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Il Signore dei sogni
Il Signore dei sogni
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Il Signore dei sogni

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About this ebook

Il Signore dei sogni è nervoso. Qualcuno sta minacciando la stabilità di tutto il Mondo onirico da lui creato. Due entità misteriose appaiono in Morphiria, una proferendo minacce contro di lui e l'altra destabilizzando l'intero tessuto dei sogni. Inoltre, una Indonesiana in grado di avvertire la sua presenza, uno spagnolo dalla mente prodigiosa e uno psicologo si ribellano al suo dominio. Tra entità e persone reali, pensiero e materia, nasce uno scontro che si risolverà con la scoperta del segreto fino ad allora meglio custodito dal Demiurgo. 

Claudio Piras Moreno è attore, poeta e scrittore. Ha svolto i lavori più disparati. Ha collaborato con la compagnia teatrale La Nuova Complesso Camerata e con altre compagnie. Ha pubblicato Il crepuscolo dei gargoyle (romanzo fantasy, 2011), Il Signore dei sogni (romanzo metafisico luglio 2011), la raccolta di racconti L'icore umano (novembre 2012). Il racconto che dà il titolo alla raccolta aveva vinto il secondo premio al concorso "Lettere in aria" del 2011. Ha pubblicato anche una raccolta di poesie intitolata Mare di ombre (giugno 2013). Nel 2011 ha scritto Macerie, per cui l'anno dopo ha firmato con un importante agente letterario. Pubblicato inizialmente con un editore (gennaio 2014), l'anno dopo ha ottenuto la rescissione per pubblicarlo in proprio (2016). Di recente ha pubblicato il romanzo In fondo al mare la luna (2018). Nel 2019 la traduzione di Zarco, un romanzo di Ignacio Manuel Altamirano, padre della letteratura messicana, e l'anno dopo Clemencia (2020), sempre di Altamirano. Claudio Piras Moreno ha inoltre ricevuto menzioni speciali ed è stato pubblicato in antologie di poeti contemporanei. Nutre un forte interesse per la letteratura, la filosofia e l'economia. Per anni ha praticato karate e trekking. Scrive e collabora con diversi blog letterari e periodici online.
LanguageItaliano
Release dateMar 15, 2013
ISBN9788867556632
Il Signore dei sogni

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    Il Signore dei sogni - Claudio Piras Moreno

    Il Signore dei sogni

    Claudio Piras Moreno

    Autore: Claudio Piras Moreno

    Titolo: Il Signore dei sogni

    © Tutti i diritti riservati all’Autore

    Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta senza il preventivo assenso dell’Autore.

    SCHOPENHAUER

    Il sogno è una breve follia, la follia un lungo sogno.

    CLAUDIO PIRAS MORENO

    Problemi, misteri e dubbi non esistono, sono solo prodotti della nostra mente.

    In copertina: https://pixabay.com/it/fantasia-vagabondo-scultura-2925250/

    Sommario

    1

    1

    6

    8

    12

    14

    17

    23

    29

    33

    37

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    51

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    129

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    146

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    202

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    227

    Il castello onirico

    Il Signore dei sogni sedeva sul suo scranno, nel Castello brulicante di servitori irrequieti. Qualcosa innervosiva il Padrone, e il Mondo onirico ne subiva le conseguenze: tutto era più scuro e spettrale del solito. I grandi blocchi in alabastro vibravano, e i grandi arazzi pulsavano, animandosi d’improvviso. In uno in particolare, due manigoldi torturavano e poi impiccavano un giovane e sofferente cavaliere. La grande sala del trono si stringeva sui suoi occupanti come volesse soffocarli. Le ombre delle statue, dei candelabri, e del trono, si allungavano e ritraevano in modo minaccioso, facendo sì che i blocchi d'alabastro nero grattassero su sé stessi con stridio inquietante e che l’alto soffitto tendesse improvvisamente a scomparire o a gettarsi verso il basso.

    Un incubo attraversò la sala al trotto. Era una sorta di uomo lupo, grosso e peloso, che correva tenendo penzoloni le braccia e mostrando i denti a chiunque gli si parasse dinnanzi. Era il servo preferito del proprietario del castello.

    «Padrone...» iniziò cupo, raggiungendo l’uomo nel trono di ossidiana, «cosa perturba la vosstra illimitata prressenza?»

    Il re del castello si sollevò di scatto. L’alta e magra figura raggiunse il licantropo e una mano ossuta si appoggiò sulla sua spalla provocandogli un tremito e un istintivo rizzarsi del retrorso. Gli occhi si abbassarono in segno di sottomissione.

    «Qualcuno si sta opponendo a me. Non capisco che intenda fare... sembra volersi portar via qualcosa...» Non terminò. L’uomo lupo aveva capito. Nessuno poteva sottrarre nulla dal Mondo onirico, il suo padrone era molto geloso delle sue creazioni.

    Mai rubare al Signore dei sogni. Questa era la prima legge. Gli occhi malvagi del licantropo rotearono pregustando quel che sarebbe accaduto.

