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La maledizione delle Pecore nere
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La maledizione delle Pecore nere

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1940. Inghilterra. La guerra arriva anche nel Regno Unito con il nome "Operazione attacco dell’Aquila". È l'inizio della Battaglia d'Inghilterra. I piloti inglesi combattono con i propri mezzi contro un nemico dieci volte superiore. Tra loro c’è una squadriglia denominata "Pecore nere", composta di veri e propri assi. Il loro capo, Simon Farrell, li ha addestrati per essere veloci e letali in combattimento, ma qualcosa cambia. Da un passato lontano, spunta una maledizione che va a decimare i piloti delle "Pecore nere". Demoni, mostri e paure affiorano dalle anime dei giovani guerrieri, facendoli capitolare uno a uno. L’unico a voler scoprire la verità è Farrell, che lotta contro tutto e tutti nella speranza di salvare quel che resta della sua squadriglia. Un thriller veloce e crudo. Primo capitolo di una trilogia che poggia le sue fondamenta sulla lotta tra alcuni discendenti dei Templari e i servi del Demonio che, nei secoli, sono riusciti a penetrare nelle stanze del potere, fino a inquinare la Chiesa.
LanguageItaliano
Release dateFeb 3, 2016
ISBN9788898980680
La maledizione delle Pecore nere

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    La maledizione delle Pecore nere - Simone Pavanelli

    978-88-98980-68-0

    4 GIUGNO 1940

    Io stesso ho piena fiducia che se tutti fanno il loro dovere, se nulla è trascurato, se si fanno buoni accordi, come ora stanno avvenendo, potremmo dimostrare ancora una volta a noi stessi di essere in grado di difendere la nostra isola, di superare la tempesta della guerra, e a sopravvivere alla minaccia della tirannia, se necessario per anni, se necessario da soli.

    In ogni caso, è quello che ci accingiamo a provare a fare.

    Questa è la volontà di ogni uomo del governo di Sua Maestà.

    Questa è la volontà del Parlamento e della Nazione.

    L’Impero britannico e la Repubblica francese, uniti tra loro nella loro causa e nelle loro necessità, difenderanno fino alla morte il loro suolo natio, aiutandosi reciprocamente come buoni compagni fino allo stremo delle forze.

    Anche se ampi tratti di Europa e molti vecchi e famosi Stati sono caduti o potranno cadere nella morsa della Gestapo e di tutti gli odiosi apparati del dominio nazista, non cederemo e non ci arrenderemo.

    Andremo fino in fondo, combatteremo in Francia, combatteremo sui mari e negli oceani, combatteremo con crescente fiducia e crescente forza nell’aria, noi difenderemo la nostra Isola, qualsiasi costo possa avere, combatteremo sulle spiagge,

    combatteremo nei luoghi di sbarco,

    combatteremo nei campi e nelle strade, combatteremo sulle colline.

    Non potremo mai arrenderci, e anche se, cosa che per il momento non credo possibile, questa Isola o gran parte di essa sarà soggiogata e alla fame, allora il nostro impero d’oltremare, armato e difeso dalla flotta britannica, continuerà la lotta, fino a quando, quando Dio vorrà, il Nuovo Mondo, con tutta la sua forza e potenza, faccia un passo in avanti per il salvataggio e la liberazione del Vecchio.

    Winston Churchill

    1

    Nei pressi di Londra

    Agosto 1925

    I lampi squarciavano il cielo illuminando la campagna circostante alla villa, tramutando le ombre degli alberi in grotteschi umanoidi con dita lunghe e rachitiche.

    Il silenzio regnava all’interno dell’enorme casa quasi completamente disabitata e abbandonata a un destino di degrado spettrale. Di tanto in tanto si sentivano finestre sbattere a causa del vento, unico rumore che si amalgamava ai numerosi spifferi che provenivano da ogni parte della villa.

    La tenuta aveva visto giorni migliori in passato. C’erano domestici in giro per casa e giardinieri all’esterno che curavano il prato immenso che circondava la proprietà. Nessuno del paese vicino avrebbe mai potuto pensare a quello che sarebbe successo in quella villa.

    Una piccola luce riemerse dalle tenebre. Un uomo stanco vestito con un lenzuolo vagava nell’enorme atrio con, in mano, una candela.

