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Eseguire l’inatteso. Ontologia della musica e improvvisazione
Eseguire l’inatteso. Ontologia della musica e improvvisazione
Eseguire l’inatteso. Ontologia della musica e improvvisazione
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Eseguire l’inatteso. Ontologia della musica e improvvisazione

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L'improvvisazione musicale è un processo in cui invenzione ed esecuzione coincidono. Questo libro ne spiega l'ontologia, esaminandone le proprietà e gli aspetti teorici. La tesi proposta, entrando nel vivo del dibattito filosofico e musicologico, è che attraverso l'improvvisazione si possa riconfigurare l'ontologia della musica, rendendola coerente con le pratiche artistiche e la loro esperienza estetica. Eseguendo l'inatteso, l'improvvisazione ci fa ascoltare l'inaudita bellezza della musica.
LanguageItaliano
Release dateMay 2, 2016
ISBN9788897527343
Eseguire l’inatteso. Ontologia della musica e improvvisazione

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    Eseguire l’inatteso. Ontologia della musica e improvvisazione - Alessandro Bertinetto

    Bertinetto

    INTRODUZIONE

    La caratteristica fondamentale del fare musica è l’improvvisazione

    Derek Bailey

    L’improvvisazione è la forma più naturale e diffusa di fare musica

    Stephan Nachmanovitch

    Ne Il pensiero dei suoni (Milano, Bruno Mondadori 2012) mancava, per motivi di spazio, un capitolo dedicato specificamente all’ontologia della musica. Questo libro intende espressamente colmare quella lacuna. Il suo taglio è però diverso. Mentre il volume del 2012 era di carattere introduttivo, questo ha natura più marcatamente teorica. Non si limita a presentare e discutere le diverse posizioni filosofiche relative all’ontologia della musica, ma intende difendere due tesi, che s’intrecciano e si accavallano anche nell’ordine dei capitoli. Per un verso, intendo discutere il carattere specifico dell’ontologia dell’improvvisazione musicale. Per altro verso, voglio sostenere come proprio l’improvvisazione, che sfugge alle sistemazioni rigide del mainstream dell’ontologia della musica, ci aiuti a riformare l’ontologia della musica nel suo complesso, stabilendo il primato del performativo, del pratico e dell’estetica sull’ontologia. L’improvvisazione –questa almeno la mia convinzione– rende così un ottimo servizio all’ontologia della musica come ontologia di una pratica artistica.

    Si giustifica così anche l’apparente natura paradossale del titolo. Non sarebbe fuori luogo domandarsi: come si può eseguire l’inatteso? Posso eseguire un’istruzione che è già disponibile, non qualcosa che non solo non c’è, ma neppure è atteso o previsto. In inglese il verbo to perform ha un significato neutro e, magari con l’eccezione relativa alla riproduzione della musica registrata, lo si può usare indifferentemente per tutte le forme del fare musica; il che vale anche per tutte quelle pratiche artistiche, come la danza e il teatro, che, come la musica, sono appunto intese come ‘arti performative’. Invece, il verbo italiano eseguire, ma anche il verbo interpretare (che meglio rende la dimensione creativa dell’attività di uno o più musicisti che suonano un’opera musicale), presuppongono che ci sia già qualcosa (una composizione) appunto da eseguire o interpretare: qualcosa di atteso, anche da parte dell’ascoltatore che conosce il programma del concerto che si appresta ad ascoltare. Invece, nell’improvvisazione –in virtù della coincidenza d’invenzione e performance– è proprio l’inatteso a diventare il clou dell’esperienza estetica, sebbene pure l’affermazione che questo inatteso sia eseguito non possa non suonare ossimorica e addirittura paradossale. Il paradosso si dissolve non soltanto chiarendo, come farò, i presupposti dell’improvvisazione, che –ancorché inattesa– non è ex nihilo; ma anche e soprattutto se si sostiene, come intendo sostenere, che quanto accade nell’improvvisazione è il paradigma di ciò che avviene sempre nell’esperienza musicale, la quale è appunto l’esperienza di una pratica performativa. La musica non è reale come opera (attesa); la musica reale è sempre quella (per principio inattesa) della performance. Anche l’esecuzione o l’interpretazione di un’opera musicale sono di per sé costitutivamente inattese e inattesa è sempre la realtà concreta dell’opera, che vive soltanto nella performance. La logica del rapporto opera/performance così come del rapporto tra le varie opere e tra le diverse performance dev’essere quindi intesa nei termini dell’articolazione (tras)formativa dell’improvvisazione, in cui ciò che accade ora è inaudito, (tras)forma il senso del passato e il suo senso sarà a sua volta (tras)formato da ciò che accadrà dopo. Insomma, quanto accade nel microcosmo di una specifica situazione improvvisativa è il paradigma concettuale per comprendere quanto accade nel macrocosmo dell’ontologia musicale nel suo complesso, laddove questo comporta il primato delle pratiche, della performance e dell’estetica sull’ontologia in tema di filosofia della musica. Almeno, questa è la tesi che cercherò di articolare nel corso del libro.