    «Capissco.» grugnì. «In quale ppunto del Mondo Tangibile?»

    «Esattamente nel punto in cui si trova in questo momento il nostro ago focalizzatore.» rispose secco il Signore dei sogni tirandosi un lembo del lungo mantello nero per coprire l’antiquato frac.

    «Aaarrrf, per quesstto ha dato quello scatto improvviso poco fa? Lo sstavo appunto osserrrvando… auuuh... quando ha fatto quel salto!»

    Un antico organo iniziò a suonare in fondo alla grande sala e le pareti e l’alta volta presero a muoversi al ritmo rapido e spasmodico della musica. Gli incubi presero a deambulare come barche di carta in balia delle onde – l'acqua – che era solo pensiero, le tracimava e poi le affondava, ma queste riemergevano con movimenti convulsi e scattosi. Tutto si dilatava e retrocedeva come il flusso e il riflusso di quel mare inquieto. Nel buio, illuminato solo scarsamente dai pochi candelabri, quell’avanzare e retrocedere era ancor più assurdo e allarmante. Quel suono malefico era come una droga che tormentava la mente con strane allucinazioni e allo stesso tempo infondeva un umore livido e funesto. Nel castello si respirava aria di vendetta. Era da molto tempo che nessuno provocava un’ira simile.

    Una ballerina di flamenco iniziò a ballare al ritmo di quella sinistra melodia. Il lungo vestito rosso a frange nere sventolava sinuoso per tutta la sala e i suoi piedi svelti scandivano il ritmo picchiettando potenti sul suolo di pietra e diffondendo un’eco forte e vibrante. La ballerina faceva giravolte e inchini di fronte alle più spaventose creature: vampiri, licantropi, arpie, bianche dame dall’aspetto spettrale e alcuni demoni; c'era persino un Frankenstein dal corpo deforme e lo sguardo allucinato. La danza era avvincente e ipnotica: le fiammelle ardenti nei candelabri sospesi, seguivano quel movimento ammaliate. Il duro battere di piedi dava vita al pavimento che pulsava e gemeva, quasi fosse vivo egli stesso. Pareva di sentirli quei gemiti e ai presenti ciò procurava un piacere perverso, al quale reagivano con sussurri e respiri profondi.

    L’espressione passionale della ballerina giocava con quel riverbero sonoro, con quei gemiti e quei sospiri. Gli occhi scintillavano come a mimare il tremolio delle fiammelle, e la potenza di quel corpo magro ma muscoloso, veniva esaltata dal gioco di chiaroscuri, di ombre e di fiamma, di movimenti armonici e isterici. Era come guardare una gitana in un campo sperduto dell’Andalusia che ballava per il suo amato.

    Nessun uomo le si sarebbe potuto negare. Di carnagione morena e dai lunghi capelli neri legati nella tipica pettinatura delle donne del suo popolo, la donna contraeva i muscoli delle gambe nel sadico proposito di ferire il marmo del pavimento e farlo sprofondare fino al centro della terra. All’improvviso Rush si separò dal suo padrone, che si era preso la testa tra le mani come colto da una fitta lancinante. La bestia afferrò la ballerina sul finire di una giravolta. La morse sul viso strappandole buona parte del volto, e le spezzò la schiena. Proruppe un rumore sordo. La ballerina non ebbe modo nemmeno di proferire lamento, il sangue schizzò da tutte le parti, imbrattando il suolo e arrivando fin quasi ai piedi del trono. Con uno scatto rabbioso Rush la lasciò cadere riversa sul pavimento, mentre gli altri incubi si avvicinavano famelici.

    Una salamandra gigante, uno dei simboli preferiti del Signore dei sogni, passò in mezzo a loro andandosi ad accoccolare ai piedi del trono. Vicino al suo Re.

    «Iniziava a infastidirmi.»

    «Lo so. Ho s-sentito il suo bisogno di requie.» rispose il comprensivo servitore tornando al suo fianco.

    Il Signore dei sogni si rilassò un poco, anche se parte della sua mente era impegnata altrove; si sentiva bene in mezzo a quei mostri. Guardò Frankenstein, le arpie e i demoni. Erano servitori fedeli e la loro diversità non lo spaventava. Anzi, li aveva ricreati nel suo mondo perché potessero prendersi una rivincita sull’umanità.

    Il gigante di metallo e carne ricucita lo guardò come si guarda un padre. I suoi occhi trasmettevano molta più umanità di quelli della maggior parte della gente della Terra. Essi mostravano la sofferenza di chi per tutta la vita era stato oggetto di scherno, addirittura ripudiato, odiato e temuto per il suo aspetto; fino a che non era diventato quello che gli altri già credevano che fosse. Aveva tentato di non convertirsi in tale abominio, ma una volta compreso che non sarebbe servito a nulla, perché nelle persone il pregiudizio e il sospetto sono sentimenti talmente radicati da non poter essere estirpati da alcuna prova contraria, per quanto inequivocabile, a quel punto, nulla a lui era più importato. Tanto lo avrebbero perseguitato comunque. I mostri li creano le persone, sono loro i veri mostri. Il Signore dei sogni gli stava dando la vita e le possibilità che mai gli erano state concesse. Perché lui sapeva, capiva, vedeva ciò che nessun altro era capace di vedere. Sempre ci era riuscito, e poi in fondo era uno di loro. Anche con lui la gente era stata ingiusta.

