Il sole che scalda
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Anteprima del libro
Il sole che scalda - Claudio Giannoni
amo.
1
Al mattino, di buon ora, passai davanti al bar dove solitamente facevo colazione. Non avevo tanta voglia di fermarmi, ma il profumo dolce delle paste appena sfornate era troppo invitante.
Quella mattina lo stomaco era chiuso, un senso di nausea mi saliva alla testa, avevo le vertigini. Forse l’ansia di ritirare gli esami mi aveva distolto dalle mie consuetudini. Già immaginavo quello che poi mi avrebbero confermato, come se qualcuno dentro di me mi avesse per tempo avvisato della tempesta che si sarebbe abbattuta. Chiusi gli occhi, respirai profondamente e come se qualcuno mi prendesse per mano entrai.
«Buongiorno! Stamani già qui?» mi apostrofò Riccardo, il gestore del locale, soprannominato braccine corte per la sua eloquente generosità, anche nel salutare al mattino.
«Buongiorno!» risposi altrettanto generosamente «Sì, sì, quella con i cereali e un cappuccino.»
Riccardo era talmente geloso della propria avidità che preparava un cappuccino formato caffè macchiato in tazza medio-piccola, riempiendola solo per tre quarti, e poi ti guardava per vedere la reazione. Si inorgogliva nel vederti cambiare espressione del viso e nel nascondere tra i denti un sonoro vaffanculo. Allora, per reazione, prendevo il bricco del latte freddo appoggiato sul bancone, chiaramente appena appena riempito, e lo versavo nella mia tazza. Adesso guardavo io la sua espressione che cambiava e immaginavo il suo cervello che avrebbe calcolato il mancato guadagno o la sicura perdita per quel poco di latte andato sprecato.
Come si fa a essere così, pensavo. Una vita a far quadrare conti, a controllare la cassa, a controllare chiunque ci si avvicinasse, solitamente moglie e figli.
Una volta, una signora, dopo aver consumato un caffè, si era accorta di aver lasciato a casa la propria borsetta. Tutta arrossita, indugiando un po’, si avvicinò a Riccardo e gli disse: «Mi scusi… Ho lasciato la borsa a casa, ho qualche moneta, come devo fare?»
Tanto era lo sforzo nel pronunciare quelle parole, tanta era la liberazione nell’averlo fatto, che si aspettava un po’ di indulgenza o di benevolenza.
Niente di tutto ciò.
«Signora, tiri fuori le monete che le contiamo!»
La signora, incredula, sprofondando nella vergogna, prese dalla tasca i centesimi e li ripose sul banco.
«Certo, ecco qua!»
«50, 70, 90, 95, 96, 97, 98… signora, qui ne mancano ancora due!»
«Ma… aspetti un attimo... nell’altra tasca… Fatto! Ecco i due centesimi.»
Riccardo, sicuramente rinfrancato dallo scampato mancato guadagno, non fece proprio una bella figura, anzi, pareva proprio non importargliene un bel fico secco. Sicuramente perse la cliente. Che tipo!
Dopo aver forzatamente consumato la colazione, la stessa di ogni mattina lavorativa, mi feci forza, guardai l’orologio e decisi che era arrivato il momento. Salii in macchina e mi diressi presso lo Studio Medico. Sapevo già cosa mi avrebbe detto il dottore, era tutto scritto nel mio destino, il presentimento era giusto, i primi sintomi evidenti.
Entrai nello studio, erano appena le 8 del mattino, e ricordo bene le parole che mi accolsero. Mi suonano ancora oggi nella mente, fredde, insensibili, piene di verità che non vorresti mai ascoltare.
«Salve, Luca. Si sieda. Come immaginava; cellule tumorali al fegato, con rischio di metastasi. Lei è giovane e potrebbe sopportare un’operazione chirurgica. Prima verrà sottoposto ad un ciclo di chemioterapie per circoscrivere il tumore ed evitare ulteriori espansioni. Poi interverremo chirurgicamente. Nella migliore delle ipotesi potrebbe riuscire a vivere anche qualche anno. Sempre che il buon Dio l’assista.»
Suonarono come una sentenza di tribunale. «Colpevole!» la corte aveva deliberato. Ma in questo caso chi era la corte?
Il destino? Il fato? Avevo dei nemici così potenti? Dio mio!
Già, mio Dio! Ma dov’eri? Perché avevi scelto proprio me? Cosa avevo fatto di male io?