    Era alto un metro e ottanta e molto magro, tanto da poter vedere le ossa attraverso la pelle rendendolo quasi un fantasma che si trascinava in quel posto maledetto. Era piegato quasi su se stesso e arrancava lungo le scale che portavano al piano superiore. La barba lunga e non curata gli arrivava fino al petto e i capelli, lunghi e bianchi, erano sporchi e appiccicosi.

    Quella casa non era più quel rifugio felice che aveva creato il nonno dell’uomo. In quel momento, sembrava più l’antro dell’inferno. Buio, trascurato, i muri sembravano piangere sangue ricordando, al suo inquilino, quello versato in anni di vita. La casa, divenuta spettrale, aveva visto crescere un uomo forte e coraggioso ma, allo stesso tempo, era stata testimone di quella pazzia che lo avrebbe portato a un passo dalla morte.

    L’uomo si fermò e tossì tanto forte da sputare sangue.

    Con enormi sforzi raggiunse la sua camera al primo piano tossendo più volte e lasciando macchie di sangue a terra a testimoniare il passaggio di un uomo prossimo alla fine dei suoi giorni. La stanza era sporca e il letto aveva lenzuola sudice che non vedevano un sano lavaggio da chissà quanto tempo. Appoggiò la candela su un comodino e s’infilò sotto le coperte. Gli venne un altro attacco di tosse violenta.

    Nello sforzo defecò.

    L’uomo si lasciò andare lentamente. La polmonite lo stava uccidendo. Ripensò alle sue figlie e a come le aveva trattate. Per la prima volta riuscì a essere lucido rendendosi conto di com’era ridotto.

    Cresciuto a fianco a Dio, da tanti anni gli aveva voltato le spalle abbracciando la sua pazzia; una pazzia nata dalla consapevolezza di essere un fallito e di non essere riuscito a tramandare quell’impegno che suo padre e i padri prima di lui, avevano incessantemente portato a termine. Pianse e si maledì tra i denti. Era conscio che, con il suo comportamento, era riuscito ad allontanare chiunque. La sua ossessione lo aveva fatto diventare l’uomo che non era mai stato.

    Anche i paesani avevano paura di lui.

    Le lacrime scesero sul viso. La vita lo stava abbandonando, ma riuscì, in quell’attimo, a fare pace con se stesso e con Dio. Per troppo tempo si era allontanato da lui. Troppi errori fatti, troppe umiliazioni date senza un motivo. Troppa rabbia repressa che era sfociata nella più profonda e becera cattiveria verso il genere umano.

    I suoi occhi videro quello che era stato, la sua infanzia, la sua missione in nome di un antico ordine nato tanto tempo prima. Rivide le sue vittime e sorrise. Nessuna di loro aveva diritto alla vita. Aveva viaggiato tanto, forse troppo. Una vita fatta di spostamenti, bugie, sete di sangue e vendetta. Aveva avuto un impero che gli aveva fruttato molti soldi e potere, che erano serviti al suo scopo. Una vita portata avanti con le mani che grondavano sangue dei suoi nemici inconsapevoli di una fine tremenda. Braccati e uccisi senza possibilità di sapere il perché. L’uomo sapeva come togliere la vita in tanti modi che ormai ne aveva perso il conto. Aveva visto tutti i continenti, aveva imparato tantissime lingue, aveva conosciuto migliaia di civiltà, ma di niente di tutto questo gli era rimasto dentro ad arricchire la sua persona. Dove andava, lasciava una scia di sangue che il terreno assorbiva in tutta la sua ingordigia. La lista delle sue vittime era lunga e variegata. Uomini e donne morte senza un apparente motivo agli occhi di chi trovava i corpi, ma la verità si nascondeva nei secoli, in una guerra lunga, silenziosa, invisibile. Una guerra che veniva tramandata di generazione in generazione. Troppo difficile da far comprendere a menti sciocche, troppo difficile da spiegare a chi non aveva ricevuto un addestramento mirato, un indottrinamento che sembrava distante anni luce dalla parola di Cristo, ma che incredibilmente era stata benedetta da Dio in un’epoca lontana fatta di spade, cavalli e persone fatte a pezzi. Lui era un prescelto. Lui era la cura per il male, ma non era il solo. Sapeva che altri seguivano la sua rotta in chissà quali parti del mondo, ma non doveva contattarli, non doveva cercarli. Quella era la sua missione, una vita votata al Signore e al suo volere. Era una persona integerrima solo di facciata. Una persona amata, invidiata e sempre benvoluta. Una persona che conosceva la carità ed era pronta ad aiutare il prossimo. Questo le persone vedevano il lui prima della sua pazzia.