    Quando per strada Lui passava i cani abbaiavano e gli infanti piangevano, nella loro quasi assenza di coscienza avvertivano il peso dei suoi pensieri.

    L'anatema della comprensione

    Madrid - Nacho stava seduto in fondo all’ultimo vagone della linea sei, quando la ragazza e l’uomo entrarono. Lei, passò per la porta centrale, lui da quella in fondo, un momento prima che si chiudesse. L’uomo diede un solo veloce sguardo.

    Il pesante mezzo partì fischiando. Al suo interno la temperatura era afosa e gli odori si mischiavano in modo nauseante. Puzza di sudore, di profumi scadenti, tanfo di cherosene e olio bruciato, di cemento armato; tutti assieme questi odori si univano in un miscuglio inconfondibile che saturava l’aria, tipico delle metropolitane di tutto il mondo. Per fortuna era una notte dei primi di ottobre, e nel vagone c'erano solo poche persone; ritardatari che rientravano a casa dopo aver passato l'intera serata nelle zone della Movida madrileña.

    Nei vagoni un signore anziano in giacca e camicia fingeva di leggere un giornale per dissimulare una sbronza latente presa con degli amici in un bar di Alonso Martinez. Un ragazzo, di una ventina d'anni, leggeva invece un libro di José Saramago. La lettura era appassionata e solo di tanto in tanto guardava intorno come per cercare conferme di quanto stava leggendo, come se il libro gli stesse descrivendo ciò che aveva intorno. Era stato a cena fuori con una ragazza, sarebbe stato normale pensare a lei, invece si era fatto assorbire dal romanzo e ad altro non pensava.

    Due uomini scuri in volto si guardavano intorno con lo sguardo perso, senza proferire parola, immobili come statue di cera. Uno in particolare, se lo si osservava era lì, ma nel momento stesso in cui ci si voltava era sparito, cessava di esistere.

    Nel vagone in cui c'erano Nacho, la ragazza, lo strano individuo e un vecchio che pareva un barbone, due signore parlavano fittamente tra loro. Una era cuoca in un ristorante nel barrio del Pilar. L'altra lavorava all'aeroporto di Barajas. Erano vicine di casa e spettegolavano senza ritegno della figlia di una loro conoscente.

    Era stata la droga a ucciderla. Aveva conosciuto uno più grande di lei che si bucava. L’aveva convinta a drogarsi e probabilmente a prostituirsi. La droga uccide e non è facile uscirne. Poverina, dicevano. Tattam... tattam...

    Intanto il metrò correva, arrivando a un’altra fermata. Qualcuno scese, altri salirono. Scese anche il vecchio con la sbronza e da come ciondolò prima d'aver ragione dell’uscita, fu evidente a tutti la portata della sua ubriacatura. Nacho osservava tutto, pensando a milioni di altre cose, ascoltava le conversazioni delle due donne presenti e intanto leggeva un libro di Gabriel García Márquez. L’uomo in fondo non accennava a muoversi e guardava fisso il finestrino di fronte. Ma un attimo prima che si aprissero le porte si voltò nervoso verso la ragazza. Lui sudava. Lei era allegra e fresca. Era seduta di fronte a Nacho e dalla sua pelle emanava un profumo al cocco. Certi odori a volte si attaccano alle persone in modo singolare, tramestandosi con il loro umore e il loro carattere, divenendone parte.

    La ragazza indossava un vestito leggero in cotone, bianco e lungo alle ginocchia. Era mora e con occhi verdi, truccati per risaltare. I capelli erano ricci e lunghi. Aveva un bel fisico. Né troppo alta né troppo magra. Una ragazza dall'aspetto piacevole insomma.

    L’avevano portata diverse volte in dei centri, ma lei era sempre fuggita. Con lui. Una giovane così bella, rovinarsi in quel modo. Con un drogato. Poverini i genitori, una vita di lavoro e sacrificio. Le avevano dato tutto. Bel ringraziamento. Bel modo di morire, su un marciapiede, trovata da un netturbino. Ragazzo giovane, che ragazze così belle non ne aveva mai viste. Meglio lui di quel drogato.

    Tattam tattam tattam… tattam tattam… tattam… stridore di freni. Il metrò rallentava, si avvicinava a una seconda fermata.

    La felicità non esiste senza dolore, e persino nell'amore si soffre, ma di una sofferenza piacevole; perché l'amore è una follia che priva del fiato e del pensiero, che strappa l'anima dimenticandosi di rimetterla a posto.

    Come sta suo marito. Bene. Solo una leggera intossicazione alimentare. E il suo. Al lavoro. Sua figlia. A casa, sta studiando. Tattam. Tattam tattam...