    Tuttavia, per non illudere il lettore, è bene mettere le mani avanti. Sebbene argomenti che guardando all’improvvisazione possiamo capire il primato dell’estetica sull’ontologia in tema di filosofia dell’arte, questo volume non spinge molto a fondo l’esame filosofico dell’estetica dell’improvvisazione (su cui mi sono comunque già soffermato in altri lavori, qui ogni tanto richiamati). Infatti, al tema specifico dell’estetica dell’improvvisazione (nel contesto generale dell’arte e non soltanto in quello specificamente musicale) dedicherò presto un saggio, già in preparazione, rivolto in particolare a smontare il trito luogo comune della natura imperfetta di questa pratica e ad argomentarne invece il carattere paradigmatico per la creatività artistica.

    Il presente volume ha la seguente articolazione. Nel capitolo 1 presento e discuto, mostrandone i problemi, i modelli più diffusi di ontologia della musica in ambito analitico, quelli basati sull’ideale della fedeltà all’opera (Werktreue). Nel capitolo 2 esamino le specifiche qualità ontologiche dell’improvvisazione musicale, discutendone i principali tipi (non-intenzionale, reattiva, consapevole), i peculiari aspetti teorici e i rapporti con la composizione e l’interpretazione, soffermandomi estesamente anche sulle questioni dell’intenzionalità e dell’espressività. Nel capitolo 3, senza entrare nei dettagli dei diversi generi di improvvisazione nelle varie pratiche musicali, mostro che l’improvvisazione di per sé sfugge a quelle costruzioni ontologiche che riducono la musica nei termini di oggetti (concreti e soprattutto astratti) ripetibili. Sostengo che queste ontologie fedeli all’ideologia della fedeltà all’opera (e in particolare la corrente oggi più in voga: l’ontologia type/token) non sono in grado di afferrare in modo convincente le proprietà ontologiche dell’improvvisazione per riuscire a rendere conto del suo peculiare carattere estetico. Anzi, queste ontologie rendono assai ardua sia la comprensione del carattere estetico dell’improvvisazione, sia quella del significato che l’improvvisazione può avere per la musica nel suo complesso. Il capitolo 4 prosegue questa discussione mediante il confronto tra improvvisazione e registrazione, che propone alcuni interessanti problemi estetici e filosofici. Nel capitolo 5 difendo la tesi che focalizzare l’attenzione sull’improvvisazione, invece che anzitutto sulle opere musicali, è un modo per riconfigurare il discorso dell’ontologia musicale, rendendolo coerente con le pratiche artistiche ed estetiche. L’ontologia della musica costruita a partire dall’improvvisazione mette in luce l’aspetto finzionale/costruttivo del concetto di opera, il carattere energetico della musica come attività che si svolge qui e ora e quindi il primato della performance, della prassi e della loro dimensione estetica. Ciò emerge con particolare vigore, tra l’altro, con la pratica jazzistica della contraffattura. L’indagine sulla contraffattura che svolgo nel cap. 6 mostra, infatti, sia la povertà di quelle ontologie della musica che non riescono a rendersi conto dei propri presupposti ingiustificati sia, ancora una volta, l’interesse che l’improvvisazione può rivestire per un’indagine ontologica della musica esteticamente (ed ermeneuticamente) consapevole. Concludo l’argomentazione generale nel capitolo 7, che è dedicato alla comprensione della normatività, della temporalità e della interattività dell’improvvisazione. Anche grazie alla ripresa di alcuni concetti dell’ermeneutica di Gadamer, sostengo che la normatività improvvisativa è il modello per articolare l’ontologia della musica (e dell’arte) nel suo complesso, in modo coerente con la tesi del carattere (tras)formativo delle opere e delle pratiche musicali. Dimostrando che la logica normativa dell’improvvisazione può essere adottata per impostare l’ontologia della musica nel senso del primato dell’estetica e della pratica artistica, chiudo così il cerchio di tutto il discorso del libro.

