suoi giorni, raccontandoci chi e che cosa abita la sua tormentata quotidianità e chi e che cosa, invece, popolerà i suoi giorni futuri.
LanguageItaliano
Release dateMay 10, 2016
ISBN9788868825232
A piedi nudi

Related to A piedi nudi

Related ebooks

Psychological Fiction For You

View More

Related articles

Reviews for A piedi nudi

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    A piedi nudi - Fabio Franchini

    www.lettereanimate.com

    A piedi nudi

    0.

    Lei è lì come ho sempre sperato accadesse un giorno. Ora, finalmente, ci siamo. Mi chiama quasi sottovoce, con la voce rotta, come se mi invocasse. Mi corre incontro come ha fatto altre volte, da quando aveva diciassette anni.

    Fermi tutti: cosa c’è di più bello? Penso siano quelle le volte, i momenti, in cui capisci che nella vita ci sono poche cose più pure e che ti rendono più completo della donna che ami e che ti ama che ti corre incontro. E ha quell’espressione – che poi è esattamente la tua, solo che non ti vedi – che ti rimane per sempre dentro gli occhi. In quei passi c’è l’amore e la felicità, in quei metri di distanza che vengono mangiati capisci tutto.

    E sarebbe bello non dimenticarsene.

    Beh, mentre lei corre io sono lì come un baluba, catatonico.

    Mi sento le gambe cedermi mollissime e una bomba mi esplode dentro e mi fa un gran caldo allo stomaco e al cuore, che mi si arrampica in gola. Lei mi salta in braccio e io, ripresomi dalla paresi esteriore, la stringo forte e lei piange e io la stringo ancora più forte e la annuso. Poi alza la testa dalla spalla e dal petto, e mi guarda con i suoi occhioni verdi a un centimetro da me. Mi bacia e bacio le sue e mie lacrime posate sulle sue labbra e sul suo viso e hanno un sapore perfetto e bacio tutto (tutto, forse, meglio di no) quello che è successo a me e lei in quei due anni di vita nuova, strana, brutta, da quel giorno apocalittico, che ha rasato al suolo il mondo.

    Bom, fine.

    Mi sveglio incazzato come una bestia, odiandomi per continuare a fare sogni del genere dopo mesi, tra l’altro, di pace perlomeno notturna. Mi prego, per l’ennesima volta, di smetterla. Non controllo neanche l’ora, mi svesto e vesto in due minuti, non mi lavo neanche e vado a correre lungo il fiume, lungo l’acqua intarsiata d’oro dal primo sole.

    Dopo dieci minuti mi accorgo di non avere le mutande sotto i pantaloncini. Dopo altrettanti di non avere neanche i pantaloncini. Scherzo. Ma allora ecco perché quelle due signore impegnate a far pascolare i rispettivi cani mi guardavano, diciamo, incuriosite. Dopo altri dieci minuti, tornante verso casa, natura chiama e mi fermo a pisciare dietro un albero. Un albero, sicuramente già imbrattato più volte (non che lo dica per giustificarmi) che dà oltretutto sul cortile di un’elementare (chiusa, lo giuro). Che classe.

    Poi riprendo a far andare le gambe. Più forte vanno, mi dico, più svuoto il cervello. Oh, vedi, funziona. Sì, per due minuti. Ma va, non ci riesco. Non riesco a lasciarla andare una volta per tutte. Non dico dimenticarla, no. Dico di riuscire a farmene realmente una ragione e a non voler vedere più lei dentro il mio futuro. A non voler vedere più lei, che ne so, tipo dentro all’abito da sposa e in sala parto che mi guarda e ride (beh, in sala parto ridere la vedo difficile, ma ci siamo capiti) tra la nostra felicità lacrimosa.

    Mi son svegliato incazzato perché avrei voluto viverci e morirci in quel sogno così reale.

    Ma forse non era mattino, era notte: che quando abbiamo gli occhi aperti vediamo tante verità, e poi quando li chiudiamo sono solo bugie.

    Stronzo io che mi son svegliato e stronzo io che non mi sono accorto che stavo sognano. E stronzo io che spero che nonostante tutto quel sogno, un giorno o l’altro, sia tessuto con i fili della vita reale.