    Altra fermata. La ragazza si alza. L’uomo, già in piedi poiché non si era seduto, si avvicina all’uscita. Quello sguardo. In lui nessuna distinzione tra bene e male. Il suo pensare non era adatto alla fisica classica, alla logica, ma alla meccanica quantistica e alla follia. Le porte si aprono e Nacho osserva, indeciso. Qualcosa…

    La ragazza esce fuori e l’uomo la segue. Un fischio. Le porte fanno per chiudersi. Nacho oppone con violenza le braccia al metallo dei portelloni che erano già quasi serrati e le due donne lo guardano storto. Aveva persino abbandonato il proprio libro sul sedile. D'altronde aveva già finito di leggerlo. Pochi secondi, per lui era come fotografare delle pagine.

    Appena arrivato nell'Andén si spaventò. Non si vedeva nessuno. Poi intravide con la coda dell'occhio quell'uomo ambiguo che si affrettava verso le scale. Non vide la ragazza, ma seguì lui. Questi sembrava sapere dove andare e Nacho non aveva dubbi sulle sue intenzioni. Sbucarono nel barrio di Carabanchel. La ragazza camminava a passo veloce e inquieto, una ventina di metri più in là. Non era certo la zona più sicura di Madrid quella, anche se a lei che ci viveva da una vita, non era mai successo nulla. Palazzi di nove o dieci piani si stagliavano cupi tutt’intorno e all’apparenza vuoti. L'aria era più fresca che dentro la Metropolitana e la notte era scura e senza luna. La prima strada in cui passarono era illuminata dai lampioni e dalle numerose vetture che transitavano rapide. La ragazza procedette verso sinistra, ignara di essere seguita. Arrivò di fronte all’entrata di un parcheggio sotterraneo. Stando attenta che da esso non sbucassero macchine attraversò, e si diresse verso la Plaza de Toros di Vista Alegre. Era decisamente una tipa prudente, però non altrettanto accorta. Svoltò a destra e poi nuovamente a sinistra. Girò ancora. Il tipo losco continuava a seguirla e Nacho dietro di lui.

    C’era un piccolo parco deserto e una casetta per bambini. La ragazza tagliò di lì per abbreviare il percorso e l’uomo si mosse rapido, raggiungendola d’uno scatto. L’afferrò ponendogli una mano sulla bocca e iniziò a trascinarla dentro la casetta, un attimo prima di agire si era guardato alle spalle, ma non aveva visto nessuno. Nacho era rimasto un poco indietro e doveva ancora svoltare l’angolo. Quando lo fece vide la ragazza trascinata contro la sua volontà ed ebbe un sussulto.

    Corse come posseduto, mentre qualcosa dentro di lui si muoveva inquieta. In pochi balzi arrivò sui due. Afferrò il tizio da dietro prima che avesse modo di voltarsi, come una bambola di pezza lo staccò dalla giovane e lo scaraventò a terra; quasi il furore gli avesse concesso una forza sovrumana. L'altro sbatté violentemente la schiena e per alcuni secondi non si mosse. Pareva morto. La ragazza di fianco a lui gridò, l’impeto di Nacho aveva mandato a terra pure lei. Il tipo si riprese, tirò fuori una pistola e la puntò, sgranava gli occhi e farfugliava qualcosa di incomprensibile. Nacho odiava le armi. Lo avvertì minaccioso: «Mettila via…» Eppure, dentro di sé provava una grande calma, una sicurezza assoluta.

    Gli si scagliò addosso. Si sentì scattare il grilletto, ma l’arma non sparò, si era inceppata. L’aggressore era esterrefatto. Nacho gli afferrò il braccio e stavolta lo sparo partì. Caddero delle foglie dall’albero sopra le loro teste. Poi il tizio venne disarmato e rigettato al suolo dove batté violentemente il capo e svenne.

    La ragazza guardò Nacho spaventata. Lui la aiutò ad alzarsi: le consigliò di chiamare la polizia e rientrare a casa. Abitava proprio nel palazzo di fronte al piccolo parco giochi. L'aggressore doveva saperlo bene, ma per un po’ non si sarebbe mosso da lì. Di ciò Nacho ne era sicuro, per questo un attimo prima che lei potesse rispondergli scappò. Non le chiese il nome, né le disse il suo. Alla polizia Elena non fu in grado di dare alcuna descrizione del suo soccorritore, e nemmeno l'aggressore una volta riavutosi, ne fu capace. Ogni volta che cercavano di pensare al suo aspetto a entrambi si offuscava la mente e avevano come un capogiro accompagnato da nausea.

    La mattina successiva Nacho si svegliò tutto indolenzito e con un senso di oppressione, leggero ma percepibile, alla base del cranio. Per verificare di non avere alcun malore, sondò il proprio corpo con la mente, ma non risultò nulla.

    Fece colazione assieme ai genitori e alla sorella più piccola. Non raccontò ai suoi familiari dell’aggressione nella quale era intervenuto il giorno prima. Dentro di sé sperava solo che la ragazza non fosse riuscita a fornire alla polizia una sua descrizione precisa.