    Riassumendo e puntualizzando queste righe introduttive, il mio suggerimento è di guardare alla connessione tra ontologia musicale e improvvisazione in senso inverso rispetto alla via battuta da una parte cospicua delle teorie oggi disponibili nell’ambito dell’ontologia musicale. Invece di provare a incastrare l’improvvisazione musicale in rigide scatole ontologiche precostituite (un’operazione destinata al fallimento), la strategia che intendo seguire consiste nel riconfigurare l’ontologia musicale alla luce di un’esplorazione filosofica dell’improvvisazione. Per evitare inutili fraintendimenti, preciso subito che non ho affatto l’assurda pretesa di identificare la musica con l’improvvisazione. Sosterrò piuttosto quanto segue:

    (1) l’improvvisazione in senso stretto mette in primo piano aspetti importanti della musica– in primis il suo essere energia, attività, performance– che l’indagine ontologica non può e non deve trascurare;

    (2) una nozione estesa di improvvisazione è fondamentale per articolare un’ontologia della musica fondata sulla prassi estetica, secondo cui l’opera musicale è da intendersi come finzione che vela un reale processo di (dis)continua e differenziale (tras)formazione creativa.

    Come qualsiasi pratica di improvvisazione, questo volume ha richiesto molta preparazione, ma in questa forma è una performance del tutto inattesa. I suoi capitoli traggono in parte la loro origine da articoli pubblicati (in inglese, tedesco, francese e italiano) su riviste e volumi collettanei. I capitoli 1 e 5 derivano dalla forte rielaborazione di Musical Ontology. A View through Improvisation, Cosmo. Comparative Studies in Modernism 2, 2013: 81-101. I capitoli 2, 3 e 4 sviluppano, ri-organizzano e integrano con diverse parti originali materiali pubblicati in articoli editi (Improvvisazione e formatività, Annuario filosofico 25/2009 (2010): 145-174; Paganini Does Not Repeat. Improvisation And The Type/Token Ontology, Teorema XXXI/3, 2012: 105-126; Paganini ne répète pas. L’improvisation musicale et l’ontologie type/token, in A. Arbo - M. Ruta (eds.), Ontologie musicale: perspectives et débats, Paris, Hermann/GREAM 2014: 321-367, Improvisation: Zwischen Experiment und Experimentalität?, Proceedings of the VIII. Kongress der Deutschen Gesellschaft für Ästhetik (Experimentelle Ästhetik), 2012; "Mind the gap". L’improvvisazione come agire intenzionale, Itinera. Rivista di filosofia e di teoria delle arti 10, 2015: 175-188) e in corso di pubblicazione (Lespressività nellimprovvisazione musicale, in S. Oliva - C. Serra - S. Vizzardelli (a cura di), Atti del convegno Grammatica della musica, grammatica della percezione, Roma, il Glifo (forthcoming); La sorpresa del suono. Improvvisazione e interpretazione, relazione presentata al convegno Libertà e Legiformità dell’Esperienza nei linguaggi e nella prassi della musica, Macerata, 12 novembre 2015). Il capitolo 6 è una versione, abbastanza fedele, di Improvvisazione e contraffatti. Circa il primato della prassi nell’ontologia della musica, in A. Arbo and A. Bertinetto (eds.), Ontologie musicali, special issue of Aisthesis 6/2013: 101-132 e di una sua parziale traduzione tedesca. Il capitolo 7 integra e rielabora materiali differenti, in parte pubblicati in alcuni saggi (Performing Imagination. The Aesthetics of Improvisation, Klesis - Revue philosophique 28, Imagination et performativité, 2013: 62-96; Formatività ricorsiva e costruzione della normatività nell’improvvisazione, in A. Sbordoni (ed.), Improvvisazione oggi, Lucca, LIM 2014: 15-28; Improvisation: Zwischen Experiment und Experimentalität?, cit.; Jazz als Gelungene Performance. Ästhetische Normativität und Improvisation, Zeitschrift für Ästhetik und allgemeine Kunstwissenschaft 59/1, 2014: 105-140; "Do not fear mistakes – there are none" (Miles Davis). The Mistake as Surprising Experience of Creativity in Jazz, in M. Santi - E. Zorzi (eds.) Education as Jazz – Interdisciplinary Sketches on a New Metaphor, Newcastle upon Tyne, Cambridge Scholar Publishing 2016: 85-100), ma anche in questo caso molte parti sono presentante qui per la prima volta.

