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E' magnè: I mangiari negli usi dei contadini romagnoli
E' magnè: I mangiari negli usi dei contadini romagnoli
E' magnè: I mangiari negli usi dei contadini romagnoli
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E' magnè: I mangiari negli usi dei contadini romagnoli

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E’ magnè nasce dal desiderio di continuare ad assaporare cibi gustosi che ormai non si cucinano più.

Questo libro - osserva Massimo Montanari nella prefazione - è frutto dell’arte della memoria, coltivata con cura, e di un lavoro di ricerca paziente, attento, che non si fa spesso: tanti libri di ricette non sono che compilazioni, raccolte casuali...

La struttura del libro riflette il piano della ricerca, imperniata sulla ricostruzione del repertorio alimentare delle classi rurali in Romagna nel periodo storico che va del 1910 al 1950.

Le ricette si susseguono in modo flessibile secondo il ciclo delle stagioni e quello della vita umana.

La descrizione dei cibi avviene sullo sfondo del calendario dei lavori agricoli e degli eventi cerimoniali familiari e comunitari.
LanguageItaliano
Release dateNov 13, 2014
ISBN9788874722327
E' magnè: I mangiari negli usi dei contadini romagnoli

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    E' magnè - Daniela Bascucci

    srl


    L’ARTE DELLA MEMORIA

    C’è una bella espressione nelle pagine iniziali di questo libro, dove i curatori avviano alla lettura delle ricette nate dalle chiacchierate e dalle discussioni con Roberto Giorgetti e la sua mamma: l’arte della memoria, da Roberto sempre coltivata con cura. È un’espressione che trovo particolarmente felice perché troppo spesso si pensa alla memoria come a qualcosa di innato, di spontaneo, di ovvio. No. La memoria va coltivata, è un’arte che si apprende e, se non la si coltiva, si perde. Per questo parlare di memoria è possibile solo quando si fa ricerca sulle tracce del passato. Memoria è un lavoro, anche faticoso. Oppure è nulla, è un inganno, un’illusione. La memoria che tanti si arrogano è solo mistificazione, è un’immagine del passato rifatta a nostro uso e consumo, contro (non per) la verità e la storia. Questo libro ci insegna a trattarla come si deve: la memoria delle nostre cose – qui, del nostro patrimonio alimentare – richiede pazienza, attenzione, tempo. È frutto di un lavoro di ricerca che non si fa spesso: tanti libri di ricette non sono che compilazioni, raccolte casuali, fotocopiature di altri libri (il mio amico Folco dice spesso, scherzando ma non troppo, che il più importante autore di ricettari è il signor Xerox).

    Il gruppo di amici che si è impegnato in questo libro ha svolto un lavoro esemplare, che si può proporre come modello. Ricostruire un mondo, una società, un territorio, una cultura, a partire dalla cucina, senza però perdersi nei dintorni della cucina, bensì affondando i denti nelle ricette, meditandole e assaporandole una ad una, con cura. Qualche anno fa ci provarono con le ricette di mare e fu un successo, meritato. Ora ci riprovano con la campagna e sarà un altro successo, possiamo starne certi. Perché proprio oggi, nell’età dell’industria alimentare, la paura dell’omologazione e dei sapori tutti uguali ci fa più attenti alle diversità dei luoghi, alle culture tutte diverse (ma tutte frutto di incroci, scambi, contaminazioni) che ciascuna piccola società col tempo ha saputo costruire. Proprio adesso, paradossalmente, il recupero di queste tradizioni è possibile: la cultura alimentare del passato non era attenta al territorio, al locale. Perciò parliamo pure di recupero della tradizione: tutto vero. Ma teniamo anche a mente che siamo noi, oggi, con la nostra cultura e (appunto) l’uso intelligente della memoria, a ritenere indispensabile impegnarci per valorizzare questo inestimabile patrimonio, che solo qualche decennio fa si abbandonava al suo destino. E dunque niente nostalgie per il passato che cambia (per fortuna: ricordate la fame?). Attenzione, invece, a conoscere quel passato in tutto ciò che di meglio ci ha lasciato. È il nostro compito per il futuro.