    Oltre ad avere una straordinaria capacità di osservazione, Nacho era in grado di notare i particolari più minuscoli, di registrarli e rielaborarli in mille modi, e di ricordarli per sempre. Questo riusciva a farlo dai due anni di età.

    In quella marea di ricordi non si perdeva mai, perché vi accedeva in modo diretto, come quando si cerca una parola in un vocabolario e lo si apre ogni volta alla pagina giusta. Certo, l'ordine alfabetico è in questo caso di grande aiuto, ma i suoi ricordi si disponevano in un ordine altrettanto efficiente.

    Nacho possedeva una capacità d’analisi fuori dal comune e una logica atta a fornirgli i mezzi per capire: l'uomo, la natura, il reale; e si avvaleva di più dimensioni, persino del sesto senso.

    Se non fosse stato per il suo spirito indissolubile, la sua fermezza, si sarebbe sentito sopraffare da quel continuo lavorio mentale, perdendosi in paradossi psichici, labirinti mentali o nella semplice follia. Invece, il suo animo era forte, il suo raziocinio fermo e incrollabile. Per chiunque altro tutto quel sapere sarebbe stato insopportabile. Non per lui.

    Sin da piccolo Nacho aveva letto una mole impressionante di libri. Poteva prenderne uno e scorrerlo velocemente davanti agli occhi memorizzandone all'istante le pagine, proprio come aveva fatto il giorno anteriore nel metrò. In pubblico lo faceva di rado, ancor meno se c'erano conoscenti. Preferiva nascondere queste sue doti. All’inizio lo aveva fatto perché spaventato dallo scoprire che gli altri non erano come lui, e successivamente perché pensò non avrebbero capito e si sarebbero a loro volta impauriti. Ma c'era stato anche un altro motivo...

    Neppure il Signore dei sogni, di cui Nacho ignorava l'esistenza, aveva mai scoperto che memorizzava interi tomi, e non aveva mai percepito che una mente sola in lui.

    Per Nacho analizzare, sintetizzare o confutare teorie era abilità innata. Solo che gli era sempre mancato qualcosa, un ultimo passaggio per la conoscenza assoluta. Un segreto celato nella Creazione stessa, che se rivelato avrebbe potuto conferire all’uomo un potere incommensurabile. Ma non era mai riuscito a trovarlo. Come se gli mancasse la chiave d’accesso. Per questo negli ultimi mesi il suo cervello aveva attivato, indipendentemente dalla sua volontà cosciente, una sorta di programma di individuazione di chiavi. Come quelli dei computer, che servono a trovare password per accedere a file o cartelle. Ciò aveva determinato in lui un senso d’attesa, accentuato dal sospetto di essere vicino a qualcosa di pericoloso. Eppure, non era riuscito a interrompere il processo. O forse non aveva voluto, in fondo era stata la sua eccessiva fame di conoscenza ad attivare il generatore di Keygen.

    Ma ora il programma era fermo. Questo poteva voler dire soltanto una cosa: la password era stata trovata!

    Se ne era accorto il mattino del giorno prima in cui si era svegliato in un bagno di sudore, con la sensazione d'aver fatto un sogno importante, ma assurdamente non lo ricordava: non gli era mai capitato prima! In più, aveva avuto come l'impressione di aver lievitato per aria e di essere precipitato da chissà quale altezza.

    E ora? Ora non lo sapeva. Non ricordava, ma qualcosa di tenebroso gli si muoveva dentro, nascondendosi alla sua coscienza. Lo percepiva: una metà oscura, fuggevole e misteriosa. Era come se avesse compiuto un misfatto inusitato, aperto il fatidico vaso di Pandora. Un nuovo morso era stato dato alla mela della conoscenza, un velo tolto, e se non fosse riuscito a vedere cosa vi aveva trovato, era solo perché un altro più sottile e ambiguo velo vi era stato steso sopra da chissà chi o cosa.

    Il professore

    Lubecca - «Freud si sbagliava!» si sfogò Otto Backer il vecchio professore di psicologia all’università di Lubecca. - «I sogni non sono solo dei semplici appagamenti di desideri!» si rivolse alla commissione che si era riunita per giudicarlo. Da anni aveva iniziato a dare segni di squilibrio mentale. Aveva iniziato a blaterare.

    «Ci sono altre opinioni» replicò la Rimbaud, professoressa di Neurologia Applicata. - «Jung, come lei sa, imposta il discorso sulle associazioni di idee e risulta ai bigotti più simpatico, perché dà meno importanza al sesso e all’infanzia che non il suo maestro. Poi ci sono le teorie che vanno da quella dello Stato centrale al Cognitivismo a tante altre... Lei conosce l’importanza dei sogni per interpretare le psicosi. Anche Freud ne era un sostenitore. Inoltre, c'è ora chi studia gli stimoli al bulbo oculare durante il sonno, ma lei si disinteressa persino a queste indagini. Si può sapere chi è lei per gettare alle ortiche cento e più anni di ricerche dei più illustri studiosi?» La professoressa Ilves, si era infervorata. Era da diverse ore che la commissione, riunita per giudicare l’opportunità di licenziare il vecchio professore per demenza senile, ascoltava impaziente le spiegazioni dell’uomo e vi ribatteva, nella voce e nella persona del suo presidente, la professoressa Ilves Rimbaud. «Le sue lezioni sono inconcludenti. I suoi alunni si lamentano di non apprendere niente.»