Gli occhi gonfi di lacrime, la vita che passava davanti, i ricordi, mio figlio, mia moglie, lei, le risate, i pianti! Cavolo!
Tutto stava svanendo così in fretta. Eppure, nonostante qualche sintomo di stanchezza e un po’ di spossatezza, io mi sentivo bene, mi sentivo in forma, ero forte come non mai, o forse lo credevo, ci speravo.
Salutai il mio giudice, il dottor Sentenza, e corsi via, lontano, a piedi, la testa che rimbombava, gli occhi che pesavano come due palle di cannone, ma non so per quale destinazione, nemmeno per quanto tempo.
Correvo, non sentivo la fatica. A quel tempo, nonostante i quarant’anni suonati e qualche ernia al disco, ero riuscito a rimettermi in forma. Corsa in pineta, qualche vasca in piscina, un po’ di bicicletta, addominali ed esercizi per le braccia, regolarmente da autodidatta perché odiavo le palestre dei fichetti e dei gonfiati, e il fisico aveva ritrovato una forma quasi accettabile, non più a rombo, ma appena un impercettibile triangolo. Era già tanto per me.
Forse 3 o 4 chilometri. Ero arrivato! La casetta era stretta e lunga, un terratetto ristrutturato con buon gusto, ben esposto al sole. Quella mattina, poi, la giornata era splendida, calda, nonostante fosse sempre marzo. Quelle mura sembravano più familiari, accoglienti. Ma i colori erano diversi. La facciata era di un rosso più luminoso, inspiegabile, caldo, dava una sensazione di pace. La porta mi chiedeva di entrare, salire, sentivo amore dissolversi nell’aria ed entrare dentro di me a ogni respiro. Come il viaggiatore che vagando giorno dopo giorno nel deserto rovente, finita la borraccia d’acqua e non avendo più da chiedere niente perché non c’è più niente da chiedere, spentesi le ultime speranze di sopravvivenza, all’improvviso si trova davanti un'oasi verde, lussureggiante, rivoli d’acqua ovunque, ma non è un sogno, è tutto vero.
Sì, ero arrivato.
Lei era lì, ad aspettarmi.
2
Aprì delicatamente la porta d’ingresso e io salii le scale, ansimante, un po’ spaventato anche se già rilassato, ebbro della sua vista. Appoggiai le labbra sulle sue guance e la baciai teneramente. Lei mi accolse fra le sue braccia e, affettuosamente, rispose baciandomi sulla fronte.
Poi mi sorrise.
Ogni suo gesto era spaventosamente semplice e allo stesso tempo elegante. Mi attraeva ogni suo movimento, quel corpo così magnetico, attraente, mi regalava energia, il suono gradevole della voce l'alimentava.
Aveva capelli neri, lunghi, che le cadevano sulle spalle e lungo le braccia che, lasciate scivolare sui fianchi, donavano un'armonia alle forme, che io vedevo perfette. Occhi neri profondi come l'abisso, carnagione olivastra, altezza media, un sedere che mi faceva impazzire.
Adoravo tutto di lei. E quando all'improvviso, mentre parlavamo o discutevamo, si fermava a guardarmi, io impazzivo, mi sentivo penetrare nell'anima e mi cadeva ogni forma di resistenza, di difesa personale.
L'avevo conosciuta una sera, durante una cena tra colleghi, presentata da un amico. Era stata invitata, sebbene lavorasse in un’altra azienda, perché stava attraversando un momento personale difficile e il mio amicone Enrico, suo vicino di casa, aveva voluto portarla con se per farla distrarre. Secondo me avevano avuto anche una storia insieme ma non ho mai avuto il coraggio di chiederlo per paura che mi confermasse la cosa.
«Ciao! Sei carina... Enrico; non mi avevi detto che era così carina! Mi chiamo Luca, piacere!» iniziai non proprio nel migliore dei modi.
Lei, stupita e un po’ arrossita, mi disse con voce calda ma decisa: «Ciao, mi chiamo Sara, grazie per la carina, sicuramente non stupida.»
Colpito dalla risposta fulminea, rimasi impassibile e pensai subito che la ragazza era sì carina ma sapeva il fatto suo, una tipa tosta che difficilmente si sarebbe lasciata andare a un cretino come me. Però aveva fatto subito breccia nella mia testa, nei miei sensi.
La guardavo mentre si sedeva al tavolino, era terribilmente sexy.
Feci di tutto per sedermi vicino a lei, ma non