    Il lavoro di ricerca di cui il volume è il parziale risultato si è giovato di un soggiorno di studio presso la Freie Universität di Berlino, finanziato dalla Alexander von Humboldt Stiftung (2011-2013) e della partecipazione al progetto Aesthetic experience of the arts and the complexity of perception del Ministerio de Economía y Competitividad (Spagna: sigla FFI2015-64271-P), che ringrazio.

    Sono molto grato alle dottorande e ai dottorandi del Corso del Dottorato di Ricerca Storia delle società, delle istituzioni e del pensiero. Dal Medioevo all’Età Contemporanea delle Università di Udine e Trieste, che hanno avuto la voglia di leggere e discutere con me una precedente versione del libro, proponendomi molte osservazioni utili a migliorarne forme e contenuti: Mirio Cosottini (allievo e maestro), Francesca Longo, Emilia Marra, Elena Nardelli, Nicoletta Taurian, Valentina Zampieri e Lorenzo L. Pizzichemi. Tra i colleghi con cui ho avuto la fortuna di vagliare la bontà delle idee qui proposte, menziono Luca Cossettini, Gesa zur Nieden, Alessandro Arbo e Ilaria Riva che hanno letto il testo e con i loro commenti e le loro critiche hanno sollecitato l’approfondimento della riflessione e la precisazione dell’argomentazione. Li ringrazio di cuore, così come ringrazio Silvia Vizzardelli, che ha voluto questo libro nella sua collana e l’ha aspettato con pazienza.

    Questo libro è dedicato a Leila e a Elisa, che ogni giorno mi sorprendono.

    Avigliana (TO), 18 aprile 2016

    I.       L’ontologia analitica della musica

    1.         Arte e ontologia

    Secondo Achille Varzi l’ontologia si interroga su ‘che cosa c’è’, mentre la metafisica, come ricerca sulla natura ultima delle cose, studia ‘che cos’è quello che c’è’. L’ontologia sarebbe in questo senso un capitolo preliminare della metafisica (Varzi 2008: 12). Applicando queste definizioni all’arte, risulterebbe, quindi, quanto segue: prima si stabilisce mediante una ricognizione ‘ontologica’ che ci sono cose che chiamiamo opere d’arte; poi la metafisica si domanda che cosa sono le cose che chiamiamo opere d’arte. Tuttavia, proprio in rapporto alla filosofia dell’arte, nel dibattito contemporaneo la differenza tra le due discipline (ontologia e metafisica) è in molti casi talmente attenuata da scomparire del tutto. Spesso i filosofi (in particolare analitici) dell’arte non fanno questa differenza e parlano indistintamente di metafisica od ontologia (cfr. Bartel 2011; Currie 1989; Davies 2009; Dodd 2007; Kania 2006, 2008a e 2008b; Kraut 2007; Levinson 1990; Maitland 1975; Nussbaum 2003; Predelli 2001; Thomasson 1999; Young-Matheson 2000; Zangwill 2001). Semmai la differenza sembra spesso concernere il livello di indagine delle proprietà costitutive di un oggetto o di una pratica artistica: mentre la fenomenologia descrive le proprietà di un oggetto nel loro apparire a un soggetto, l’ontologia descrive le proprietà manifeste degli oggetti indipendentemente dai soggetti; la metafisica si spinge sino ai loro fondamenti non percepibili, acquisendo lo statuto di ontologia fondamentale e dedicandosi pertanto allo studio di concetti generali come quelli di oggetto, evento, qualità, e di relazioni come costituzione, partecipazione, dipendenza, parte-tutto, ecc.

    Una tesi generalmente condivisa dagli ontologi dell’arte è che prima, e allo scopo, di poter giudicare, comprendere e apprezzare dal punto di vista estetico le opere d’arte, così come le diverse pratiche e i diversi generi artistici, in modo da poter risolvere problemi concreti –quali per es.: come eseguire il restauro di un’opera d’arte, come interpretare una canzone, come giudicare l’esecuzione musicale di una sonata di Beethoven, se abbattere un palazzo storico–, occorre determinare in generale che cosa sono (ovvero in che consistono) le opere d’arte e quindi in particolare che cosa sono le opere architettoniche, le opere pittoriche, le opere musicali, e così via.

