Ipotesi di famiglia
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Book preview
Ipotesi di famiglia - Bruno Giannoni
Bruno Giannoni
Ipotesi di famiglia
Argot edizioni
Proprietà letteraira riservata
© Argot edizioni per l'edizione ebook
© 2013 Garfagnana editrice per l'edizione cartacea
ISBN 9788899735029
Due storie romanzate, a volte fatte di fantasia, che prendono spunto da fatti ed episodi realmente accaduti e da personaggi familiari realmente esistiti; un libro di memorie private romanzate in un contesto storico.
Ai tempi che non son più.
Ai ricordi che quei tempi sono.
A chi si ricordò di me prima che io fossi.
LE IPOTESI
Poniamo il caso che si voglia rimettere ordine tra le carte di famiglia e queste si sparpaglino disordinatamente in terra: il primo recupero sarà tale che troveremo nomi assieme a date e avvenimenti che possono non avere corrispondenza alcuna salvo il contesto generale dato dal cognome; se poi vogliamo farne un gioco possiamo prendere quattro immaginarie coppe di peltro, o d’argento se ne avete, ma io preferisco il peltro: è meno frivolo e rappresenta meglio il Passato, mettere in una gli anni, nella seconda i nomi, nella terza le persone e nell’ultima gli eventi particolari, di famiglia, assieme ad alcuni più generali, di contesto. Mescoliamo in ogni coppa ciò che ci si trova ed estraiamo una manciata di roba da ognuna di esse. Nasce un’ipotesi, casuale, di quella che sarebbe potuta essere la storia di un periodo della nostra famiglia se… se effettivamente tra le robe
estratte vi fossero esatte corrispondenze tra i nomi, il rapporto di parentela, l’anno, l’avvenimento. Capirete che il contesto generale resta quello di una storia familiare - i dati sono quelli - della quale si possono però comporre un discreto numero di versioni a seconda di ciò che la casualità ci porta a estrarre dalle coppe. Possono crearsi trasposizioni temporali, protagonisti di qualche evento che divengono protagonisti di altri, parentele smembrate e ricostruite su altre basi. Un gioco che può essere divertente fare e che, in ogni caso, mantiene vividi gli eventi passati e coloro che ne furono in vario modo parte. Il problema è costituito dal fatto che non sempre la casualità ti permette di dare alle ipotesi
scaturite dal rimescolio
un finale che possa poi conciliarsi con un logico prosieguo della nostra storia minima. Mi torna a mente un principio
enunciato dai miei graditi Maestri della Fantascienza di decenni passati: il nostro Universo, quello di cui noi conosciamo l’infinitesima parte nella quale siamo soggetti/oggetti, non è l’unico esistente; è uno degli infiniti possibili Universi generati per ogni minima variazione e per ogni attimo della infinità di attimi che costituiscono il nostro vivere quindi un qualsiasi casuale imprevisto avvenimento cambia completamente le storie e le esistenze portandoci nelle storie di un Universo Parallelo. Ipotesi allettante per costruire ipotesi allettanti. E lo possiamo fare rumando nelle coppe, a caso, per dare altri scenari e termini alle nostre storie familiari.
IPOTESI NUMERO UNO
Le manganellate erano cadute fitte sulla sua testa; lo avevano abbrancato e scaricato dal tram sul piazzale di Trespiano dopo essersi procurati una macchina e averlo inseguito e lo avevano accompagnato
un po’ più oltre sulla salita da cui si vedeva il Sanatorio di Pratolino. Aveva pensato di arrivare a piedi da Trespiano fino a Montorsoli e provare a prendere un treno operaio per Faenza: alla stazione Centrale lo avrebbero sicuramente preso. Lo avevano preso ugualmente, ma lo avevano manganellato prima di dargli l’olio di ricino, senza perquisirlo e uno di loro si era preso un colpo in pancia della pistola con cui era riuscito a sparare dalla tasca; nella confusione era scappato verso il cimitero e aveva saltato il muro. Adesso li attendeva, sarebbero arrivati e lo avrebbero finito spaccandogli le ossa. E intanto che aspettava voleva ricordare tutto il vissuto, forzarlo bene nella mente perché poi si liberasse veloce, al momento dovuto.