    Massimo Montanari

    INTRODUZIONE

    E’ Magnè nasce dal desiderio di continuare ad assaporare cibi gustosi che non si cucinano più e di completare il percorso che ci ha accomunato nella realizzazione di Purazi …Doni!¹, il nostro precedente lavoro sulla gastronomia tradizionale. Ci siamo costituiti come gruppo otto anni fa per affrontare una ricerca che provasse a fissare la memoria alimentare dei pescatori, e più in generale degli anziani abitatori della costa romagnola, dai primi del ’900 agli anni ’50. La rivisitazione analitica delle ricette era stata accompagnata da annotazioni circa il contesto storico e sociale, la cultura materiale, l’economia domestica, la stagionalità dei prodotti, le astuzie della cucina povera, ecc. La ricerca era servita in qualche occasione a supportare il dibattito sulla possibilità di riproporre nella ristorazione moderna le ricette secondo i dettami della tradizione locale; si erano sollevati così interrogativi sulle conseguenze ed i limiti di tale inserimento, raccogliendo pareri favorevoli ed anche discordanze rispetto alle esigenze di standardizzazione poste dai nuovi sistemi tecnologici di ristorazione collettiva e dal mercato che richiede tempi rapidi di preparazione². Il libro aveva di fatto stimolato l’immissione di alcune delle ricette proposte³ nei circuiti alberghieri e soprattutto nei ristoranti di pesce ed in quelli tipici. Osservavamo, peraltro, un’inversione di tendenza, un’attenuazione delle forzature e banalizzazioni indotte nel settore dalla filosofia della cucina eclettica e innovativa a tutti i costi, a favore di una maggiore sensibilità per la cucina del luogo, della prossimità, del radicamento, più attenta a selezionare la qualità degli ingredienti. Il felice esito della pubblicazione, l’alta tiratura delle copie, e soprattutto il conseguimento a sorpresa del Premio internazionale Langhe Ceretto – S.E.I. per la cultura del cibo 1996, riservato ai libri di ricette, ci hanno indotto a raccogliere la sollecitazione a proseguire il lavoro intrapreso per renderlo più sistematico; integrandolo cioè con una nuova ricerca sulle abitudini alimentari dei contadini romagnoli.

    Nella stesura di Purazi… Doni! il compito di rivisitazione delle ricette, della loro verifica pratica con la messa a punto quantitativa delle dosi e l’integrazione delle parti mancanti, era stato affidato a Roberto Giorgetti. La scelta era caduta naturalmente su Roberto, sia per la sua professione di cuoco che per la sua approfondita conoscenza degli stili alimentari dei pescatori, dovuta alla sua estrazione familiare ed ai suoi legami con la gente del posto. Nel corso delle tante serate trascorse a casa di Roberto per assaggiare le ricette e per le prove del gusto, avevamo scoperto come le sue abilità tecniche culinarie si intrecciassero ad una ricchezza di dati storici e antropologici, aneddoti sulla cultura alimentare, materiale e simbolica, delle classi popolari di riferimento, che egli aveva acquisito per esperienza diretta. Roberto Giorgetti conosce bene l’arte della memoria che ha sempre coltivato grazie alla sua passione per l’affabulazione, il racconto; la sua è una memoria che si prolunga in quella delle generazioni passate, parla della gente di una volta come fossero suoi contemporanei, e più di una persona pare gli abbia chiesto: ma tu sei del 1902?. I suoi racconti rivelano il fervido immaginario di un passato mitico ma non nostalgico, sono ricchi di ironia, episodi burleschi, di iperboli e, talvolta, pettegolezzi e sapienti bugie. La sua esperienza professionale inizia a Bellaria all’età di 14 anni, consegue il diploma di Addetto cucina e bar all’Istituto Professionale Alberghiero di Stato di Riccione, e diviene Chef a 22 anni, mentre lavora presso gli alberghi cervesi della famiglia Del Vecchio. A trent’anni inizia l’attività di formatore professionale nella preparazione dei primi piatti. La passione per le ricette tradizionali risale al 1973 quando incontra la signora Benilde Marini di Gorolo di Borghi (FC), che aveva conservato la pratica e l’esperienza di una cucina rigorosamente antica. Da quell’incontro, ogni domenica d’inverno, nelle ore libere, Roberto inizia a percorrere le vallate dell’Uso e del Rubicone per incontrare e conversare con gli anziani che erano depositari di questi saperi. Necessitava incontrarli almeno tre volte perché loro si fidassero di te e iniziassero a dirti quello che cercavi. Le ricette hanno preso così a rigenerarsi nelle sue mani in occasione dell’organizzazione di serate a tema sulla cucina romagnola in alberghi e ristoranti. Verso la metà degli anni ’80 Roberto sviluppa l’attività di formatore specializzandosi nella cucina antica, collaborando come docente con la Regione Emila Romagna in corsi rivolti agli operatori delle strutture agrituristiche delle vallate dell’Uso, del Marecchia, del Conca. Dal 1995 diviene collaboratore e consulente dell’Associazione Bell’atavola. Finalmente nel 1999 realizza il sogno della sua vita con l’apertura e la gestione diretta dell’Osteria Da Gianòla, antichi sapori a Bellaria Igea Marina.