    Nonostante tutto, era stato abbandonato, anzi, era stato lui a cacciare via tutti impaurendoli con i suoi sguardi. Tutto era perso ma aveva deciso di lasciare una speranza per chi avesse trovato la sua sacra reliquia. Era sceso nelle viscere di quella dimora per porre la prima pietra per una nuova rinascita, glielo aveva detto Dio.

    Aver ritrovato la fede in punto di morte era stata una liberazione. In quel momento capì di aver fatto in modo che il suo sacrificio non fosse vano. Qualcuno avrebbe trovato quello che aveva lasciato e lo avrebbe usato nel migliore dei modi. Forse dopo un anno, dieci o un secolo, la sua missione sarebbe stata portata a termine.

    I lampi illuminarono la stanza e il letto con su l’uomo.

    «Meam animam, et meum gladium Dei, dono ut possit vin mihi inimicos dissolvere ventu» disse con un filo di voce.

    I suoi occhi si chiusero mentre le lacrime accarezzarono per l’ultima volta un volto che, un tempo, era riuscito a essere anche sorridente e amato. Un ultimo respiro e un ultimo battito del suo debole cuore.

    Morì solo tra i suoi escrementi in una villa vuota e spettrale.

    2

    Meredith osservò la vecchia villa che era stata di suo padre. Erano tanti anni che non veniva più in quel posto. Sentì crescergli la nostalgia dentro. Di tre sorelle era quella più vecchia e quindi colei che aveva vissuto di più in quella casa. Chiuse gli occhi ripensando alle risate di quando era bambina e giocava con sua madre, le aiuole piene di fiori curati dai giardinieri che emanavano profumi variegati e dolcissimi, le corse con le sorelle più piccole a piedi nudi sul prato della tenuta e il sorriso caldo di colei che le aveva dato la vita in una notte d’autunno.

    La realtà era molto diversa. Non esisteva più alcun fiore, nessun sorriso e nessun bambino che giocava. I ricordi pieni di colore si erano tramutati in un presente grigio e cupo. I muri sembravano osservarla con cattiveria, quasi a condannarla per quella fuga fatta tanti anni prima. Quel posto non era più il paradiso dove aveva passato l’infanzia, piuttosto un antro buio carico di disperazione. Le finestre nascondevano visi che non c’erano più da tempo, come se avessero catturato le espressioni dei precedenti inquilini per poi rifletterle in quell’occasione, dando la sensazione che i fantasmi del passato fossero tornati lì per salutarla, con l’assurda speranza che lei potesse portare indietro il tempo per far rivivere antiche gioie fuggite con gli anni.

    Solo il rumore di alcuni passi fecero tornare Meredith a quella realtà.

    Due uomini scesero le scale portando un sacco con il corpo di suo padre.

    «Un attimo per piacere» disse lei con un filo di voce.

    I due si fermarono e appoggiarono il cadavere per terra. Meredith deglutì e fece un profondo respiro. Per quanto avesse odiato suo padre, voleva rivederlo per l’ultima volta. Sapeva benissimo a cosa sarebbe andata incontro, ma in cuor suo non riusciva ad accettare l’idea di non rivedere il viso di un uomo che, in passato, era riuscito a essere una persona degna di essere chiamata Padre.

    «Lo voglio vedere.»

    I portantini si guardarono increduli. Sapevano cosa c’era dentro quel sacco. Il loro lavoro era impossibile da fare se non si aveva una forte dose di pazzia e uno stomaco pronto a non far uscire la colazione del mattino.

    «Non glielo consiglio signora. È una visione forte. Non vorrei che svenisse» disse uno dei portantini.

    «Grazie, ma voglio vederlo.»

    Uno dei due uomini si chinò e aprì il sacco scoprendo il corpo fino al petto. Meredith si mise una mano sulla bocca e cominciò a piangere.