La testa sembrava esplodere per le manganelate prese e solo adesso si rendeva conto del dolore atroce al fegato e alle reni dove avevano iniziato a lavorarlo
. Ha il dubbio di non riuscire neppure a ricordarsi il nome in quella calda e stellata sera fiorentina del Luglio del 1922. Mentre cerca di schiarirsi le idee, volta lo sguardo attorno: da qualche parte c’è Mara, là in fondo, il babbo, che c’è stato portato poco tempo fa: non era sopravvissuto al trattamento punitivo
di poco tempo prima (era successo, guarda che coincidenza! la notte del 1° Maggio) impostogli dai camerati
mentre tornava dal lavoro. Elsa, Egle: lei aveva un compito da svolgere, era viva, era dalla sua parte, con lui anche se non era lì. Mamma Venusta: se non la zia Giulia, Fernando e la Lidina avrebbero potuto aiutarla anche dandole lavoro da pantalonaia.
Erano entrati lassù dal muro, dalla parte monumentale, c’era anche la tomba di famiglia lassù, erano giunti rinforzi e venivano giù tracotanti. L’avrebbero preso. L’allentamento della tensione lo aveva fatto pisciare addosso: sangue. La macchia rossastra si allargava sui pantaloni: i colpi sulle reni erano andati a segno. Adesso non restava altro che tirare i fili della breve memoria e utilizzare bene i cinque colpi rimasti. Quattro più uno.
Un esercizio mnemonico; cominciamo dal nome: si chiama… Bruno Sergio Rizieri Giannoni? Sì, perdio, gli ronza tutto in capo come avesse un nugolo di vespe. Bruno: il babbo si chiamava così e lui aveva una famiglia, anche se ormai la cosa è finita. Bruno e Venusta. Babbo e mamma. E Bruno è un primo nome. E poi? Sergio: ah, il suo nome russo piaceva allo zio Rizieri, secondo mamma Venusta. Ecco, Rizieri, il terzo nome, il fratello di mamma era stato giornalista dell’Avanti!
, era stato Socialista, aveva fatto anche la fame e preso tante bòtte e a quell’epoca, a essere così, si finiva spesso tisici. Mamma raccontò al giovane Rizieri che lo zio di cui portava il nome era morto tisico che era poco più che trentenne; gli diceva mamma che zio Rizieri aveva conosciuto Turati, Costa e la Kulishoff. Giannoni, perché? Sì, il babbo, Bruno, uno dei Giannoni che ancora hanno la tomba di famiglia nella zona monumentale di Trespiano, sopra di lui. Ci si rivoltano le ossa i Nonni (maiuscoli) Pilade e Giulia e lo zio Gino. L’altro zio Orazio seguì le orme del babbo e se ne andò a Buenos Aires, pare con un gran bel pezzo di donna, ma a cui voleva un gran bene come Bruno a Venusta. Adesso che la testa ronza meno, ricostruisce tutto perché se deve chiudere il conto deve ricordare tutto quello che c’è dentro, di chiunque siano le cose che ricorda. E di là cosa trova? Dalla parte di mamma ci sono i nonni poveri, Cherici Lorenzo da Santa Sofia nella Romagna Fiorentina, bracciante, e Maria, lavandaia fiorentina del Madonnone. Oltre allo zio Rizieri rivoluzionario
, due zie che conobbero fortune diverse da quella di babbo e mamma. Babbo fece la corbelleria di sposare una ragazza del popolo e i Nonni (maiuscoli) videro solo una volta la mamma, prima di buttar fuori casa babbo Bruno con un viatico in denaro e l’impegno a permettere gli studi al rampollo quasi bastardo ma unico discendente rimasto in Italia, se fosse nato. Tutt’ora lui non sà dove vivessero i Nonni (maiuscoli) anche se ha visitato ogni tanto la loro casa di Trespiano. Quelle ossa vivacchiano lì da sole con tanto posto ancora vuoto, ma l’animo proletario dei suoi genitori rifiuta in morte una comunione che venne negata in vita.