    Che illuso, che debole. Reagisci.

    Comunque, piacere, Fabrizio.

    Ma facciamo un passo indietro. E facciamo parlare lui…

    1.

    Ciao.

    Mi chiamano Braccolo, ho tredici anni e vivo con i miei in una villetta di montagna, in montagna. Che poi in realtà mica è una villetta: è una villona, una baitona tutta di legno. E no, non è una di quella prefabbricate che si vedono in giro ultimamente. E non è che lo dica per fare lo splendido, è solo che l’ha costruita mio papà, che è ingegnere edile e che si è fatto un culo quadro, per far contenta la mamma. Mi sembra giusto rendere onore al suo sudore.

    La mamma voleva lasciare la città e voleva una casa tranquilla, lontana da tante cose, alla giusta distanza di sicurezza. Che poi, secondo papà, visto che la mamma è una patita dello yoga, lei voleva fare i suoi "ohmmmˮ e Saluti al Sole in veranda, annusando la resina dei pini e ascoltando le sinfonie del bosco. Pochi cazzi. Quindi, anche un bel verandino.

    Mi immagino mio padre a segar legna, a batter chiodi e a bestemmiare per amore della mamma.

    Ma allora tu non l’hai ancora capito come sono le donne?! Devi stare zitto. E subire.

    (Grazie pa’, lo capirò più avanti)

    2.

    (Fast forward)

    Vado a braccio, reinterpretando i pezzi dei racconti tratti dall’album oral-tramandato di mamma e papà.

    Si conobbero a scuola, ma non si cagarono per anni. Elementari, medie e superiori insieme. Ma si sa, alle elementari le femmine bleah. Ah si? Ne riparliamo fra qualche anno, amico.

    Alle medie esplode la pubertà e, in qualche fortunato caso, esplodono le tette di qualche compagna di classe. E l’interesse, seppur acerbo, di rimbalzo, cresce.

    E giù a spellarsi le mani.

    Alle superiori, beh, finalmente l’uomo diventa meno scemo e innocente e inizia ad interessarsi a fondo alla materia femminile. Anche se oramai con le sempre più nuove e perdute generazioni non so bene come funziona, quando si inizia. Probabilmente, purtroppo, quando io cercavo ancora le figurine mancanti dell’album Panini.

    Durante il liceo divennero amici. "Il primo giorno di scuola è come se ci fossimo parlati per la prima voltaˮ, così mi raccontavano sempre, tra sospiri e occhi che guardano in alto e si perdono in quel che erano, e io che inizio ad avvertire un certo disgusto. Durante l’estate tra la terza media e l’inizio della nuova esperienza scolastica erano cresciuti, come d’altronde natura vuole per ogni essere umano.

    La mamma, mi baso sulle foto sbiadite che mi ha mostrato orgogliosa qualche volta, era molto carina. Altezza normale sul metro e sessanta, in carne normale sui cinquanta chili, capelli mossi castano scuro-scuro, occhi azzurri. Naso particolare, tra il naso alla francese e un altro tipo di naso che non so che nazionalità abbia, ma comunque bello da vedere.

    Mio padre, dopo i più classici anni di anatraccolaggine tra elementari e medie, si era alzato e irrobustito. Capelli sempre corti castano chiari barra biondo cenere (ora si, faccio lo splendido snocciolando sfumature cromatiche). E qui di foto non ce ne sono, ma mi fido di lui che oggi comunque è un bell’uomo a (e ha) sentito dire.

    Iniziarono a tampinarsi, divertirsi insieme e a scriversi demenziali ma innocenti bigliettini durante le ore di lezioni. Dicono, ancora, a proposito: Eravamo molto amici, ma eravamo ancora davvero innocenti e piccoli, e sospirano felici. E io rabbrividisco.

    Non successe niente se non qualche bacio a stampo durante qualche classico e terrificante gioco della bottiglia, di quelli che sei seduto per terra, a gambe incrociate o inginocchiate quasi a implorare pietà e il cuore che batte forte.

    Uscivano insieme con gli amici in paese, si divertivano e tutto, ma sempre dentro quei confini quasi invalicabili dell’innocenza e inesperienza dell’età.