    Più precisamente, la tesi (esemplarmente presentata da Kraut 2007) è la seguente. La teoria estetica è descrittiva, non normativa. Deve spiegare il mondo dell’arte, codificando i canoni di legittimità operanti nelle diverse pratiche artistiche. Il suo compito non è quello di proporre criteri normativi di valutazione. Piuttosto, per capire quali siano le specifiche norme di valutazione adatte ai diversi generi artistici, per es. per adottare criteri di valutazione adeguati a un tipo specifico di musica, ma non ad altri, si deve ricorrere preliminarmente all’ontologia (o alla metafisica). Infatti, come sostiene Kraut (Kraut 2007: 77),

    […] le asserzioni normative sul modo appropriato per accostarsi alla musica richiedono un fondamento metafisico: esse acquisiscono la loro forza normativa da asserzioni più basilari circa quali proprietà possieda effettivamente la musica, o quali proprietà meritino attenzione, e perché. In altre parole: le raccomandazioni sulla ‘percezione musicale appropriata’ richiedono assunzioni metafisiche circa la natura della musica (ovvero circa quali proprietà essa possiede) e/o circa la relativa importanza di queste proprietà.

    Ne deriverebbe la dipendenza degli aspetti normativi dell’esperienza dell’arte dall’ontologia e quindi il primato dell’indagine ontologica sull’interpretazione e sulla valutazione delle opere. Infatti, per poter giudicare per es. un’opera come epigonale o innovativa e un’esecuzione come corretta o scorretta, oppure come audace o tradizionale, occorre sapere quali siano le loro proprietà. Se per es. abbiamo da valutare un quadro, si tratta dunque di capire quanto sia dipinto e quanto sia cornice (Kraut 2007: 117). Ciò comporta insomma che l’ontologia è parte delle pratiche artistiche (Kraut 2007: 169). È l’ontologia che offre i "fondamenti di legittimazione delle nostre pratiche condivise e per questo a essa dobbiamo rivolgerci per capire per es. che […] la demolizione degli edifici storici è inappropriata a causa della connessione essenziale delle strutture architettoniche al nostro passato culturale condiviso". Ancora, soltanto l’ontologia dell’architettura può dirci se un certo restauro sia o meno lecito (Kraut 2007: 171).

    La questione primaria della filosofia dell’arte consisterebbe perciò nel capire che cos’è l’arte, che cosa sono i diversi generi artistici, che cos’è un quadro, che cos’è un’opera musicale, quali sono le loro proprietà. Secondo gran parte dei difensori del primato dell’ontologia sull’estetica in tema di filosofia dell’arte, tali domande ontologiche sembrano inoltre richiedere risposte metafisiche, ovvero relative all’ontologia fondamentale, perché il ricorso a descrizioni circoscritte agli oggetti empirici e all’apparizione fenomenica delle opere d’arte non riuscirebbe a soddisfare l’esigenza di determinare e spiegare in modo sufficiente le proprietà ontologiche cui riferire i nostri giudizi estetici. Infatti, è possibile che non ci siano differenze percettive tra un’opera d’arte e un oggetto ordinario e che la loro differenza vada allora ricercata a un livello più ‘profondo’, inaccessibile ai soli sensi (su questa possibilità Arthur Danto ha costruito l’edificio della sua filosofia dell’arte: cfr. Danto 2008).

    Dunque, secondo alcuni filosofi dell’arte, per essere adeguata a supportare interpretazioni e valutazioni successive, la descrizione degli oggetti che identifichiamo (percettivamente o meno) come opere d’arte richiede un’indagine di tipo metafisico che ci dica che tipo di oggetto è quell’oggetto che chiamiamo opera d’arte o performance artistica: per es. il quadro Guernica di Picasso, la Terza Sinfonia di Brahms, la scultura Il Pensatore di Rodin, la poesia A Silvia di Leopardi oppure l’installazione di Richard Serra The Matter of Time, il film Apocalypse Now di Francis Ford Coppola, un assolo di tromba di Enrico Rava al concerto di venerdì sera, un balletto di danza contemporanea, e così via. Spesso, chi (anche al di fuori del dibattito estetico analitico) ha intrapreso ricerche metafisiche di questo tipo, ha utilizzato coppie di concetti metafisici come particolare/universale, concreto/astratto, reale/ideale e i loro incroci per determinare che cosa sono quegli oggetti ed eventi che chiamiamo opere d’arte e performance artistiche. Inoltre, alcuni hanno proposto ontologie metafisiche dualiste, individuando una differenza fondamentale tra opere d’arte capaci (almeno apparentemente) di avere diverse occorrenze (come il romanzo I Promessi Sposi di Manzoni, che è disponibile in diversi esemplari; una sinfonia di Beethoven, eseguibile più volte; Apocalypse Now, distribuito in più copie; Il pensatore di Rodin, che può avere diversi calchi) e opere d’arte (di nuovo, almeno apparentemente) a occorrenza unica, cioè istanziabili in un unico oggetto (Guernica di Picasso). Altri hanno invece sostenuto teorie alternative: ad esempio teorie moniste, secondo cui tutte le opere d’arte sono tipi di azione multi-istanziabili, in quanto in grado in linea di principio, se non di fatto, di avere molteplici occorrenze (cfr. Currie 1989), oppure teorie secondo cui l’opera d’arte è la concreta performance da parte di un artista (Davies 2004).