    Il professor Otto scosse la testa e si riaggiustò gli occhialini con un gesto veloce e misurato. «Non tutti. I più brillanti sono d’accordo con me. Secondo la logica, se i sogni interessano una parte del cervello piuttosto che un'altra, le persone che usano di più un emisfero, dovrebbero sognare di più o di meno degli altri. Invece i dati risultanti dall’osservazione di persone diverse, mancini e destri, razionali ed emotivi, hanno dimostrato non esserci nessuna rispondenza. Statisticamente non è risultata alcuna differenza rilevante tra i diversi gruppi. Tutti sognano circa la stessa quantità di tempo e in modo del tutto simile, anche se alcuni non se ne ricordano. Persino tra le singole persone non vi sono differenze e la cosa mi pare alquanto strana. L’ho chiamata Anomalia dell'uniformità cerebrale nel sonno. Non sono d’accordo con chi sostiene che non sia un’area specifica quella preposta per i sogni. Sarebbe una stranezza incomprensibile visto che, per qualunque funzione, esiste un’area atta a svolgerla. Perché i sogni dovrebbero essere un’eccezione? C’è qualcosa di strano in loro. Qualcosa che le comuni teorie e quelle più recenti non spiegano…»

    «È solo lei a supporre che i sogni interessino solo una parte del cervello. Attenti studi hanno dimostrato che non è così. I collegamenti tra sogni e cervello vanno ricercati nelle sinapsi, sparse per tutta la cosiddetta materia grigia.» Qui il professor Otto avrebbe voluto interromperla, ma lei non si lasciò sfuggire il vantaggio e proseguì. «Non in un'area specifica come avviene per quasi tutte le altre funzioni, tipo quelle motorie o il parlare... inoltre cosa vuole insinuare? Se i sogni non sono appagamenti di desideri, se non sono il prodotto di ricordi, né di paure, né pensieri fuori controllo, né stimoli cerebrali, piccoli impulsi elettrici, né…» e qui la professoressa Rimbaud, sorrise, «visioni del futuro o il nostro legame con il mondo dei morti, cosa pensa che siano allora?»

    «Non lo so... Ancora ci sto lavorando.»

    «Ma nel frattempo cosa sta insegnando ai suoi alunni?» - lo incalzò lei. - «Che da almeno venti o trenta anni a questa parte, la zona del cervello coinvolta nel sognare è cambiata passando da un'area specifica, che lei ancora non è stato in grado di individuare, alle sinapsi? e che nessuno se ne è mai accorto prima perché è solo da pochi anni che la neurologia, grazie alla tecnologia, può vedere quali zone si attivano durante le diverse attività? Allora quale zona, secondo lei era preposta ai sogni prima? E per quale motivo è cambiata? Lei ha parlato in una conferenza, nella quale ha ricevuto molte critiche, di una dinamicità e adattabilità del cervello, in base alla quale esso sarebbe in grado, se sottoposto a stimolo diverso o danno in una sua zona, di assolvere alcuni compiti specifici di quella particolare area, con un’altra; in modo quasi repentino. E fin qua, quasi nulla di strano. Ha concluso, però, affermando che il nostro cervello deve aver subito anni fa qualcosa che ne ha mutato il funzionamento rispetto ai sogni. Perché mai sarebbe dovuto avvenire ciò? Inoltre, ha sostenuto che per questo cambiamento ora le teorie di Freud e Jung, non sono più valide. Ma cosa è successo al nostro cervello? Al cervello di tutta l’umanità! Lei professore, sta solo spaventando e confondendo i suoi alunni. Quei discorsi senza senso su anomalie oniriche e labilità della mente, non spiegano nulla, anzi sono assurdi!».

    Sollevò una spalla e torse la bocca. La Rimbaud era magrissima, con lunghi capelli rossi e ricci, occhialini dalla montatura bianca e fine, naso a punta. Indossava spesso jeans e larghi maglioni a collo alto. Quel giorno però, ne aveva uno con il collo a vu, color carota; stivali bianchi, e persino dei pantaloni eleganti, anch’essi bianchi.

    «Se proprio vuole saperlo, a me pare che l'unica mente labile qui, sia la sua.»

    Il professor Otto strabuzzò gli occhi, incredulo. Quell’insulto era qualcosa che non poteva permettere a nessuno. Ma subito rimproverò a sé stesso questo piccolo moto d'orgoglio, così tipicamente senile.

    «Dimostrerò quanto affermo, vedrete! Ve lo dimostrerò...»

    Fece per dire qualcos’altro sollevando l’indice, ma vedendoselo tremare davanti al naso, in un modo che gli sembrò ridicolo, cambiò idea. «Lo dimostrerò» ripeté, e uscì dall’aula spalancando la porta con un impeto tale da farla sbattere contro il muro.