    Abbiamo deciso così di imperniare il nuovo progetto di ricerca sulla figura di Roberto Giorgetti, quale caso di vita, testimone privilegiato e significativo per la ricostruzione del repertorio alimentare di base delle classi rurali in Romagna nel periodo storico che va dal 1910 al 1950. Le ricette hanno preso a snocciolarsi, una ad una, nei colloqui fatti a volte nei ritagli di tempo di Roberto, quasi sempre alla presenza di sua madre, Maria Manuzzi che gli si è affiancata divenendo attivo ed instancabile supervisore del nostro lavoro. La struttura del libro riflette il piano della ricerca; le ricette si susseguono in modo flessibile secondo il ciclo delle stagioni e quello della vita umana. La descrizione dei cibi avviene sullo sfondo del calendario dei lavori agricoli e degli eventi cerimoniali familiari e comunitari. In alcuni casi le ricette vengono presentate secondo le varianti locali, dal mare di Bellaria Igea Marina alla campagna di San Mauro Pascoli, Santarcangelo di Romagna, Savignano sul Rubicone, fino ai colli di Borghi e di Sogliano al Rubicone. Sono state ricostruite nei modi d’uso tradizionali con riferimento agli ingredienti, alla stagionalità dei prodotti, agli utensili di cucina e ai tempi di cottura.

    Lo scopo ultimo di questo lavoro, su una ritrovata tradizione gastronomica, è anche quello di comprendere meglio come l’intonazione degli alimenti, degli aromi e dei sapori, possa farsi efficace strumento di conoscenza e di appartenenza culturale, capace di sollecitare il confronto con valori e stili di vita essenziali, che dai racconti traspaiono come espressione di una natura regolatrice della quale ci si sente intima parte, di una agricoltura ecologica che occorre saper ritrovare, di tradizioni del territorio dalle quali continuare ad apprendere ed alle quali ispirarsi, rivalutando in primo luogo il ricco bagaglio di sapienze ed esperienze che ci deriva direttamente dai nostri vissuti e dalle nostre memorie familiari.

    Sono nato nel mese di maggio

    Scapa Avróil

    e l’òintra Maz

    pigra e vaca

    fé dé bon furmài

    Aprile se ne va / ed arriva Maggio / pecora e vacca / fate del buon formaggio

    Sono nato nel mese di maggio quando nei campi si rincalzavano le patate¹ e si sarchiavano² le bietole. Mia nonna disse a mia madre³: "Marì andéma a finói ad rincalzàe al patàedi ché té finói e’ témp e dmàen l’è Asensiàon, Maria andiamo a finire di rincalzare le patate che hai finito il tempo della gravidanza e domani è l’Ascensione. Allora quella era una festa grande che cadeva sempre di giovedì, in quel giorno si diceva: non escono neanche gli uccelli dal nido, per dire che non si lavorava. Così mia mamma quel giorno ha potuto riposare e farmi nascere in pace la mattina di venerdì.

    A mia madre avevano detto che per capire il momento in cui sta per nascere il bambino: "e’ màel l’à da es gros, quand t’an vóid piò al tràevi de sufét è sta par nas e’ burdèl", il male deve essere così forte da non riuscire più a vedere le travi del soffitto; ma io sono nato che lei continuava a guardare in alto vedendo sempre le travi, perché il suo dolore era sopportabile; intanto le preparavano l’acqua nel caldaio, il caffè con il cognac perché credevano che favorisse le doglie.

    Sono nato nel 1952 a Bordonchio⁴, in una casa colonica modesta da una famiglia patriarcale contadina dove era azdàura, reggitrice, la nonna Gilda⁵, la madre di mio padre, nata nel 1886. Era lei che aveva l’azdaorarì, il portafoglio, che governava la casa e che prendeva le decisioni più importanti. Le cose che racconto le ho imparate perché sono cresciuto con gli anziani. I miei primi sedici anni li ho passati con la nonna, i miei genitori uscivano la mattina e tornavano la sera, "j andéva da scur a scur", andavano da uno scuro all’altro: lavoravano da prima dell’alba a dopo il tramonto. Avevo dieci anni quando la nonna perse la vista completamente, divenni il suo cane e lo rimasi fino alla sua morte, nel ’74.

    I CAFFÈ DELLA PUERPERA

    A quei tempi si usava bere i surrogati del caffè: i più usati erano il Caffè della Vecchina e la Miscela Leone. Mi ricordo che erano contenuti in scatoline di cartone colorate e per fare il caffè si usava un pentolino di alluminio chiamato cuccuma. Il pentolino si metteva su un treppiede sul focolare, con acqua e qualche cucchiaio di miscela, si faceva bollire per qualche minuto e si versava nelle tazze dopo averlo filtrato o fatto depositare.

    Il caffè buono, quello vero, veniva servito in occasioni particolari, una di queste era il parto,

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