    S’inginocchiò a fianco di quello che era stato suo padre e gli mise una mano all’altezza del cuore, come se cercasse di sentire un fievole battito. L’espressione dell’uomo sembrava serena, come se avesse fatto pace con il mondo negli ultimi attimi di vita. Non poteva sapere che i due uomini vicino a lei, avevano dovuto ripulirlo dai suoi stessi escrementi prima di metterlo in quel sacco. La mano della donna si mosse lentamente sul petto dell’uomo, come a cercare qualcosa.

    Meredith alzò lo sguardo verso i due portantini, la sua espressione si era tramutata da addolorata a furibonda.

    «Gli avete preso qualcosa?»

    «No signora, niente. Perché?»

    Il viso della donna assunse un’aria decisa.

    «Mio padre portava sempre al collo un vecchio crocifisso di legno.

    Ma ora non ce l’ha più!»

    Uno dei due rimase scioccato dalla notizia. Aveva quarant’anni e da venticinque aveva a che fare con i cadaveri. La sua famiglia aveva fatto quel lavoro per decenni e mai una volta un parente si era lamentato per il loro operato. Per quanti difetti potesse avere, non era di certo uno che depredava tombe o cadaveri.

    «Signora» disse l’uomo con tono calmo, «con tutto il rispetto, noi non abbiamo preso niente. Siamo gente povera ma onesta e viviamo del nostro lavoro. Può chiedere a chiunque in paese, non siamo ladri.»

    Meredith fece un lungo sospiro e si alzò in piedi. Scosse la testa come per scacciare il tarlo della pazzia che, era convinta, aveva preso possesso della mente di suo padre tanto da ridurlo all’ombra di se stesso e, in quel momento, sentiva di essere la prossima vittima di quell’inferno mentale che aveva distrutto la sua famiglia in quanto primogenita.

    «Vi credo e... scusatemi. Mio padre portava quel cimelio sempre, non se lo toglieva mai.»

    «Con tutto il rispetto» disse l’altro uomo, «suo padre aveva perso la ragione da tempo. Si dice che abbia nascosto i suoi averi da qualche parte ma nessuno l’ha mai visto portare via niente.»

    La donna si strinse nelle spalle.

    «Lasciamo perdere questo discorso. Lo sapevo bene che era malato e che non ci stava più con la testa. Potete procedere.»

    I due portantini coprirono il corpo e lo portarono su un carro.

    Salutarono la donna toccando il cappello che avevano in testa.

    La sera fu seppellito in un cimitero a dieci miglia di distanza, con una semplice croce in pietra che portava il nome dell’uomo, l’anno di nascita e della morte. In paese non volevano che il corpo fosse tumulato nel cimitero vicino alla chiesa.

    Meredith tornò a casa. Era stata l’unica a prendersi il disturbo di organizzare quel piccolo funerale. Odiava suo padre come lo odiavano le sue sorelle. Ma lo fece solo per rispetto verso sua madre che aveva sposato quell’uomo e che era morta dopo la nascita della terza figlia.

    Da quel giorno, suo padre aveva cominciato a perdere la ragione sempre di più, allontanando le sue tre figlie esasperate.

    Durante il viaggio, la donna non si voltò mai indietro. L’unico pensiero era sapere cosa fare di quell’enorme villa.

    3

    Londra

    Giugno 1940

    La pioggia bagnava il parabrezza del C-47 Dakota in fase di atterraggio. Quel bimotore era il gemello del più famoso DC-3 che spopolava tra le linee aeree americane. Fu poi pensato di farne delle versioni per esercito e aeronautica, vendendo il velivolo anche ad altre nazioni, compresa l’Inghilterra.

    Quello era l’ultimo volo dagli Stati Uniti verso Londra. Il bimotore planò dolcemente sulla pista in cemento dell’aeroporto militare e atterrò senza alcun problema. Si diresse fino alla fine della pista e poi si girò su se stesso. Le eliche, lentamente, si fermarono, lasciando il velivolo inerme vicino a una jeep. La pioggia continuava a cadere ticchettando sul vetro della cabina di pilotaggio, un rumore che sembrava voler scandire il tempo come un orologio impazzito che voleva velocizzare la vita degli abitanti di quel pianeta, portandoli velocemente ad affrontare i tragici eventi che sarebbero arrivati in breve tempo.

    Il capitano Charles Ferguson si mise le mani agli occhi e li strofinò.

    Era stato un lungo volo, uno dei tanti che stava compiendo in quei giorni. Molte attrezzature e uomini che erano di stanza in America, erano stati fatti rimpatriare a causa della possibilità di un imminente conflitto.