    «Aspetti lei non può andarsene così. Se va via la commissione la espellerà dall’università senza possibilità di replica, anzi chiederemo che sia espulso dall’albo accademico!» sbottò la Rimbaud sollevando a sua volta un lungo e scarno dito indice con un fare minaccioso.

    «È quello che voglio!» gridò dal corridoio il vecchio studioso, mentre i suoi passi veloci echeggiavano sempre più lontani.

    «Lei è pazzo» strillò la Rimbaud lanciandosi verso l’androne, con i pugni serrati e le lunghe braccia tese in avanti. I suoi capelli ricci e rossi si scompigliarono nella corsa, gli occhi verdi mandarono fiamme, il viso si contorse in un’espressione rabbiosa. Nel proferire tale insulto sbatté i piedi come un bambino capriccioso. Poco la preoccupò che a sembrare una pazza fosse lei, soprattutto per gli alunni del corso di Psicologia criminale che iniziavano a uscire dall’aula di fronte.

    Gli altri colleghi la raggiunsero cercando di acquietarla. Il corpo alto tremava di rabbia, e il maglione a vu le era sceso sulla spalla destra, dando mostra della sua magrezza.

    La donna ansimava e sbuffava come una fiera ferita, eppure sino a pochi attimi prima, mentre attaccava il vecchio professore, si era sentita quasi una cacciatrice, un cavaliere della giustizia. Si era sentita viva.

    Incubi, insonnia e apparizioni

    Judith Fong Lang correva tra la fitta vegetazione seguita da rumori inquietanti. Il terreno era reso scivoloso dalle piogge torrenziali dei giorni precedenti. Lei sentiva i suoi passi farsi sempre più insicuri e lenti, mentre il fango le si accumulava sulle scarpe, appesantendole. I rami degli alberi la schiaffeggiavano umidi e malevoli. Una liana le si attorcigliò sul collo. La sua corsa s'interruppe con un forte strattone e una fitta di dolore. Con rabbia cercò di liberarsi dal rampicante, ma questo le si avvolse ancor più strettamente, come dotato di vita propria. In pochi secondi si ritrovò sospesa per aria e più si muoveva, più le corde la stringevano.

    Solo a quel punto s'accorse d'esser scalza. Sotto di sé dell'erba alta, verde e umida le sfiorava la pianta dei piedi. Qualche goccia d’acqua iniziò a caderle sul viso. I rumori dietro di lei, tra gli alberi, iniziarono a farsi sempre più forti. Colta dal terrore gridò con quanto fiato aveva in corpo. Si accese una luce. Finalmente Judith riuscì ad aprire gli occhi, ma non prima di aver visto nel sogno, sbucare da un cespuglio davanti a lei, una grossa creatura pelosa con lunghi denti ricurvi e occhi iniettati di sangue. Si reggeva sulle zampe posteriori e le lunghe braccia gli penzolavano dalle spalle come grossi machete. Aveva le fattezze di un lupo, ma la posizione eretta lo identificava come qualcosa di più spaventoso.

    Labuhan - INDONESIA «Judith, calmati.» disse una voce familiare. «È stato solo un incubo.»

    Due mani leggere le si posarono sulla fronte. Era sua madre. «Guarda, sei tutta sudata.» Gli occhi a mandorla della donna si socchiusero e le rughe si accentuarono in un sorriso divertito, mentre con una mano copriva la bocca. «Come hai fatto a ridurre il letto in questo modo? Mi sa che dovrò tagliare le coperte per tirarti fuori!»

    Judith si guardò intorno ancora confusa e sorrise suo malgrado. Un po’ a fatica si liberò dal groviglio. Nel sogno era stato molto più difficile liberarsi delle liane.

    «Madre, ho fatto un sogno spaventoso: era così reale…»

    La donna accarezzò i capelli neri della figlia. Judith aveva venticinque anni ed era una ragazza dolcissima. Ispirava simpatia il suo viso sbarazzino e il sorriso pronto che metteva in mostra due piccole fossette ai lati della bocca. Era di carnagione olivastra e aveva grandi occhi neri, leggermente tirati all'insù. Tratti tipicamente orientali. I capelli li teneva lunghi fino alle spalle.

    «Tutti i sogni lo sono.» rispose sua madre sibillina. Judith la guardò stupita. A cosa si riferiva, al fatto che tutti fossero reali o che fossero spaventosi? Raramente lei faceva incubi. Di solito sognava cose felici, a parte qualche notte prima, quando nel sonno si era messa a ragionare sui sogni, su delle strane anomalie che in essi aveva notato, e soprattutto… non riusciva a ricordare bene. Lo spavento recente le aveva confuso le idee. Sapeva solo che era stata una sorta di intuizione: ne aveva sempre avute, fin da piccola.

    «Dai, ora dormi. Domani devi alzarti presto per andare al lavoro.»

    «Va bene, lo farò.» la rassicurò Judith, sistemandosi in modo accettabile le lenzuola e rimboccandosele, ma non troppo. «Grazie e scusa...», aggiunse con un sorriso accennato.