1° TEMPO
Via de’Neri al 22, all’ultimo piano, l’appartamento del Signor Bruno e famiglia. Dalle scale si entrava in un salottino centrale, si scendevano due scalini e una stanza ampia affacciava la sua finestra su Via de’Neri, ricettiva al chiasso della strada e delle sue botteghe. Dal salottino altri due scalini in salita e una porta-finestra portavano a un terrazzo immerso nel tetto e circondato da fioriere cariche di garofani ma anche degli aromi di piantine di salvia, ramerino, gnepitella e timo. Oltre il salottino una camera matrimoniale si affacciava sui tetti dell’isolato spingendo la sua finestra verso la cuspide della facciata e il campanile severo di Santa Croce e più in là, oltre il Montedomini, la Caserma di Cavalleria, Bellariva e lontano verso Pontassieve e chi sa dove fino a poter anche girare il mondo solo con l’immaginare. Un usciolino di legno imbiancato, dall’angolo opposto alla porta di ingresso, immetteva in un piccolo andito e da questo, su un lato, alcuni scalini menavano a una stanzina come una piccionaia, angusta e con una finestra, come una feritoia bassa e lunga, verso l’Arno e i colli di Forte Belvedere e, sull’altro, una porta bassa e stretta menava a un bugigattolo con un comodo
e un lavandino in marmo grigio e rubinetto d’ottone: lusso incredibile per quei tempi e per quel genere di case. Ma si diceva che il padrone, con palazzotto padronale in Borgo dei Greci, ricco di terre verso Pontassieve, di case e di ganze, vi avesse tenuto anni prima un bouduir con amante inclusa e quindi l’igiene, seppur necessità opinabile per l’epoca, era stata assicurata dalla sua nobile mente illuminata. L’acqua scorreva da un rubinetto anche nella cucina, così chiamata perché dopo l’epoca degli amori, tale era stata attrezzata la bella camera su Via de’ Neri che aveva ben vissuto di scene e rumori diversi da quelli delle pentole e casseruole messe al fuoco su una modernissima cucina economica di ferro. Il carbonaio di Via del Guanto forniva carbone e legna. Nella cucina trovava posto anche una moderna macchina per cucire Singer, nera con gli svolazzi dorati, il telaio in ghisa nera e il ripiano in noce lucidato. Quando babbo Bruno e mamma Venusta si erano sposati tra lo scandalo familiare dei Nonni Giannoni, due erano state le concessioni fatte a babbo prima di essere eliminato dal novero degli appartenenti alla Famiglia: una scarna buonuscita
come poteva darsi a un servitore e l’impegno solenne a permettere gli studi all’eventuale primogenito. La prima servì per affittare la casa, comprare la cucina di ferro e la macchina da cucire; della seconda usufruì Rizieri fino al termine degli studi presso il Regio Istituto Galileo Galilei.
Venusta faceva la sarta; una sarta popolana, autodidatta, aveva iniziato a imparare al Madonnone quando sua madre Maria portava a far fare rammendi fini alle lenzuola e biancheria dei signori, appena lavata. Per conoscenza con la madre la presero un periodo al laboratorio, poi cominciò a agucchiare da una camiciaia e infine fu una delle lavoranti presso un laboratorio di Via Borgo Pinti. Cucivano anche per una sartoria militare e quando si sposò riuscì a poter lavorare a casa direttamente per quella sartoria per lavori di rifinitura.
Io, Rizieri-Sergio, rampollo primogenito, anzi unigenito, nacqui in quella casa dietro Palazzo Vecchio, in Via de’ Neri, nel privilegio di un ambiente sicuro e con la garanzia che avrei potuto crescere con gli strumenti della conoscenza per guadagnarmi il diritto a mangiare tutti i giorni ma anche il diritto a capire e giudicare il mondo in cui ero arrivato. Mio padre era stato Cadetto di Marina Allievo Cannoniere e una grisella scivolosa da salire per il turno di guardia in coffa, aveva chiuso l’esperienza nella Regia Marina facendogli fornire una piastra d’argento a chiudere una frattura cranica. Era rientrato in Famiglia e poi aveva combinato quel bel casino di conoscere e innamorarsi di mia madre Venusta: non mi hanno mai raccontato i particolari ma credo sia stato giusto che serbassero per loro l’intimità di quella esperienza. Adesso mio padre lavorava come cameriere al Gran Caffè Doney alle Cascine e mamma smacchinava a giornate per la sartoria della Cooperativa Militare tra gli Ufficiali della Guarnigione di Firenze.
Andavamo, io e mamma, ogni tanto al Madonnone dai Nonni proletari, in un paio di stanze di una casaccia fatiscente vicino a un lavatoio sul greto dell’Affrico: nonostante il nome importante, nasceva a San Domenico, poco sotto Fiesole, e moriva in Arno dopo pochi chilometri, ma grazie a lui le Lavandaie ricavavano dolori, reumi, oltraggi alla propria dignità e un tozzo di pane. I tempi moderni avevano portato il comodo