    Si girò alla sua destra e osservò il suo secondo. Era da ormai sei mesi che volava con quel bravo ragazzo. Ferguson vide la sua immagine riflessa nel vetro. Aveva la barba di qualche giorno che lo invecchiava di più dei suoi trentaquattro anni. Il viso era asciutto, risaltando la mandibola pronunciata che dava un’espressione decisa al volto. Le occhiaie, sotto i suoi occhi azzurri, erano la testimonianza dei lunghi voli per fare la spola tra l’Inghilterra e gli Stati Uniti.

    «Tutto bene capitano?»

    Il comandante dell’aereo si girò verso il ragazzo mingherlino che sedeva accanto a lui. Aveva i capelli rossi tagliati corti e il viso ovale, ricoperto da numerose lentiggini all’altezza del naso.

    «Sì Brian. Tutto bene. A quanto pare siamo arrivati alla fine della nostra collaborazione.»

    Brian Parker fece un timido sorriso. Quello era stato l’ultimo volo con Ferguson e se ne rammaricava. In sei mesi e in tante ore di volo, aveva instaurato un ottimo rapporto con quell’uomo.

    «Purtroppo sì capitano. Questo è stato l’ultimo viaggio.»

    «Sai già la tua nuova destinazione?»

    Parker fece un cenno con la testa.

    «Sono stato trasferito al tredicesimo gruppo, al comando del vice Maresciallo Saul.»

    Ferguson si tolse il cappello e fissò fuori dal vetro rigato dalla pioggia.

    «Se non ricordo male, il tredicesimo gruppo si trova in Scozia e Irlanda del nord.»

    «Esatto capitano. Sono abilitato per pilotare gli Hurricane. E ora, come non mai, c’è bisogno anche di me.»

    Il comandante allungò la mano destra verso il suo secondo che la strinse.

    «È stato un onore volare con te tenente.»

    «L’onore è stato tutto mio.»

    Ferguson ritirò la mano.

    «Bando ai sentimentalismi. Abbiamo un passeggero da sbarcare. Te ne occupi tu?»

    «Sì signore.»

    Parker si alzò e sparì dalla porta della cabina. Il comandante dell’aereo odiava farsi vedere in lacrime quando si emozionava troppo.

    Era consapevole che ragazzi come lui, erano destinati a una morte prematura ai comandi dei loro caccia. Le gocce che picchiettavano sul vetro dell’abitacolo, gli misero addosso una grande malinconia.

    Immaginava cosa sarebbe successo e si domandava quale sarebbe stato l’epilogo di una guerra che era ormai arrivata anche li.

    Poco dopo, il portello dell’aereo si aprì e scese un uomo con l’uniforme della Royal Air Force.

    Simon Farrell era un tenente della forza aerea britannica. Era stato due anni in America, affiancato ai piloti militari statunitensi, per studiare la loro tecnica di combattimento aereo. Era un uomo abbastanza alto, un metro e settantacinque, di ventotto anni. Il fisico era asciutto con un accenno di pancetta. I capelli neri erano coperti dal cappello d’ordinanza e in volto portava, con fierezza, dei sottili baffi che scendevano fino al mento.

    Farrell si guardò intorno non curante della pioggia che lo bagnava.

    Fece un lungo respiro tenendo gli occhi neri chiusi. Voleva assaporare ogni fragranza della città che tanto amava nonostante fosse a qualche miglia di distanza.

    Dalla jeep scesero due uomini in uniforme. Uno aprì subito l’ombrello, coprendo l’uomo più alto in grado, e si avvicinarono a Farrell.

    «Tenente Farrell immagino.»

    Il pilota scrutò il suo superiore. Dai gradi sulle spalline capì che era un vice Maresciallo. Era alto un metro e ottanta con gli occhi azzurri e la barba incolta. L’espressione era dura e marziale. Farrell si mise sull’attenti.

    «Sì signore! Tenente Simon Farrell.»

    Il vice Maresciallo apprezzò la disciplina del pilota e gli fece cenno di mettersi sul riposo.

    «Sono il vice Maresciallo dell’aria Keith Perk, comandante dell’undicesimo gruppo della RAF. Togliamoci dall’acqua e saliamo sulla jeep.»

    I tre salirono sul veicolo. L’uomo che teneva l’ombrello si mise

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