    La madre ricambiò il sorriso portandosi la mano a nascondere la bocca, abitudine che si era presa da piccola, per l'estrema timidezza. «Buonanotte.»

    L'indomani Judith si sarebbe dovuta alzare presto per andare al lavoro. Il Centro era alquanto distante dalla città. Doveva prendere un autobus alle quattro del mattino e dopo circa quattro ore sarebbe arrivata a destinazione.

    Il Signore dei sogni continuava a essere cupo. Il clima nel mondo onirico era di aspettativa e impazienza. Tutti sapevano che il loro Padrone aveva iniziato a prendere dei provvedimenti, ma era ancora preoccupato. La sala era scura e spettrale. Gli arazzi sulle pareti erano stranamente silenziosi e le scene che ivi si svolgevano erano meno sgradevoli del solito. Quello dell’Impiccato era cambiato. Al posto del giovane cavaliere vi era un vecchio con l’aria dello scienziato. I capelli lunghi e candidi erano spettinati e radi, la barba, anch’essa rada, era macchiata di sangue e sporca di terra. Il maglione rosso vermiglio sotto il quale si intravedeva una camicia azzurra, era lacero in diversi punti, e i pantaloni grigi e bianchi con motivo a scacchi, erano strappati di lungo. Gli aguzzini erano i soliti. I due manigoldi sdentati e sporchi che si divertivano a pungolare il prigioniero, mentre questi strabuzzava gli occhi e cercava di afferrare la fune per levarsela dal collo. Purtroppo, le sue braccia erano legate in modo che non ci arrivasse di poco, facendogli sentire un senso di frustrazione e impotenza ancora più brucianti. C’era della crudeltà gratuita in questo. Il Signore dei sogni amava questo tipo di sottigliezze.

    Gli occhialini del vecchio giacevano in terra, in mezzo al fango, vicino ad una radice dell’albero su cui era appeso.

    Eppure, quel giorno la scena non aveva il potere evocativo e terribile delle altre volte. Forse perché il soggetto era meno affascinante e più indifeso del giovane e forte cavaliere.

    Comunque sia, l’atmosfera era ambigua nell’etereo Mondo onirico.

    Lentamente il sovrano di quel luogo all’apparenza magico, però semplicemente artificiale e volutamente lugubre, sollevò la testa, che da diversi minuti teneva piegata verso il basso, mentre la sua mente come un’onda gigante si trascinava veloce, potente e instancabile, lungo i paralleli, saltando da un meridiano all’altro del pianeta, entrando nelle case, negli ospedali, negli alberghi e ovunque ci fossero dei dormienti.

    Poi d'improvviso quella corsa di onde cerebrali s'arrestò.

    Se l’uomo dei sogni fosse stato, propriamente reale, avrebbe perlomeno deglutito o spalancato tanto d’occhi, a causa della scossa che aveva interrotto quel irresipiscente incedere, ma non lo era. Così, semplicemente rivolse parte dell’attenzione al suo mondo, proprio di fronte a sé.

    A due metri dal trono, a pochi passi da lui, era apparsa una bambina. Non uno dei suoi incubi. Nessuna delle sue creazioni. Era qualcosa che non doveva essere lì, che non poteva esserci, una assurda incongruenza onirica.

    «Chi sei?» le chiese il Signore dei sogni mettendosi in piedi. Rush si avvicinò rapido alla piccola, osservandola minaccioso. Si trovava dall’altra parte della sala a discutere con delle arpie quando l'aveva vista apparire. Quella era la prima volta che la vedeva. All’inizio aveva pensato fosse un nuovo essere creato dal suo padrone, ma poi quando questi aveva sollevato lo sguardo verso l’apparizione, aveva capito non essere così.

    Attraversò la stanza a balzi arrivando proprio alle spalle della piccola che girandosi gli rivolse un sorriso allarmante. I lunghi denti gialli dell’uomo lupo per un attimo sparirono dal suo prominente muso, mentre lo stupore e uno strano senso di apprensione, poco abituali in lui, lo attanagliarono.

    Il Signore dei sogni gli fece cenno di fermarsi. Era curioso e anche Rush lo era.

    «Chi sei?» insistette il padrone del castello.

    La bambina sorrideva fissando ancora il licantropo che si mosse all’indietro irrequieto.

    Con linguaggio alquanto bizzarro parlò rivolta al signore del castello. «Appropinquati nevvero di fare il nesci. Di codesta guisa porgerò uno svegliarino alla tua resipiscenza. Ti sovverrai subitamente di chi io sia!»

    Al Signore dei sogni non piacevano gli indovinelli. «Come sarebbe? Io non ti conosco. Non ti ho mai vista prima!» - sbottò - «E non sei una mia creazione. Non so neppure come tu sia giunta sin qui.»

    La piccola rise di gusto. La sua risata risuonò per tutto il castello. Gli incubi si voltarono a guardare allarmati. Qualcosa nel timbro di quella voce li inquietava. Persino le pareti e l’alto soffitto parvero allontanarsi da lei e l’aria sembrò tentare di scrollarsi quella risata a strattoni,

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