    Il panorama delle diverse posizioni in tema di ontologia dell’arte è assai ampio e complesso. Dato che il lettore può già disporre di diversi strumenti per farsene un’idea precisa (eccone una selezione: Carroll 2000; Warburton 2004; Focosi 2012; D’Angelo 2014), piuttosto che esplorarne e discuterne qui i dettagli mi rivolgerò subito alle questioni connesse alla specifica pratica artistica che è oggetto di questo studio: la musica, l’arte dei suoni (cfr. Bertinetto 2012c: 17-32).

    2.         Musica e ontologia

    La musica offre allo studioso di ontologia dell’arte un campo d’indagine molto ricco e vivace, per di più connesso a esperienze che possiamo fare quotidianamente, senza grandi sforzi. Comunemente ascoltiamo, dal vivo o mediante registrazioni, esecuzioni di concerti, sinfonie, quartetti, canzoni. Nella grande maggioranza dei casi facciamo comunque esperienza delle esecuzioni di composizioni musicali. La pratica che ha orientato la produzione e la ricezione della musica in Occidente, almeno a partire dall’inserimento della musica nel novero delle belle arti, e cioè almeno nella tradizione della cosiddetta musica classica, è quella della composizione di opere che devono essere eseguite.

    Anche se esistono pratiche diverse (l’improvvisazione è tra queste quella più significativa per rilevanza storica, ambizioni estetiche e peso filosofico), nello scenario standard le opere musicali –come le Cantate di Bach, i Quartetti di Haydn, le Sinfonie di Beethoven, i Notturni di Chopin nonché, almeno per certi versi, gli standard di Col Porter e le canzoni dei Beatles e di De André– sono progettate per essere eseguite –o riprodotte, nel caso delle opere rock (cfr. Thom 1992; Davies 2001; Davies 2011a). Un compositore produce un’opera musicale e questa è poi accessibile al pubblico attraverso le sue esecuzioni. Ciò significa che, per essere correttamente percepite e apprezzate, queste opere devono essere eseguite. Sono ‘oggetti’ disponibili grazie all’esecuzione e attraverso l’esecuzione (o, nel caso delle registrazioni, attraverso la riproduzione). Inoltre, almeno generalmente, possono essere, e sono destinate a essere, eseguite più volte.

    Parlo di ‘scenario standard’ perché possono esserci opere musicali composte per occasioni specifiche e non destinate a essere eseguite più volte (anche se poi lo sono de facto: come Scherzo di Giuseppe Balducci (1746-1845), preparata per l’onomastico della Marchesa nella cui casa faceva il precettore, e poi riproposta anche in seguito), così come opere musicali che, in pratica, non possono essere eseguite più volte, perché cadute in oblio o perché nessuno potrà eseguirle in futuro (per esempio, perché tutte le partiture sono andate distrutte e se ne è irrimediabilmente persa la memoria); oppure, ancora, perché composte ed eseguite all’impronta, come accade con l’improvvisazione (il cui status di opera è però dibattuto: cfr. cap. 3). Una questione diversa, e più fondamentale, è se un’opera musicale completamente dimenticata e non recuperabile sia ancora un’opera musicale; ma per rispondere a questo quesito, abbiamo bisogno di una teoria dell’opera musicale. Se, come sosterrò alla fine di questo lavoro, l’estetica è il presupposto dell’ontologia, la risposta dev’essere negativa.

    L’opera musicale ha perciò un rapporto intimo con le sue esecuzioni, attraverso le quali è apprezzata. Tuttavia, le opere musicali non sono identiche alle loro esecuzioni. Accediamo all’opera musicale attraverso l’esperienza dell’ascolto di esecuzioni musicali (meglio precisarlo subito: quando ciò che ascoltiamo non è un’improvvisazione). Ma a che cosa abbiamo in realtà accesso attraverso l’esecuzione di un’opera musicale? Che cosa sono queste entità che chiamiamo opere musicali?