    Poi successe che Lucio, amico della compagnia, una sera ci provò con la mamma durante la festa per il compleanno di Martina (sorella di Lucio) e mio padre appena lo vide gli tirò una cartella sul naso. Che scena. Me la sono sempre immaginata così: cartone sul naso e tuffo a pesce di Lucio che cade sopra il tavolo con in ordine da sinistra a destra: aranciata, coca cola, bicchieri di plastica rossi impilati, panini al latte con salumi vari, pop corn e patatine.

    Si azzuffarono tra la gente che li incitava. Anzi no, tra le gente che li insultava per aver fatto cadere quel ben di Dio.

    Lucio sapeva che a papà piaceva un pochino, ma quella sera capì che gli piaceva un tantino. E papà capì anche che Lucio era uno stronzo. La mamma capì e in verità anche a lei piaceva e allora quella sera papà la accompagnò fin al portone di casa dove la strada era ciottolata. E proprio come nei film si baciarono accarezzati dalla luna e dalle stelle – e da un meno romantico lampione scassato a luce intermittente – che suggellarono il loro infantilmente adulto fidanzamento. Perché a quell’età basta un bacio per sentirsi fidanzati per sempre e promettersi il futuro. Era un giorno di giugno di fine terza superiore. Avevano 17 anni.

    We, attenzione: non che sia un maniaco sensuale e mi piaccia ripercorrere le tappe d’amore dei miei, ma me le han raccontate tante di quelle volte da pensare, in fondo in fondo, che anche i tuoi genitori sono stati giovani e che hanno avuto proprio una bella storia d’amore. Mi fa anche un bel po’ senso e ribrezzo, ma alla fine ci son nato fuori io. Ma su questo ci torniamo fra poco.

    Dopo quel bacio estivo passarono i rimanenti anni delle superiori insieme, con annesse prime volte, ma poi lei sarebbe andata a fare l’università in città e sarebbe tornata a casa durante i fine settimana e le vacanze. Poi però trovò un appartamento in affitto con altre ragazze e non sarebbe tornata neanche per i fine settimana. In realtà papà, mangiato vivo dall’amore, pensava che avesse trovato un appartamento da condividere con almeno tre nuotatori superdotati pornoattori. O semplici pornoattori. O anche solo superdotati.

    Presumo si logorasse non stop con una roba del tipo: Altro che ragazze, questi arano quando camminano. Mignotta maledetta, mignotta maledetta, mignottone laidissimo.

    Papà era distrutto e piangeva, la mamma pure, ma lui non capiva perché se stesse così dovesse allora partire per forza di cose: Ma cazzo, ma allora rimani qui le diceva ogni volta che la mamma scoppiava a piangere. Insomma, alta psicologia.

    Ma allora mia mamma diceva che era lui che non capiva e allora ciao, si salutarono e la mamma diceva che era meglio andare, che voleva vivere, che era piccola per sprecarsi via in un paesino, che voleva conoscere il mondo fuori e partendo non si sarebbero quasi più visti e questo li avrebbe aiutati a lasciarsi andare e a dimenticarsi, nonostante lui sarebbe stato sempre Lui, e che se poi un giorno si fossero rincontrati vai-te-a-sapere-come-e-dove, allora boh, magari.

    Sì, magari…

    Le solite tremende bugie dette in buona fede (si spera) che diventano le solite tremende illusioni che è bene smettere di cavalcare dopo un po’, vien da dire.

    Ma era inutile e stupido pensarci, diceva mamma, perché le loro strade si dividevano lì e di solito se non quasi sempre quando è così ciao-peppa e mio padre non capiva e piangeva e mia mamma pure. E si salutarono così, dicendosi addio.

    Ma era un arrivederci e l’inizio, come canta quel tale, di un giro immenso prima di ritornare.

    3.

    (Rewind)

    Ah ecco, son figlio unico. A dirla tutta, un po’ mi spiace. Ma i miei hanno avuto dei problemi e a sentir parlare i dottori è già quasi un miracolo che son nato io. E nato sano. Dicevano che la mamma aveva un utero da ottant’enne devastato da Attila e mio padre gli spermatozoi vitali come un bradipo su

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1