    Per gli ontologi dell’arte rispondere a questa domanda è rilevante per la ragione poco fa spiegata: per poter fondare i nostri giudizi apprezzativi sull’opera musicale e sulla sua esecuzione è fondamentale sapere che cosa esse siano, ovvero in che cosa consistano e come si possa identificare l’opera. Altrimenti non si capirebbe se certe proprietà che si potrebbero cogliere all’ascolto facciano parte o meno dell’opera e siano rilevanti per giudicarla (Arbo 2014a). Detto in altre parole, non siamo in grado di giudicare in modo appropriato l’opera musicale e la sua performance, se non possiamo determinarne il rapporto reciproco. Infatti, per sapere se l’esecuzione di un’opera musicale è corretta o buona o audace o innovativa, dobbiamo sapere se essa presenti adeguatamente l’opera musicale; tuttavia, se non sappiamo che cos’è l’opera musicale, non possiamo determinarne il rapporto con l’esecuzione e non possiamo sapere in che senso questa la possa presentare in modo corretto, buono, audace, innovativo. Quindi, la ragione spesso addotta a sostegno del primato dell’ontologia sull’estetica in tema di musica è la seguente: per riuscire a esprimere giudizi fondati sulle esecuzioni di cui facciamo esperienza quando ascoltiamo la musica, occorre sapere che cos’è l’opera musicale e come può essere individuata.

    In prima battuta non sembra difficile dire che cos’è un’esecuzione. Uno o più musicisti produce sequenze di suoni e silenzi che noi ascoltiamo per un certo lasso di tempo. L’esecuzione ha dunque una collocazione spazio-temporale: l’esecuzione di un’opera musicale è un evento individuabile spazio-temporalmente. Possiamo individuare le esecuzioni attraverso indicazioni come quella sequenza di suoni e silenzi prodotta da Tizio e Caio il giorno 18 aprile alle ore 21 al teatro Giacosa di Torino.

    Rimane da capire in che senso ascoltando una certa sequenza di suoni ascoltiamo la Quinta Sinfonia di Beethoven o Across the Universe dei Beatles. In che senso cioè possiamo dire che facciamo esperienza non solo di una particolare esecuzione o registrazione, ma anche dell’opera eseguita o registrata? A livello intuitivo non è affatto difficile capire che cosa significhi "ascoltare la Quinta Sinfonia di Beethoven: significa ascoltare un’esecuzione della Quinta Sinfonia di Beethoven". Lo stesso vale per Across the Universe: ascoltare Across the Universe equivale ad ascoltare la terza traccia dell’album Let it be (1970), oppure, ma questo complica già le cose, una sua cover, come quella offerta da David Bowie nell’album Young Americans (1975).

    Tuttavia, sembra ovvio distinguere tra l’opera e la performance, tra l’opera e la traccia o registrazione e anche tra una canzone e una sua cover (limitatamente al rapporto opera/esecuzione, una buona introduzione al tema si trova in Kivy 2007a: 243-269). Quindi ascoltare l’esecuzione della Quinta Sinfonia di Beethoven è e non è (come) ascoltare la Quinta Sinfonia di Beethoven. Ascoltare la registrazione beatlesiana di Across the Universe o la sua cover di Bowie è e non è (come) ascoltare Across the Universe. Facciamo un semplice esempio, ignorando per ora registrazioni e versioni e soffermandoci esclusivamente sul rapporto opera/esecuzione. L’esecuzione londinese di ieri sera della Quinta Sinfonia di Beethoven non è la Quinta di Beethoven. Piuttosto, tale esecuzione ha offerto un’interpretazione di quest’opera, un’interpretazione diversa dall’interpretazione della stessa opera che ha avuto luogo lo scorso anno a Berlino. Le due esecuzioni sono diverse per varie ragioni. Sono state prodotte in tempi diversi in luoghi differenti. Non hanno avuto la stessa durata. Una delle due è stata, diciamo, potente ed elegante, mentre l’altra era pedante e noiosa. La seconda esecuzione può quindi essere intesa come una performance pedante e noiosa della maestosa Quinta di Beethoven. Le cose si possono però complicare ulteriormente. Infatti, possiamo ipotizzare che l’interpretazione elegante sia stata eseguita da un eccellente sintetizzatore e che la performance pedante sia stata eseguita da un’orchestra tradizionale costituita da strumenti quali violini, violoncelli, oboe, ecc. Due esecuzioni molto diverse avrebbero quindi offerto due interpretazioni molto diverse della Quinta Sinfonia di Beethoven. Probabilmente molti sarebbero portati a ritenere una di esse –l’esecuzione elegante– scorretta, poiché Beethoven non poteva avere l’intenzione di affidare l’esecuzione della sua opera a un sintetizzatore. Non sarebbe però del tutto inaccettabile considerare scorretta anche l’esecuzione pedante. Infatti, è ragionevole pensare che Beethoven non poteva avere l’intenzione che la sua opera fosse eseguita in modo pedante. Se occorre prendere in considerazione le intenzioni dell’autore, allora può darsi che entrambe le ipotetiche esecuzioni della Quinta Sinfonia di Beethoven siano da ritenere scorrette.

    Altra questione è se le intenzioni del compositore –spesso difficilmente decifrabili– debbano avere sempre l’ultima parola: nel corso di questo libro argomenterò che non è così, perché occorre tener conto anche, e soprattutto, dei gusti e delle intenzioni di interpreti e pubblico e, più in generale, del particolare contesto dell’evento performativo: cfr. Taruskin 1995.

    Eppure, in entrambi i casi è stata eseguita la stessa opera, almeno secondo il senso comune. Com’è possibile? Ricapitoliamo quanto si è detto sinora.

    – Ascoltare l’esecuzione della Quinta Sinfonia di Beethoven è come ascoltare la Quinta Sinfonia di Beethoven, perché questa non può essere ascoltata se non attraverso le sue esecuzioni.

    – Ascoltare l’esecuzione della Quinta Sinfonia di Beethoven non è come ascoltare la Quinta Sinfonia di Beethoven, perché l’opera e le sue esecuzioni non sono la stessa cosa.

    A supporto di queste tesi possiamo portare (1) (quella che sembra) una credenza indiscutibile di senso comune e (2) un ragionamento su quelle che sembrano le proprietà attribuibili a opere ed esecuzioni.

    (1) Sembra ovvio che l’opera musicale possa essere ripetuta in diverse esecuzioni. Avremmo cioè un’unica opera, sempre identica a sé, che ha diverse esecuzioni. È la tesi da cui muovono quelle che possiamo chiamare le ‘ontologie della Werktreue’, ovvero tutte quelle ontologie (nominaliste e strutturaliste) che costituiscono il mainstream dell’ontologia analitica della musica. A partire dall’assioma, assunto come indiscutibile, della ripetibilità dell’opera senza perdita di identità, esse spiegano la relazione tra l’opera e le sue esecuzioni, dando per scontata la validità normativa dell’ideale della fedeltà (Treue) all’opera (Werk) da parte delle esecuzioni, un ideale impostosi in un’epoca storica determinata (che per molti coincide con l’età beethoveniana) e che nel XX secolo ha trovato terreno fertile nel movimento dell’esecuzione ‘storicamente autentica’ con strumenti d’epoca (che ha difeso l’esigenza di ricostruire le condizioni esecutive originarie dell’epoca del compositore), pur cominciando a perdere mordente normativo con le avanguardie novecentesche (cfr. Pestelli 1991; Goehr 1992; Taruskin 1995). Qui, come vedremo (in particolare nei capitoli 5-7), risiede il problema di gran parte della contemporanea ontologia della musica.

    La ripetibilità dell’opera sembra valere anche per la musica registrata: la traccia registrata, su supporti diversi quali LP, CD, MP3, può ricevere diverse riproduzioni (e questo comporta notevoli cambiamenti qualitativi anche nelle modalità di ascolto: l’MP3, per es., lo rende sempre più privato e parcellizzato: cfr. Distaso 2011). In questo caso abbiamo però potenzialmente a che fare con tre se non con quattro elementi, e non semplicemente con due: l’opera (la canzone), l’eventuale versione o l’eventuale cover, la traccia registrata, la riproduzione (sull’ontologia della cover cfr. Senaldi 2011; Magnus-Magnus-Mag Uidhir 2013; Varzi 2013). Come già osservato, per non complicare subito eccessivamente il discorso, mi limiterò, almeno inizialmente, a considerare soltanto il classico rapporto tra opera ed esecuzione. Peraltro, è questo rapporto a orientare la maggior parte delle indagini di ontologia musicale, spesso in modo troppo esclusivo e ideologicamente prevenuto.

    (2) Inoltre vogliamo poter dire che l’opera e la sua esecuzione (e anche la canzone registrata e la sua riproduzione) hanno alcune proprietà in comune, ma non altre. Infatti, l’opera musicale può essere stata composta a Vienna, eseguita simultaneamente a Parigi e Londra, ed essere l’ultima delle produzioni giovanili del compositore. Sembra ovvio che nessuna di queste proprietà è attribuibile alle sue

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